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La politica ai piedi di Draghi

26 Febbraio 2021
Giulio Marcon

Con l’avvento di Draghi nella politica italiana, i paragoni con il governo Monti di dieci anni fa si sono moltiplicati. Ma questi paragoni sono fuori luogo. Allora Monti doveva tagliare la spesa pubblica, fare politiche di austerità, riformare le pensioni, rispondere ai vincoli del Patto di Stabilità europeo. Oggi Draghi deve gestire una immensa mole di finanziamenti, fare politiche di investimenti pubblici ed è libero dai vincoli europei. Monti doveva fare politiche restrittive e di tagli, oggi Draghi può fare politiche espansive e di spesa. Monti è un professore bocconiano, Draghi un banchiere gesuita. Monti si è formato nel milieu neoliberista, Draghi nelle scuole della Compagnia di Gesù e ha avuto come maestro il keynesiano Federico Caffè. Monti si è dimostrato un politico sui generis, naif; Draghi nei suoi anni di Banca Centrale Europea ha dimostrato di essere un fine politico, trattando con la Merkel e Macron, e – soprattutto – di sapere, da buon gesuita, come funziona il potere. E nella crisi di governo – la prima volta nella storia delle crisi di governo – ha consultato anche le parti sociali e non solo i partiti. Nonostante ciò Monti conosceva meglio l’Italia e soprattutto la sua borghesia – quello che ne è rimasto – mentre Draghi l’Italia di oggi la conosce poco e conosce poco anche gli italiani: senza mettere troppo piede alla Trilateral al Bilderberg è un frequentatore dell’establishment globale e dell’élite finanziaria mondiale.

Alla luce della formazione del nuovo governo però un altro confronto irriverente si impone, quello tra Draghi e Cencelli. La compagine di governo è infatti quasi un caso di scuola nel sapiente dosaggio tra le varie componenti delle forze politiche: una lezione di doroteismo, quello che serve – dirà qualcuno – per far partire questo governo e per consentire di arrivare all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.

La composizione del governo Draghi è indigeribile. A fianco di ministri validi e apprezzabili come Bianchi, Speranza, Orlando, Giovannini (ma che ci sta a fare al ministero infrastrutture?) c’è poi l’elenco di presenze imbarazzanti. Brunetta alla funzione pubblica è una mina vagante per i lavoratori della pubblica amministrazione. La Gelmini è ancora ricordata come una delle ministre più odiate dagli studenti: fu lei a cambiare con il governo Berlusconi la denominazione del Ministero della Pubblica Istruzione in Ministero dell’Istruzione. Erika Stefani da ministra degli Affari Regionali del primo governo Conte ha dato manforte all’autonomia differenziata delle regioni leghiste. Il tecnocrate liberista Colao lo immaginiamo accompagnato al suo ministero dai consiglieri della McKinsey, come ha fatto quando era a capo della commissione istituita dal secondo governo Conte. Roberto Cingolani – nuclearista e responsabile del settore innovazione di Leonardo, che fa i cacciabombardieri F35 e vende sistemi d’arma ai paesi in guerra – a un ministero della Transizione ecologica, una definizione affascinante dietro la quale rischia di esserci ben poco.

Praticamente tutti i commentatori e gli analisti hanno evidenziato come l’arrivo di Draghi abbia segnato il fallimento più o meno definitivo della politica e delle istituzioni parlamentari. Il governo Conte ha fatto una fine invereconda, Renzi – tronfio per la mano di poker vinta – si avvia a perdere tutta la posta in un paio di anni, dedicandosi a qualcos’altro dopo la politica: magari agli affari. I cinque stelle sono stati travolti dalla loro pochezza nel fare qualcosa di buono una volta giunti al governo. Il Pd incapace di fare il partito di sinistra, ma anche quello di centro e pure quello di centrosinistra: sostanzialmente incapace di fare un partito. La sinistra radicale, lasciamo perdere. Ma anche il populismo di destra ne esce malconcio: arrivata la pandemia, la solita tiritera antimmigrati non ha funzionato più. E comunque è lì sempre, che cova sotto le ceneri.

Dopo i governi tecnici nulla è stato come prima. Dopo il governo Ciampi nella prima metà degli anni Novanta, furono cancellati i partiti della prima repubblica e arrivò Berlusconi. Dopo il governo Monti, poco meno di dieci anni fa, fu travolto il bipolarismo e arrivarono i cinque stelle; e dopo Draghi le incognite sono veramente molte: sicuramente verrà spazzato via l’equilibrio – chiamiamolo così – di questi anni sostituito da qualcosa di nuovo, che includerà forze e leader nuovi, forgiati probabilmente ancora una volta dalla temperie populista – magari soft – e mediatica. E dai poteri economici.

Draghi nei suoi anni di Banca Centrale Europea ha dimostrato di essere un fine politico, trattando con la Merkel e Macron, e – soprattutto – di sapere, da buon gesuita, come funziona il potere.

