La popolazione a difesa della Tailandia
Il 17 agosto 2020, sotto all’iconico Monumento alla Democrazia nel cuore di Bangkok, Pisitakun suona Absolute C.O.U.P. per decine di migliaia di manifestanti che chiedono un cambiamento politico al governo tailandese. Le elezioni del 24 marzo 2019 avevano diffuso speranza in quella parte di paese che chiedeva sommessamente un’onesta apertura politica. La giunta militare capeggiata dal generale dell’esercito Prayut Chan-o-cha è però intervenuta in modo da rendere il processo elettorale una vetrina, fragile, per i militari. Il tentativo di spostare il regime da una dittatura militare a un autoritarismo elettorale attraverso un processo che avrebbe dovuto legittimare ancora di più il colpo di stato del 2014, però, è risultato fallimentare.
Da febbraio 2020 a dicembre 2020, le richieste dei manifestanti sono progressivamente emerse e si sono adattate alle situazioni e alle opportunità politiche che si sono create mentre cresceva nei manifestanti la convinzione di voler dare voce alle proprie rivendicazioni. Nella prima fase delle manifestazioni, tra febbraio e marzo 2020, le tre grandi richieste possono essere così identificate: lo scioglimento del Parlamento eletto a marzo 2019, la fine dell’intimidazione da parte dello stato nei confronti dei manifestanti e una nuova Costituzione più democratica. A queste prime iniziative hanno risposto migliaia di giovani tailandesi. Successivamente, il loro impeto ha dato forza a un grande nuovo passo concretizzatosi nell’agosto 2020. Per la prima volta la popolazione ha rotto un tabù secolare: criticare la monarchia. Questa quarta richiesta verteva su una riforma del sistema monarchico, che ha progressivamente preso una vena repubblicana. Oltre 100mila cittadine e cittadini sono scesi in piazza a sostegno dell’opposizione alla monarchia. Così come in altri Paesi autoritari, l’emergenza da Covid-19 ha però dato al governo uno strumento per smantellare le strutture organizzative dei manifestanti, disperdendo le folle e costringendo l’intera popolazione all’isolamento. Ma, d’altro canto, il decreto emergenziale ha rafforzato la protesta contro le misure governative, anziché fermarle.
La repressione delle forze armate nell’ottobre 2020 ha mostrato nuovamente il volto militare autoritario del regime tailandese, mostrando come il movimento verso un “autoritarismo elettorale” fosse solo un cambiamento di facciata. I cannoni ad acqua, i rafforzamenti dei poteri della polizia e il dispiegamento delle forze dell’ordine ricordano alcune misure utilizzate dal governo di Hong Kong meno di 12 mesi prima per sedare le proteste anti-cinesi. Per capire come il “muro della realtà autocratica” sia stato infranto da una popolazione coraggiosa, è necessario sciogliere l’intreccio politico tailandese in tre fili. Primo, il colpo di stato del 2014 e l’instaurazione di una giunta militare. Secondo, il cambiamento di reggenza nel 2016. Terzo, lo scioglimento del partito progressista Futuro nuovo il 20 febbraio 2020.
Il sesto anno dopo il colpo di stato
Il 22 maggio 2014 il generale dell’esercito Prayut Chan-o-cha compiva il dodicesimo colpo di stato in Tailandia dalla Rivoluzione siamese del 1932. A questo seguì l’esilio forzato dell’allora Prima ministra Yingluck Shinawatra, leader del partito Pheu Tai e prima donna a ricoprire il più alto ruolo istituzionale dopo la monarchia. Come molti regimi autoritari militari, Prayut si trovò a imporre il proprio dominio senza un radicamento territoriale e una legittimità politica. Questo spiega la creazione nel 2018 del Palang Pracharath (ovvero il Partito del potere dello stato popolare), partito senza un reale dispiegamento di forze sul territorio, con l’unico obiettivo di monopolizzare l’Assemblea nazionale tailandese.
Una delle più grandi fragilità dei regimi militari è la mancanza di una legittimità popolare che vada oltre i mezzi violenti con cui essi impongono il proprio potere. Nonostante la repressione politica, Shinawatra e il Pheu Tai hanno continuato a contrastare le manovre del regime, creando una biforcazione tra la giunta militare e il necessario consolidamento della legittimità popolare. A questa complessità si aggiunge l’incapacità di Prayut di cooptare l’élite politica in maniera totale, cosa che lo ha obbligato a imporre un governo guidato da uomini appartenenti all’esercito, ma con una opposizione sia interna al paese che in esilio.
Negli anni successivi al colpo di stato, Prayut ha progressivamente cercato di modificare l’immagine del regime, da quella esclusivamente militare a una sorta di “autoritarismo elettorale”. In questo modo la legittimità popolare doveva essere garantita da elezioni formalmente competitive, ma nella pratica non-competitive. Il risultato atteso era quindi quello di far salire il Palang Pracharath a partito dominante, erodendo il partito di opposizione Pheu Tai e sgretolando ogni forma di opposizione politica. La mossa del governo è stata dettata da una fragilità strutturale e le elezioni del marzo 2019 dovevano garantire il dominio a chi governava il paese in maniera incontrastata da cinque anni.
