La mosca e la bufera
1. Essendo una chiacchierata e non un’intervista (non potremmo mai farti questo, caro Milo) lanciamo dei semi, delle zampette. Puoi farne tutto ciò che vuoi. Non specificheremo chi dei due dice cosa, quell’incubo scolastico. Ti lasciamo libero e viceversa ci dimentichiamo un po’ di noi, siamo in treno e questo ci salva da paesaggi consolidati, paesaggi a cui dobbiamo qualcosa.
P.s. Non sappiamo ancora di cosa parleremo su questo tavolo ma sappiamo già come si intitolerà il pezzo (se ci sarà, alla fine, un pezzo). Bene, si intitolerà La mosca e la bufera.
Qual è il primo sogno di cui hai ricordo, Milo? Io ricordo questa canzone che suonava da una radio portatile dentro una delle nostre tante case cambiate, salivo le scale nel sogno e mi ritrovavo nella stanza di mia sorella comunista. La canzone era un inno piratesco. Mia sorella stava architettando con degli amici svampiti e cupi un modo per far finire una guerra in corso. Col tempo del sogno, quando secoli e secondi sono alleati, mi rendevo conto che era lei l’artefice di quella guerra. La sua punta. Lei in quel gruppo anarchico e molle. Il sogno finiva con una bomba che veniva sganciata dal gruppo. Ricordo che nel sogno nostra sorella avvisò solo i parenti più stretti che sarebbe stata proprio lei a sganciare la bomba: avvisò con un’unica frase papà, mamma, suo fratello quasi coetaneo, noi gemelli arrivati dopo. Ma all’epoca del sogno decidemmo di non sottrarci alla bomba e il sogno si interruppe con questa morte pienissima, assolutamente fragorosa e impossibile. Il volto di mia sorella mentre sganciava la bomba da neanche troppo su, gli occhi che ci guardavano severi sembrano dirci ‘avete scelto così e io non posso farci più niente’.
C’è un sogno della mia infanzia che mi è rimasto impresso per sempre. Siamo nel 1960 e mi trovo in un campetto di calcio con i compagni di classe. Ed ecco che all’improvviso vediamo entrare dagli spogliatoi dei giocatori in maglia bianca. Non parlano la nostra lingua ma ci fanno segno che vogliono giocare con noi, si presentano uno per uno, ci stringono la mano e dicono i loro nomi. E noi li ascoltiamo sbigottiti: Puscás, Di Stefano, Gento, Santamaria, insomma il Real Madrid degli anni d’oro, quello che collezionava Coppe dei campioni! Inizia la partita. Colpi di tacco, dribbling, rovesciate, calci d’angolo che si infilano all’incrocio dei pali, tutto un repertorio di prodezze a cui prendo parte, sorpreso di giocare così bene. Un bel sogno, non c’è che dire. Ma dopo una settimana iniziano i guai. Decido infatti di farlo passare come un fatto reale e nel tema in classe voglio convincere tutti che quella partita è davvero avvenuta domenica 23 ottobre al campo Pirelli. “Guardate, ho ancora la gamba che mi fa male per un fallo di Francisco Gento!” Vengono chiamati i miei genitori. E qui la cosa diventa seria. Mio padre si schiera totalmente con il maestro e mi dà del bugiardo, mentre mia madre mi difende a spada tratta, sostiene che comunque il tema “è ben scritto”, “pieno di fantasia”, “originale” e altre belle frasi da madre innamorata. La disputa va avanti per giorni e giorni, diventa l’argomento di ogni cena, con posizioni sempre più contrapposte e parole violente. Potenza di un sogno e di un tema!
Come ti immagini la morte? Io penso di averla già fatta. Una cosa che ho fatto già. Nei sogni accadono le cose che ti aspettano. Per esempio il volo, pensa al volo. La sensazione misuratissima del volo. Mi spiace che, se da piccolo volavo davvero altissimo, adesso non riesco che a volare da qui a lì. Nel sogno me lo dico anche: ‘vedi, è meno dell’altra volta. Sei di meno. L’altra volta i tralicci li superavi, ora devi starci attento’. E allora ti chiedo, oltre a come immagini la morte, come immagini il volo. Io la morte l’ho provata in sogno e se il sogno non sbaglia, sarà come uno starnuto, esattamente un abbraccio tra il secondo prima di starnutire (bocca aperta e consapevolezza che sta arrivando) e il secondo dopo aver starnutito (il piacere grande di qualcosa che si sgonfia in pace).