La politica non è sicuramente parte della soluzione, ma è sicuramente solo una parte del problema, che è ben più vasto. È un problema complessivo di classi dirigenti: le inconsistenze di una parte della politica fanno il paio con quelle del gotha dell’economia, della magistratura, della cultura, dell’accademia, eccetera di cui si parla sempre troppo poco. Una volta c’erano Alex Langer ed Enrico Berlinguer e oggi abbiamo Vito Crimi e Faraone. È anche vero che una volta avevamo Adriano Olivetti e Alberto Pirelli e oggi abbiamo Gianluca Vacchi e Carlo Bonomi. Le classi dirigenti italiane sono completamente inadeguate, quel po’ di borghesia seria e illuminata che c’era si è polverizzata, gli intellettuali sono solo organici a sé stessi, buona parte degli imprenditori si dedicano alla finanza. Si può dire così: siamo passati dalla ribellione dell’élite di Christoper Lasch alla secessione delle classi dirigenti dallo Stato e dalla comunità di appartenenza. Nella repubblica internazionale del denaro, i ricchi italiani non sentono più alcun obbligo per il loro paese.

Non c’è una società civile buona contro la politica cattiva. Il degrado dell’Italia è purtroppo generalizzato: il terzo settore ha fatto una fine bruttina, i movimenti non esistono praticamente più e quando fanno qualcosa sono residuali, il sindacato è caduto sempre più in difficoltà, nonostante sia riuscito a ottenere il blocco dei licenziamenti. La pandemia ha accentuato le dinamiche individualistiche, autocompiaciute, consumistiche di una politica diffusa, anche quella della società civile che pure per tanto tempo ha rappresentato una realtà importante nel nostro paese.

La politica – sepolta dai poteri forti, che non hanno bisogno di frequentare i parlamenti – si è ridotta a surfare e a lisciare i sentiment dell’opinione pubblica, a destreggiarsi tra poco nobili interessi, a praticare un consociativismo di fatto in cui la propria sopravvivenza prende il sopravvento sulla visione generale, sul bene comune. Il trasformismo così non è semplicemente un’escrescenza, ma è un fondamento endemico della politica: e la corsa al centro ne è stata la più plastica espressione. Se tutti vanno al centro, sarà indifferente spostarsi da un punto all’altro di questo luogo così ambito. La politica non si auto-riforma da sola e i cambiamenti dall’alto – ad esempio con la riforma elettorale o con le modifiche costituzionali – non hanno prodotto molti effetti in questi anni. Anche le poderose spinte dall’esterno – come fu tangentopoli negli anni novanta – hanno posto fine ai partiti più importanti e pensionato alcune personalità politiche, ma alla fine non hanno cambiato granché nelle dinamiche e nei comportamenti. Un cambiamento radicale della politica può venire solo dalla forza di un sommovimento radicale della società. Tutto ciò, oggi come domani, può prendere due strade: quella populistica inevitabilmente di destra ed escludente – attualmente la strada più battuta – oppure quella egualitaria e di classe capace di ricostruire le ragioni di una solidarietà e di una socialità diffusa, profondamente democratica e aperta. L’ambiente è sempre di più un tema centrale, il tema, intorno al quale costruire una visione diversa dell’economia e della produzione, degli stili di vita e dei consumi, della giustizia sociale e della democrazia.

Ricostruire delle prospettive nuove e diverse significa lavorare nel profondo e sul lungo periodo. Nel profondo perché è necessaria una nuova alfabetizzazione politica e culturale – servono quelle che una volta venivano chiamate scuole quadri – saperi e competenze politiche e sociali, fuori dall’università, una nuova pedagogia dell’intervento politico e sociale che si coniughi con pratiche intelligenti e però veramente concrete, radicali e disobbedienti quando serve. Sul lungo periodo perché oggi tattica e politicismi – una specie di ballo della mattonella – non servono più a niente, perlomeno non servono a chi vuole seguire la strada della trasformazione reale. Ripartire dalla politica sembra ai più una perdita di tempo: si ritorna sempre agli stessi vizi, alle stesse contraddizioni, alla stessa impotenza. Per dirla con Osvaldo Gnocchi Viani – il fondatore della Società l’Umanitaria e della prima Camera del Lavoro a Milano alla fine dell’ottocento – più che dai partiti politici, bisogna ripartire dai partiti sociali, in cui la politica si mescola attivamente con le pratiche sociali: l’auto-organizzazione, il mutualismo, la cooperazione quella vera, la pedagogia sociale, il welfare dal basso. E poi, bisogna riprendere a studiare veramente la società italiana – le classi sociali, la mobilità, eccetera – e il potere, la ricchezza, l’élite. Uno studio che non può essere la solita grande e superficiale narrazione di qualche intellettuale e accademico, ma un’analisi empirica, fattuale, documentata. La società deve tornare al centro della riflessione e dell’azione perché, per dirla con Pino Ferraris, la sinistra o è sociale o non è. Ecco perché quello di cui abbiamo bisogno oggi, è di intraprendere una lunga marcia nella società italiana.


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