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La pandemia in Senegal, una lettera

21 Luglio 2020
Adama Ndao

Traduzione di Mimmo Perrotta.

Il 29 giugno il presidente del Senegal Macky Sall annunciava (in videoconferenza, perché in quarantena a casa in seguito a un contatto con una persona positiva): “Quando mi rivolgevo a voi il 23 marzo scorso per proclamare lo stato d’emergenza (…) il nostro paese era a un totale di 79 malati, 8 guariti, zero decessi e 71 pazienti in cura (…). Alla data di oggi, il nostro paese totalizza 6.698 persone con un test positivo, di cui 4.341 guariti, 108 deceduti e 2.248 attualmente in cura e un malato evacuato (in Francia) (…) Devo tuttavia ricordare, con insistenza, che la lotta contro la pandemia non è ancora finita. La malattia è sempre là e tutte le proiezioni mostrano che il virus continuerà a circolare nei mesi a venire”. Terminava poi il suo discorso con questa frase: “ho deciso di togliere lo stato di emergenza e il relativo coprifuoco a partire da domani”.

Uno stato di emergenza che raccomandava la chiusura, tra gli altri, dei luoghi di culto, delle scuole, di bar e ristoranti, delle sale sportive e che imponeva degli orari ridotti per le istituzioni pubbliche e amministrative. A questo si aggiungevano l’obbligo di portare la mascherina e i controlli della temperatura nei negozi e nelle farmacie del centro città. Delle misure drastiche particolarmente apprezzate dall’opinione pubblica, ma che non tenevano conto delle pressioni sociali e religiose. In effetti, qualche settimana dopo queste decisioni, Macky Sall tornava sulle sue posizioni e autorizzava la riapertura dei luoghi di culto, all’avvicinarsi della festa del capodanno musulmano. Ma l’obiettivo strategico del governo era comunque raggiunto: nel corso del mese di maggio il Senegal era citato come esempio da vari media europei e americani per il suo piano di risposta e il modo in cui aveva affrontato la crisi. Bisogna sapere che da ormai un anno il paese è impegnato a preparare i Giochi olimpici della gioventù previsti per il 2022. Un obiettivo da non mancare e per il quale sono adottate tutte le strategie possibili: non è possibile rinunciare al riconoscimento internazionale per essere il primo paese africano ad accogliere un tale evento. Allora sì, per preparare questo appuntamento storico, il lavoro comincia dall’immagine internazionale e questo anche in tempi di pandemia.

Quello che non è stato menzionato negli articoli e nei documentari che hanno elogiato il caso senegalese è che il piano di risposta alla Covid-19 è realizzato e sostenuto essenzialmente grazie all’intervento e l’impegno delle ong locali e internazionali. Sono le ong che si spostano nei quartieri svantaggiati dove l’autoconfinamento è impossibile, per sensibilizzare gli abitanti sui comportamenti da tenere. Sono le ong che impiegano il loro personale per sostenere il sistema sanitario, certo più solido di quello di molti paesi vicini, ma che ha ancora vari punti deboli. Sono ancora le ong che mobilitano fondi per comprare derrate alimentari e distribuirle alle persone che non possono più lavorare a causa delle misure adottate dal governo. In effetti il telelavoro è certo una soluzione possibile per un buon numero di aziende di Dakar, ma è impossibile da adattare al settore informale che rappresenta la maggior parte dell’economia del paese.

Sono sempre le ong che forniscono le mascherine e il gel idroalcolico nelle strutture sanitarie e che, come accade molto spesso, compensano le carenze del governo.

Quello che non è stato menzionato negli articoli o nei documentari che hanno elogiato il caso senegalese, inoltre, è la distribuzione di svariati miliardi da parte del governo, subito sviati da parte dei suoi agenti: varie tonnellate di riso destinate alle popolazioni più vulnerabili si sono ritrovate nelle mani delle elite politiche. In alcune regioni del paese come la Casamance, la penuria d’acqua ha suscitato manifestazioni, represse violentemente dalle forze dell’ordine.

Dunque sì, ufficialmente il Senegal gestisce piuttosto bene la propria crisi Covid-19. E i comunicati quotidiani sull’evoluzione della situazione sembrano alimentare questa ipotesi. Ma la realtà è che il Senegal non ha la capacità di prendere in carico i casi gravi (56 letti in rianimazione per 16 milioni di abitanti). E la realtà è anche che il Presidente aveva affermato, su un canale di informazione internazionale, che se i casi fossero aumentati avrebbe indurito le misure.

Bisogna aggiungere che le dichiarazioni riguardanti la resistenza dell’Africa al virus non possono che confortare il presidente del Senegal nelle proprie posizioni. Numerosi specialisti hanno evocato la giovinezza della popolazione africana e la sua resilienza alle epidemie come argomenti favorevoli alla resistenza al virus. È il caso dell’antropologa dell’Oms Julienne Anoko, che ha spiegato che vari paesi africani avevano attraversato grandi epidemie come il Colera e l’Ebola e che, di conseguenza, le popolazioni africane erano più coscienti del pericolo e più pronte a rispettare i gesti di sicurezza. Ma l’Africa è soprattutto un continente molto grande. Ci sono molte similitudini tra i paesi africani, ma anche molte differenze. Il rapporto alla malattia e al rischio non è lo stesso in Senegal rispetto al Marocco o alla Repubblica Democratica del Congo. E non tutti i paesi africani sono “abituati” a gestire crisi epidemiche. D’altra parte, quello che non è abbastanza noto e che tuttavia unisce i paesi africani, in particolare in una crisi come questa, è l’estrema debolezza delle loro strutture sanitarie. A questo si aggiunge la presenza di patologie che aggravano la Covid-19, come il diabete e l’ipertensione, e malattie, come l’Hiv, sempre molto diffuse sul continente. E il Senegal non fa eccezione.