Sempre in questa direzione è stata fatta la scelta di promulgare una nuova Costituzione nel 2017, dopo aver sospeso nel 2014 quella democratica del 2007. Prayut e la giunta militare hanno cercato di imporre un’istituzionalizzazione politica utilizzando metodi militari molto di più dei metodi politici. Per questo motivo la ratificazione popolare attraverso il referendum nell’estate del 2016 ha visto l’approvazione solo di poco più del 60% dei votanti, che però costituivano poco più della metà degli aventi diritto.
Questi tentativi si sono scontrati contro una popolazione che sin dall’inizio è stata refrattaria alla giunta militare.
La marcia indietro del re
Il secondo elemento per capire l’eruzione delle proteste è la morte di re Bhumibol “il grande” nel 2016, che ha scosso la vita dello stato. Rama IX della dinastia reale tailandese Chakri è stato il secondo re più longevo della storia dietro Luigi XIV di Francia. Venerato dalla popolazione quasi come una divinità, alla sua morte gli è succeduto suo figlio. Alla riservatezza e sobrietà del padre si sono contrapposti lo sfarzo e la spettacolarità ricercata di Rama X, ovvero re Vajiralongkorn. Gli investimenti di proprietà all’estero e il ritorno alla pratica del concubinato hanno riportato in auge lo sfarzo regale e la dominazione patriarcale.
Rama X è stato accolto dallo scetticismo della popolazione tailandese. Se da una parte l’eredità del padre era incolmabile e irraggiungibile, dall’altra il suo ostentare sfarzo e distacco dalla popolazione ha attirato più di un malumore nella popolazione. Per fare un esempio, durante la gestione della pandemia da Covid-19 e le sommosse popolari durate quasi un anno intero, Rama X ha lasciato il Paese per rifugiarsi in una località alpina tedesca.Un altro evento che ha definito il rapporto sideralmente opposto tra il re e la popolazione è il ritorno al concubinaggio reale nell’estate del 2019. Oltre a ufficializzare il concubinaggio per la prima volta dal 1921, quando ancora la monarchia assoluta regnava e questa veniva utilizzata come una pratica quasi consuetudinaria, re Vajiralongkorn ha in qualche modo contrastato il difficile progresso sociale in atto in Tailandia. Infatti, con una delle comunità Lgbtq+ più importanti in un paese autoritario e con il costante sfruttamento sessuale di molte donne e bambine tailandesi, re Rama X ha riaffermato il dominio patriarcale conferendo il titolo di “Consorte nobile reale” a Sineenat Wongvajirapakdi, una delle proprie guardie del corpo. Questo atto è stato percepito dalla popolazione come una discontinuità negativa con la condotta adottata da Rama IX.
Il sentimento anti-monarchico esploso durante l’estate del 2020 è quindi frutto di una serie di pratiche in totale contrasto con la realtà sociale tailandese. Questo sentimento di quasi mutua ostilità tra la popolazione e la corona ha fatto entrare il sistema politico in una dimensione ancora più fragile. Per la prima volta nella storia contemporanea tailandese il re, il governo e la popolazione non solo non sono allineati, ma non sembrano avere delle connessioni di mutua complementarità. Anzi, questi tre attori centrali nella vita politica di ogni paese sembrano essere in una costante relazione di tensione, mischiando i ruoli e lasciando la popolazione nella fragilità di una posizione dominata da due attori apertamente ostili.
I partiti
Il monopolio militare della Commissione elettorale preposta a salvaguardare le elezioni e i brogli elettorali contestati dalla comunità internazionale hanno aggravato una relazione già tesa tra la popolazione e la giunta militare. Nonostante ciò, una delle scintille che ha appiccato l’incendio di rabbia popolare è stata la chiusura del partito politico Phak Anakhot Mai, ovvero il partito del Futuro nuovo, il 20 febbraio 2020. Molti giovani si sono sentiti non solo traditi dalla patina autoritaria sempre più evidente sulla parola “democrazia” incisa nella nuova Costituzione, ma anche pugnalati da un clima politico ostile alle rimostranze delle fasce più giovani. Formato da una piattaforma di progressisti, avvocati e accademici per i diritti umani, questo partito è stato votato da oltre il 17% della popolazione, confermando una intransigente opposizione alla giunta militare che avrebbe rifiutato di essere cooptata dalle politiche del governo centrale. Se viene aggiunto a questa equazione il Pheu Tai, ovvero il più grande partito di opposizione tailandese, la giunta militare ha perso la legittimità elettorale. Il Pheu Tai, con oltre il 22.24% del voto popolare, si è attestato come secondo partito nazionale, a soli 600mila voti dal Palang Prachart.
A questo punto il risultato elettorale ha evidentemente mostrato come i piani della giunta militare fossero falliti nei termini sperati dal Generale Prayut. La chiusura del partito del Futuro nuovo è stata quindi dettata dalla necessità di prevenire una possibile alleanza tra i due maggiori partiti di opposizione, che avrebbero creato una minaccia tangibile al governo. Allo stesso tempo, bandire Futuro nuovo ha messo in evidenza il fallimento del tentativo del sistema militare, nei cinque anni di regime, di far passare il proprio consenso senza apparenti azioni di forza.
Il risultato è stato quello di scegliere tra porre fine alla giunta militare dopo il risultato elettorale o mantenere il proprio potere e scatenare la reazione di centinaia di migliaia di tailandesi in piazza per protestare contro il governo. Se la prima opzione avrebbe probabilmente segnato una nuova transizione del regime tailandese, la seconda scelta non ha chiuso la porta a questa eventualità ma l’ha resa più violenta.
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