LA PALESTINA E NOI
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Non ci sono voci palestinesi in questo blocchetto, perché dei palestinesi ci arrivano solo immagini strazianti e conteggi dei morti. Non siamo riusciti in questo momento a raggiungerli con le parole come può fare una rivista, ma il nostro sguardo è a loro, le nostre orecchie sono a loro, tutto il nostro desiderio di vita è a loro rivolto. Solo una parola, come una litania o una preghiera rivolta a nessun dio: ceasefire, ceasefire. Non vogliamo però parlare in loro nome o con i loro autoeletti rappresentanti. Vogliamo che abbiano il diritto a una voce propria.
Con le parole abbiamo continuato però a interrogarci e a interrogare noi stessi, noi di fronte alla violenza e al genocidio in Palestina.
Abbiamo provato, anche attraverso le persone interpellate, a fare un esercizio di inversione semantica radicale.
Alcune parole al centro, la ricerca del loro contrario o dei loro sinonimi, nel tentativo di comprendere chi siamo quando parliamo di Palestina, chi vogliamo essere, chi crediamo di essere, da che parte della storia siamo.
La sicurezza per un popolo viene dalla conoscenza e dal rispetto dei diritti di quello che gli vive accanto. Infliggere più dolore possibile agli altri non è un modo per difendere e legittimare la propria esistenza e presenza.
La violenza inflitta può tornare a noi, sulla nostra carne e nella nostra esperienza individuale, come crisi di una visione del mondo basata sulla violenza. Cedere, perdere, riconoscersi sconfitti e deboli dopo essere stati aggressori è un processo di riacquisizione della propria umanità spogliata dalla retorica delle identità nazionali, religiose e culturali.
La Shoà è stata un crimine contro gli ebrei, ma la sua memoria serve a riconoscere tutti i crimini commessi contro tutte le minoranze, contro i processi di disumanizzazione e cancellazione dell’altra e dell’altro che offendono l’umanità tutta intera.
La condizione di vittima e la memoria del genocidio subìto non possono diventare un’arma di vendetta nè di giustificazione per una aggressione senza fine agli altri.
L’opposto dell’oblio non è la memoria ma la giustizia.
E la giustizia si basa sul riconoscimento collettivo e pubblico prima di tutto della verità di ciò che è accaduto, prima che su pene ed assoluzioni somministrate da tribunali e leggi, con i loro limiti di azione e di intervento.
La solidarietà fra gli oppressi è un campo di memoria, di sostegno concreto, un repertorio di pratiche di resistenza; le forme di lotta pacifiste – come le campagne per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni – sono state un’arma cruciale di ricomposizione politica e di diffusione culturale della protesta nella lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Il pacifismo è l’unica strada, tutto il resto sono “stronzate militariste”, e il pacifismo è solidarietà internazionale, impegno ad ascoltarsi anche quando difficile e doloroso, è resistenza, è mobilitazione, dissidenza etica e culturale dai linguaggi e dalle culture della guerra, dell’oppressione, della disumanizzazione, ed è impegno per la giustizia.
Ariel Bernstein, ex soldato nell’esercito israeliano ci porta nei suoi incubi, nel coraggio della sua resa, nella sua speranza nel futuro che si nutre della necessità di continuare a guardare, capire, documentare ciò che accade su quella terra per superare il trauma. Stefano Levi Della Torre critica radicalmente qualsiasi possibilità di utilizzo della Shoà come strumento di aggressione e lo fa argomentando la fine dell’eccezionalità dell’esperienza ebraica nella storia occidentale in favore della sua esemplarità nella storia umana. Giancarlo Gaeta ci accompagna nei paradossi della memoria come vendetta. Infine, Maria Cristina Ercolessi e Noor Nieftagodien, Salim Vally, Roshan Dadoo in dialogo con Francesco Pontarelli ci mostrano la Palestina vista dal Sudafrica, la storia di un legame fra oppressi e di una lotta decoloniale che non è finita.