La morte sconfigge la mia immaginazione, è una potenza così assoluta e tirannica da annientare ogni possibilità di rappresentarla, un po’ come il dio di certe religioni orientali che a volte si racchiude in una sillaba e a volte dilaga tra le costellazioni. Ma ciò che mi affratella è il tuo discorso sul volo. Mi ha sempre turbato il legame tra il volo e la morte. Pensa a quell’atleta sovietico, negli anni ottanta, che in un tuffo rovesciato batté la testa sulla piattaforma e si sfracellò nel suo sangue. Pensa al folle volo di Ulisse, al pilota aereo della poesia di Yeats, al Tuffatore di Paestum che congiunge il regno dei vivi a quello dei defunti, come Orfeo. Oppure pensa all’alpinista infallibile caduto tra le rocce, la settimana scorsa, per trecento metri. Certo, sono tante le immagini che legano la morte alla caduta. Ma mi piace immaginare anche il percorso contrario, dal basso verso l’alto, quello del saltatore che in uno stadio di atletica supera l’asticella, ci guarda, ci saluta e continua a salire, lascia a tutti noi la sua asta di carbonio e prosegue il suo volo.
Ricordi la prima poesia che hai scritto? A me di queste prime volte piacciono i dettagli e i motivi. Il dettaglio della mia prima poesia: mi frullavano questi versi in testa da parecchie ore di sollazzo al banco di scuola alberghiera, sarà stato il primo superiore. Capita il tema di italiano e faccio di tutto per infilare quella poesia che nella mia testa era chiara, finita e rifinita. La ficco proprio in coda al tema. La prima riga non la ricordo ma continuava così ‘precipito in un vuoto d’aria/ forte è l’abbandono di cui mi vesto’. Il suo essere tremenda all’epoca mi pareva un buon movente per scriverla. Avevo il terrore (come adesso) di scrivere cose che mi piacessero, così come preferivo stare assieme a persone che non mi stavano simpatiche (adulti, Dio, eccetera). Questo è ciò che ricordo io della prima poesia (come vedi rispondiamo anche noi per non lasciarti l’incombenza di doverlo fare in silenzio, da solo, a mo’ di conferenza) e chiaramente il motivo di quella prima poesia scritta su quel tema era: “professore… Dovrai dirmi qualcosa, finalmente. Finire così un tema è allarmante e da adulti: puoi capire”. Immaginavo che mi avrebbe chiamato in qualche contesto, tra una lezione e l’altra per parlare seriamente della poesia nel tema. Invece niente. Presi un voto semi-buono come sette ma non mi disse mai assolutamente nulla sulla poesia. (È capitato lo stesso con il nostro primo e unico libro di poesie pubblicate, Mia madre è un’arma. Nessuno ha detto assolutamente nulla. Coerenza, insuccesso e tenebre).
Non ti devi stupire di quell’antico professore. La maggior parte degli insegnanti di lettere odia i poeti, pretende la versione in prosa di tutto ciò che incontra, la traduzione interlineare della nostra vita, la parafrasi del grido. Se no, ammutolisce. Questo l’ho capito subito e mi sono ben guardato di far leggere i miei versi a maestri e professori. Questi versi, per la verità, erano cose da poco, duravano un giorno o due e poi li buttavo nel cestino. Mi è rimasta soltanto – chissà perché – una poesia dedicata a una ragazzina calciatrice: aveva l’accento piemontese, la maglietta bianconera, i calzettoni abbassati alla maniera di Omar Sivori e un giorno apparve come un prodigio nel cortile dell’Istituto Gonzaga, scuola maschile per eccellenza, e ci incantò con le sue finte, i suoi dribbling e soprattutto con il suo sorriso sconosciuto di fanciulla. Te la mando alla fine del nostro dialogo, se vuoi, ma non darle troppa importanza: è una cosa da nulla, una filastrocca d’occasione.¹
Cosa cerchi in un poeta? Cosa cerchi in una poesia? E cosa credi che, da lettore di te stesso, dovresti smettere di cercare o vorresti leggere? Io leggendo le tue poesie mi sento franco e smisurato. Mi trovo a casa, ti conosco, anzi, da quella poesia ci conoscono assieme. Abbiamo fatto tanta strada là, abbiamo lasciato tracce capisci.
Che i miei versi ti facciano sentire “franco e smisurato”, è una bella notizia! Mi piace l’aggettivo “smisurato”. È la versione felice del suo aggettivo gemello, “sterminato”, e non contiene il sangue dello sterminio ma una grandezza che annulla ogni misura. Mi piacciono entrambi, a dire il vero, ma per continuare il nostro dialogo è meglio essere smisurati che sterminati! Cosa cerco in un poeta o in una poesia? La poesia è un appuntamento essenziale, un incontro con il senso ultimo della nostra vita, un luogo dove si risveglia qualcosa che dormiva in una stanza segreta di noi stessi e che finalmente ci è dato conoscere e nominare attraverso le parole scritte da un altro. Cerchiamo qualcosa di profondamente nostro e ancora ignoto. La poesia non si limita a realizzare un desiderio ma ci mostra la vera natura di quest’ultimo, ci mostra ciò che abbiamo desiderato veramente. Cerchiamo qualcosa che volevamo trovare e troviamo qualcosa che non sapevamo di volere.
