La protesta dei contadini in India
Sono arrivati alla fine di novembre con camion, trattori e viveri; si sono accampati alle porte della capitale New Delhi, e nella prima settimana di gennaio erano ancora là. Sono decine, o più probabilmente centinaia di migliaia di agricoltori e braccianti indiani: chiedono l’abrogazione di tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo. E sono diventati una sfida inaggirabile per il primo ministro Narendra Modi. Perché è vero che l’agricoltura fa solo il 16 per cento del Prodotto interno lordo (2019), in termini di Valore aggiunto prodotto, ma occupa pur sempre il 55 per cento della forza lavoro. E nonostante l’enfasi dei dirigenti indiani sulle industrie moderne e hi-tech che proiettano l’India tra le “economie emergenti”, la terra e i coltivatori restano la base della società indiana – e anche il fondamento della legittimità politica della nazione.
La moltitudine assedia New Delhi
Le immagini giunte dall’India in queste settimane ritraggono vecchi e giovani, donne e uomini, perfino bambini. Su tutti dominano i turbanti dei sikh, perché in effetti è dagli stati del Punjab e Haryana, nel nord-ovest dell’immensa pianura indo-gangetica, che sono partite le prime colonne di veicoli. Diretti alla capitale, i manifestanti sono stati bloccati dalla polizia a Singhu, il posto di confine settentrionale della “Grande Delhi” (la capitale indiana è un Territorio dell’Unione, come un mini-stato). Altri contestatori sono arrivati dall’Uttar Pradesh, a est della capitale, e poi in delegazioni da altri stati. Al movimento partecipano ormai circa 500 organizzazioni di agricoltori, sindacati dei lavoratori rurali e organizzazioni sociali, con l’appoggio di vari partiti di opposizione.
Così è nato un gigantesco sito di protesta. A Singhu l’accampamento si prolunga per una decina di chilometri o forse più. Chi l’ha visitato descrive una moltitudine organizzata per resistere a lungo. Molti hanno foderato i rimorchi con paglia e coperte per difendersi del freddo invernale. Altri hanno montato tende da campeggio. Cucine comunitarie distribuiscono cibo gratuito. Gruppi di solidarietà hanno allestito dispensari medici e dormitori in edifici pubblici, lavanderie, e perfino biblioteche o atelier di musica. Ci sono palchi da cui risuonano comizi, assemblee, lezioni a cielo aperto, musica. Un reporter di Mediapart descrive decine di cartelli e magliette con il volto di Bhagat Singh, leggendario eroe socialista rivoluzionario indiano, accanto a quello di Che Guevara. Ci sono striscioni di associazioni studentesche del Punjab, quelli dei sindacati vicini al Partito comunista e quelli di altri sindacati di braccianti. Ci sono stati momenti di grande tensione con la polizia, soprattutto all’inizio. In altri momenti sembrava invece una gigantesca festa popolare. Nei primi giorni di gennaio forti piogge hanno trasformato Singhu in un mare di fango.
Chi sono i protagonisti di una protesta così determinata? Molti sono coltivatori diretti che vivono di piccolissimi appezzamenti, un ettaro o due. Altri sono mezzadri che affittano terre da coltivare. Altri ancora sono braccianti. Ci sono caste contadine e Dalit (i fuoricasta). Secondo alcune testimonianze, da ciascuno dei circa 13mila villaggi del Punjab sono partite tra cinquanta e cento persone; chi è rimasto indietro si occupa del bestiame e dei campi di tutti. Insieme ai coltivatori si sono mossi maestri di scuola, trasportatori, associazioni civiche.
Il governo ha risposto in modo sprezzante alla protesta dei coltivatori. Ha dapprima offerto di discutere qualche emendamento alle riforme contestate, a patto che i manifestanti sgomberassero le strade. Ma quando i manifestanti hanno chiarito che non avrebbero accettato niente meno dell’abrogazione di quelle leggi, i portavoce del primo ministro hanno cambiato tono. Hanno qualificato i leader della protesta di facinorosi, “di sinistra” (epiteto brandito come un insulto) e “khalistani” – riferimento al movimento armato in auge negli anni ’90 che voleva in Punjab uno stato indipendente, il Khalistan. Insomma, “terroristi”. Massa manovrata da gang criminali che vogliono smembrare il paese con il pretesto di difendere le diversità, dicevano i portavoce governativi. Il premier Modi dunque rispondeva ai coltivatori come aveva risposto al movimento urbano che esattamente un anno prima, a metà dicembre del 2019, aveva occupato un parco pubblico di New Delhi, Shaheen Bagh, in protesta contro nuove leggi di cittadinanza e di registro della popolazione che discriminano le minoranze, a cominciare da quella musulmana (il 13% della popolazione indiana). Il movimento di Shaheen Bagh aveva resistito a aggressioni e tentativi di sgombero fino al 24 marzo, quando ha dovuto cedere al confinamento per il Covid-19. I coltivatori alle porte di Delhi non si sono lasciati intimidire. Hanno inalberato cartelli con su scritto “siamo agricoltori, non terroristi”. Infine hanno costretto il governo ad ascoltarli – anche se c’è voluto l’intervento della Corte suprema, che il 20 dicembre ha ordinato al governo di sospendere le leggi in questione. Solo allora il premier Modi ha accettato di negoziare.