La giovinezza e l’immunità sono senza dubbio delle risorse, ma affinché esse abbiano un effetto realmente positivo sarebbe necessario che le popolazioni fossero sostenute da parte dei loro Stati. Una popolazione non può salvarsi da sola, soprattutto in un contesto in cui regnano la povertà, il settore informale, la mancata presa in carico della disoccupazione, l’assenza di acqua corrente e in cui dominano modi di vita comunitari e famiglie numerose. Tuttavia è esattamente questo che il presidente Sall chiede al suo popolo: che ciascuno si responsabilizzi!

A forza di ripetere che siamo giovani e immunizzati contro molte malattie, il Coronavirus perde la sua pericolosità e diviene un terreno di regolamento di conti. In Senegal, molti giovani e meno giovani si indignano di fronte alle allerte lanciate dall’Oms in merito al disastro che il virus potrebbe causare in Africa. Ci si rallegra del fatto che la conta dei decessi è più bassa che in Europa e rispetto a quanto previsto dall’Oms. Il virus è diventato un gioco o una sorta di vendetta sulla Storia: per una volta, il resto del mondo vedrà che l’Africa è forte. In Senegal, si sente spesso dire che il virus viene dall’Europa. Un argomento che contribuisce a ravvivare tensioni storiche e a generare odio.

Quello che però ci si dimentica di vedere e di dire è che in Senegal il rapporto con la malattia è molto particolare. C’è una sorta di omertà su questo tema. Non si parla di malattia. Quando qualcuno muore, non si cerca di sapere perché né come e non si fanno domande. Inoltre, il peso delle superstizioni, in un contesto come quello che attraversiamo, non è da trascurare. Quando le perone hanno dei sintomi da Coronavirus, i medici spiegano che spesso non vogliono farsi visitare, perché “in ogni caso il Coronavirus non esiste”, “non questo, non può essere questo”, “è una malattia europea, non è di qui”, “in ogni caso i test non sono più affidabili”. È in ogni caso per i morti che ci si lamenta ogni giorno, ma che ci si affretti a tacere e a seppellire prima che possa essere effettuata un’autopsia, per paura di essere messi all’indice, esclusi dal gruppo sociale o di perdere il proprio posto.

L’ironia della situazione è che il virus è associato all’Europa. Si vanta la capacità del Senegal di gestire questa crisi meglio della Francia. Parallelamente, Macky Sall, soprannominato dai senegalesi “il deputato di Macron”, ricalca le proprie decisioni su quelle del suo omologo, imponendo misure drastiche nel mese di marzo (quando i francesi cominciano a essere confinati), quando in Senegal non c’è che qualche caso ufficiale. Nello stesso modo, mette fine a tutte le sue misure quando il de-confinamento comincia in Francia, mentre in Senegal la situazione esplode. Insomma, noi non avremmo niente a che vedere con la Francia, saremmo più resistenti e meglio preparati al virus, ma il nostro calendario di gestione della crisi ricalca il modello francese.

Tutti questi elementi contribuiscono a sviluppare un certo rifiuto tra la popolazione che ha ripreso il suo ritmo normale, dopo l’ultimo annuncio del Presidente. Ci è capitato anche di sentire “continuiamo la nostra vita, vogliamo mostrare che non abbiamo paura”. Ma mostrare a chi, esattamente? Al virus? La difficoltà sembra risiedere nell’incapacità di alcune persone di identificare il virus non come una minaccia terroristica o un terreno di gioco tra Senegal e Francia, ma semplicemente come una pandemia da prendere sul serio.

Se, dall’annuncio dello stato di emergenza, le persone sembravano coscienti del pericolo di questo virus, al punto di disertare le strade e di essere estremamente prudenti, dopo il ritiro dello stato di emergenza la vita ha ripreso il suo corso. I casi di contagio possono aumentare, il virus può continuare a circolare più che mai, i morti possono diventare più numerosi, ma il Presidente ha parlato. E questo vale più di tutto, ben più della realtà e ben più della coscienza collettiva.

Per concludere, citerei la fine del discorso del presidente Sall (che, devo ricordarlo ancora, è in quarantena in questo momento), del tutto incoerente con l’inizio del suo discorso: “Miei cari compatrioti, ponendo fine allo stato d’emergenza, ricordo, allo steso tempo, che l’emergenza sanitaria è sempre là e ci impone un dovere: dovere di vigilanza, dovere di responsabilità individuale e dovere di responsabilità collettiva. Il pericolo è sempre là e noi dobbiamo continuare la lotta”.

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