Una cosa che abbiamo sempre amato delle tue poesie sono le chiusure. I saluti. La frase finale. Penso che buona parte della qualità di un poeta si capisca da come ti lascia e quando. Non riesco a fare grossi paragoni con la vita concreta (e neppure padroneggio chissà che lessico poetico) ma mi viene da pensare a un cane che, dopo essersi fatto grattare il pelo e attorno alle orecchie, decide di alzarsi e andare a mettere il suo petto sul pavimento. Insomma: ha finito. Quel momento lì. O da ragazzini, nello shock più inaccettabile: quando “il padrone del pallone” (anche questo sarebbe un buon titolo per il pezzo) riceveva palla a metà campo (c’è sempre una metà campo, che si giochi in spiaggia, in piazza, in strada), la stoppava di esterno (bene), quasi la fermava, si chinava, prendeva la palla con le mani e se ne andava. Ci fermava. Ci andava. Sparito lui sparivamo tutti. Non c’era più gara, risultato congelato con una vittoria che non faceva ridere nessuno. Era tremendo e ingiusto ma che potenza quel gesto. Ecco, questi modi di stoppare, di farti rivedere tutto il passato con paura di tuoi errori. Un cane che prende e va, uno che torna a casa col suo pallone. Una poesia che finisce bene finisce così, con quella potenza, con quella destrezza e c’è amore, mortacci quanto amore. Penso al ragazzino che apre il cancello, butta distratto quel pallone in mezzo alle fratte e alla pompa, quel pallone che per noi era la storia.
Ci sono gesti che ci segnano per sempre, non c’è dubbio, interrompono il flusso naturale delle cose e ci scaraventano all’improvviso in un’altra scena. Può essere quello del “padrone del pallone”, come dicevi, il compagno che ci ruba il novantesimo minuto. Oppure può essere una creatura mai vista prima – mi è successo! – un vigile dal sorriso beffardo che arriva, si prende la palla, se ne va senza nemmeno guardarci, getta in aria i dadi della nostra partita. Comunque sono d’accordo sul grande peso che dai all’ultimo respiro di un evento, all’ultima frase di una poesia, al suo “saluto”, come dicevi. Leopardi anche in questo era maestro. Nessuna poesia può continuare dopo avere pronunciato “l’infinita vanità del tutto”, “il naufragar mi è dolce in questo mare”, “è funesto a chi nasce il dì natale”. La poesia si conclude lì, in modo netto, definitivo, senza indugio e senza agonia. E forse è proprio questa suprema nettezza della sua fine che le consente di rinascere.
Un’altra cosa che amiamo della tua poesia sono i tuoi titoli. Penso che Tema dell’addio e Quell’andarsene nel buio dei cortili siano titoli furiosi di bellezza. Distante un padre avrei voluto inventarlo io. Quali sono i titoli (non tuoi) che ami di più?
Rispondo al volo con i primi titoli che mi vengono in mente, tutti novecenteschi, poiché il Novecento è il secolo dei grandi titoli. Il porto sepolto di Ungaretti, La distruzione o amore di Aleixandre; La voce a te dovuta di Salinas; Movimento e immobilità di Douve e Pietra scritta di Bonnefoy; Su fondamenti invisibili e Dottrina dell’estremo principiante di Luzi; Il seme del piangere di Caproni; Paesaggio con serpente di Fortini; Economia della paura e A tanto caro sangue di Raboni. Ci sono libri fondamentali con un titolo non memorabile, persino dimesso, che però è “giusto” per quella determinata opera (I colloqui di Gozzano). Ci sono poi titoli suggestivi per libri minori (Moriremo guardati di Benedetti) e ci sono infine titoli penosi per libri penosi, che sono la maggioranza assoluta.