La Rivoluzione verde si è esaurita
La moltitudine che assedia Delhi non rappresenta l’intero mondo rurale indiano, ma una parte importante. Punjab e Haryana, seguiti dall’Uttar Pradesh, sono i principali stati produttori di grano e riso in India: quelli dove l’economia rurale è più benestante, in termini relativi. Sono gli stati dove aveva avuto più successo la “rivoluzione verde” avviata alla fine degli anni Sessanta, quando in India (e nelle Filippine, in Messico e altrove) sono arrivate nuove varietà ibride di grano e di riso “ad alto rendimento”. L’India è diventata il “caso di successo” della rivoluzione verde grazie alla fertilità della pianura indo-gangetica e all’abbondante acqua del suo sottosuolo. In Punjab e Haryana grano e riso hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80% nel 2010. Attraversare il Punjab significa trascorrere ore guardando campi di grano e risaie, a perdita d’occhio.
Già alla fine degli anni Ottanta però il suolo fertile e l’acqua di falda erano ormai esauriti, impoveriti da coltivazioni sempre più intensive. In Punjab la falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, l’acqua va cercata sempre più in profondità e spesso è inquinata dai residui di concimi e pesticidi. Se Punjab e Haryana restano i maggior produttori di grano e riso è grazie a un consumo sempre più alto di concimi azotati. Nei quarant’anni tra il 1977-1978 e il 2018-2019 la produzione è aumentata del 134% (da 126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato oltre il 600% (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo questi dati dall’economista Prem Shankar Jha, The protest against the farm laws present a familiar pattern, 16 dicembre 2020).
Mentre la rivoluzione agricola ha trasformato l’India in un grande produttore di surplus alimentari, la monocoltura intensiva ha innescato una crisi ecologica e ha gonfiato le spese di produzione.
D’altra parte, la maggioranza dei coltivatori in India sopravvive su piccoli appezzamenti. L’86% possiede un ettaro (sono definite proprietà marginali) o fino a due (proprietà piccole), secondo il State of Rural and Agrarian India Report 2020. Questo vale anche in Punjab, dove un terzo delle proprietà sono piccole e marginali e un altro terzo appena superiori ai due ettari (ma meno di quattro). Poche grandi tenute e una miriade di piccolissimi produttori.
Ad assediare New Delhi sono loro, i piccoli coltivatori, dai jat (la più alta casta rurale) fino ai sindacati dei braccianti Dalit. Non si stancano di spiegare che un paio di ettari non bastano a mantenere una famiglia, una volta detratte le spese. Rivendicano: siamo noi a nutrire il paese. Dicono che se non potranno più vendere i loro raccolti allo stato, a un prezzo garantito, per molti di loro si apre un baratro di incertezza.
In balia del “libero mercato”
La questione al centro della protesta è proprio questa: il sistema che dagli anni Cinquanta del secolo scorso garantisce ai coltivatori prezzi controllati su riso e grano. La scintilla della protesta infatti sono tre leggi di riforma del settore agricolo approvate in settembre dal Parlamento indiano in gran fretta e senza dibattito, in nome dell’urgenza di rilanciare l’economia.
Una delle nuove leggi permetterà di commercializzare la produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso (mandi) gestiti dagli stati attraverso il sistema degli Agricultural Produce Market Committees, Apcm. Il governo l’ha presentata come una riforma che “aprirà nuove opportunità per tutti i coltivatori”, perché moltiplica i possibili compratori per i loro prodotti. Il fatto è che gli attuali mercati di stato comprano riso e grano a un prezzo minimo fissato dallo stato, e forniscono anche servizi essenziali, ad esempio gli anticipi per comprare le sementi e i silos per immagazzinare i cereali. Sul “libero mercato” invece il prezzo sarà fissato dai grandi acquirenti – non certo dai piccoli agricoltori.
Non solo: il sistema dei mercati all’ingrosso di stato si regge su un altro istituto, quello del Prezzo minimo di supporto (Msp) a cui lo stato compra i raccolti di grano e riso. Smantellare i mercati di stato sarà il preludio a eliminare il prezzo minimo garantito? Il governo ha dichiarato che questo non sarà toccato, ma non ha convinto i manifestanti. “Ora dice così, ma tra un anno o due abolirà il prezzo di supporto per il grano e il riso. E allora saremo sul lastrico, ai miei figli non resterà nulla”, diceva un anziano coltivatore accampato a Singhu (citato in Why landless and marginal farmers are the backbone of farmers protest, di Anumeha Yadav, “The Wire”, 4 dicembre 2020). Il sospetto è ragionevole, nella logica della liberalizzazione anche il prezzo garantito è destinato a svanire. Prezzo minimo garantito e mercati di stato inoltre sono alla base del Sistema di distribuzione pubblica, con cui lo stato fornisce riso, farina e altri alimenti di base a prezzo calmierato alla popolazione sotto la soglia di povertà, che resta una parte considerevole della popolazione indiana.
Le nuove leggi inoltre aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate agricole, salvo casi di emergenza (era una norma anti-accaparramenti): così, secondo i critici, i grandi trader potranno comprare derrate quando la produzione è abbondante e i prezzi bassi, e immagazzinarle in attesa di metterle sul mercato quando più conviene. Infine, promuovono la “coltivazione a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il futuro compratore dei suoi prodotti. Secondo il governo, questo darà sicurezza ai coltivatori, il cui futuro raccolto sarà piazzato a un prezzo stabilito in anticipo. Ma simili contratti sono già stati sperimentati, e non sempre a beneficio dei coltivatori. Tra i manifestanti qualcuno raccontava della multinazionale Pepsico e dei contratti per i raccolti di patate: “Al momento del raccolto hanno respinto metà del prodotto dicendo che non era la qualità stabilita”, perché le patate non erano tutte della stessa misura (dalla già citata cronaca di “The Wire”).
Un sistema insostenibile?
Prem Shankar Jha, uno dei più acuti analisti politici indiani, osserva che quando l’India è diventata un produttore netto di surplus agricoli, questo ha creato una duplice crisi per i coltivatori: sono saliti i costi di produzione mentre i prezzi di mercato sono in caduta. Il sistema dei mercati all’ingrosso di stato, che negli anni ’50 e ’60 permetteva allo stato di rastrellare la produzione di alimenti essenziali per garantirne la redistribuzione a prezzi calmierati, è poco a poco diventato il meccanismo che sostiene il reddito dei coltivatori proteggendoli dalle oscillazioni del mercato. Ora, è proprio questa “protezione” che il governo vuole eliminare. La maggioranza degli agricoltori, quelli che già oggi sopravvivono a malapena, saranno lasciati alla mercé dei grandi gruppi agro-industriali.
Certo, molti sostengono che il sistema dei mercati di stato è ormai insostenibile. È vero che i silos della Food Corporation of India (Fci, ente di stato) straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ovvero complessivi 42 milioni di tonnellate più di quelle che sono considerate riserve strategiche (dati ripresi da Prem Shankar Jha nell’articolo già citato). Riso e grano possono rimanere stoccati per alcuni mesi, poi cominciano a deperire: è per questo che l’India ha cominciato a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6 milioni di tonnellate destinate a mangimi animali, perché ormai “non adatto al consumo umano”). Tra parentesi, Jha osserva che, secondo i dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a poco più di 7 miliardi di dollari; rispetto al prezzo mimino di supporto che lo stato aveva pagato ai coltivatori ha registrato un profitto di 4,18 miliardi di dollari. Lo stato ci ha guadagnato. Fin troppo facile la conclusione: “Gli immediati beneficiari [della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Fci venderà i suoi surplus” a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Alla stessa conclusione sono arrivati i manifestanti che nei loro slogan se la prendono con gli Ambani e Adani.
È anche vero che il sistema dei mercati all’ingrosso protetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo ad altre derrate non è mai decollato). E non funziona per tutti: in località più remote i mercati di stato non ci sono o sono irraggiungibili. La gran parte dei coltivatori indiani – di cereali, di cotone, ortaggi o altro – è già in balia del libero mercato. Per i piccoli coltivatori significa essere in mano a intermediari che hanno invariabilmente uno status (casta, entrature) più alto di loro e stabiliscono le regole; di grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui spesso devono chiedere anticipi per comprare sementi e fertilizzanti. Delle oscillazioni dei mercati e del clima.
Senza contare che la gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva per la sussistenza: grazie a sementi conservate dall’anno prima, da scambi di lavoro che non rientrano nei rapporti commerciali, dall’uso delle terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di terre comuni avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere, fabbriche e grandi aziende agro-industriali. Dunque è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte del complesso mondo rurale indiano. È la parte che in passato ha potuto far studiare i figli e ora sopravvive (male) grazie a quel che resta del sistema di redistribuzione costruito negli anni post-indipendenza. Che il governo Modi vuole smantellare.
I leader della protesta dicono che non se ne andranno finché non saranno abrogate quelle tre leggi. Anzi, chiedono che il Prezzo minimo di supporto sia dichiarato un “diritto fondamentale” con una nuova legge apposita. I negoziati sono cominciati alla fine di dicembre, tre ministri dell’Unione (agricoltura, ferrovie e commercio) di fronte ai rappresentanti di 40 organizzazioni di agricoltori. Il 30 dicembre questi ultimi hanno ottenuto garanzie che i manifestanti non saranno perseguiti e che resteranno in vigore i prezzi sovvenzionati per l’energia per i sistemi di irrigazione. Per il resto, il governo non risponde; nella prima settimana di gennaio i negoziati si trascinano. “Se quelle leggi passano i nostri figli non avranno più nulla”, ripetono coltivatori infagottati negli scialli nel freddo invernale. Ai bordi di New Delhi l’assedio continua.
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