Esattamente – come scrivi? Dove scrivi? In che circostanza scrivi? Io mi sono abituato a scrivere poesie prima delle partite di calcio. Diciamo un’oretta prima che inizino. Scarico così la tensione del pre-partita e mi sorveglio molto poco in anni in cui tendo invece a essere molto guardia (infatti scrivo pochissime poesie e sempre meno sincere). Scrivo sempre a penna perché è la mia misura, il mio 43 di pensiero. Scrivo su quaderni tendenzialmente consumati, pieni di altri appunti, così evito di fare troppi buoni propositi e scrivo tanto. Tu scrivi tanto o poco? Quanto scrivi durante il giorno? Un tempo scrivevo di notte. Poi è arrivato, in ordine, prima un cane e poi una donna. Ora di notte non scrivo più. Era uno sfogo, era un bicchiere e un limite, ora la notte è altro, ben altro, è facile.
La maggior parte dei miei libri ha visto la prima stesura su un quaderno a righe blu scuro che portavo sempre con me in giro per la città, sui tram, nei bar, nei corridoi delle scuole o nelle sale d’aspetto. Scrivo poco, con anni interi senza una pagina. Ma proprio in questi anni taciturni, si preparano a mia insaputa improvvise furie espressive, come è avvenuto l’estate scorsa, e un libro intero può nascere in poche settimane, frutto di un lungo e inquieto silenzio. La stagione più fertile rimane l’estate, quando la città si svuota e inizio a sentire il richiamo di una parola solitaria. Mi avvicino al tavolo con il mio quaderno, comincio a riunire gli appunti e le intuizioni verbali sparse tra i fogli: sento che sono spose tra loro e devono vivere nella stessa frase. Nessuna musica di sottofondo, ma solo i suoni del traffico cittadino o le voci dei passanti. Nessuna presenza in casa, nemmeno il gatto.
Nota: 1) Canzoncina per una bella ala sinistra
Aveva i calzettoni abbassati e la maglietta bianconera
e noi restammo di stucco: una bella, una vera
ragazza nella squadra avversaria! Sì, una ragazza
con i capelli a caschetto e un guizzo da velocista,
un bel sorriso da folletto nel nostro Istituto
maschile per eccellenza. Non era lei a farci paura,
ma un’oscura presenza, un’eco di fiori e di sussurri,
di unghie rosse, di spose, di veli, erano le vorticose
onde del sangue, le minacce dell’ignoto
che irrompeva nel cortile gesuita, era la vita!
(febbraio 1967)
2. Caro Milo, grazie delle risposte così generose e aperte. Noi come sempre arriviamo tardi in giornate che ci ricordano quelle che immaginavamo dei maestri nella scuola elementare: li vedevamo, erano sempre sia esausti sia consapevoli. Gomiti aguzzi, scarpe dimenticabili. Siamo ora seduti sulla sedia dello studio. Lo chiamiamo studio ma è semplicemente una stanzetta con un tavolo e dei libri. Basta portare i libri sul tavolo della cucina e la cucina diventa lo studio. Da fuori, da questa finestra, niente.
Pensi di esserti mai approfittato della tua abilità con le parole? È la cosa che di me più temo. So di essere abile e ho il terrore di fregare con le parole. Di diventare, anzi essere, vero manipolatore. Di trovare sempre, in una velocità pazza, la parola giusta. È bella la parola giusta quando si scrive ma quando la si usa nella vita per superare una posizione o scamparla, no. È terribile, veramente. Credo di averlo fatto, di aver abusato del mio controllo con le parole e plagiato una situazione, contorcendola come si fa coi fili di ferro sottilissimi. Tutto questo per più volte in più giorni in più anni e poi una vita è già finita. E un’altra cosa che mi interessa chiederti, ma ancor prima di confidarti, è che odio quando mi rendo conto che – scrivendo – sto diventando bello. Non riesco a capire quale sia il confine tra lo scrivere bene e lo scrivere troppo bene. Con “troppo bene” intendo lo scrivere abbassando le necessità e facendo balzare prima in classifica la “consapevolezza della bellezza”. Prediligere una parola bella piuttosto che una giusta ma, ancora prima e ancora più grave, prediligere un pensiero non mio ma bello a uno mio ma meno bello. Scrivere maschere, e sono stato io.
Ma una parola bella non può che essere giusta! La bellezza non sa vivere accanto all’artificio o all’inganno e questo lo sapevano già i greci, quando stringevano in un unico patto ciò che è vero e ciò che è giusto. Quello che dici mi ricorda la polemica letteraria scoppiata più di un secolo fa, quando una famosa rivista fiorentina domandò agli autori più importanti del tempo “quello che resta da fare ai poeti” e Umberto Saba rispose letteralmente “ai poeti resta da fare la poesia onesta”, contrapponendo come in un duello western Alessandro Manzoni (l’onesto) e Gabriele D’Annunzio (l’ingannatore) e facendo capire tra le righe di essere lui stesso dalla parte giusta. Non sono d’accordo con Saba. Certo, la pagina manzoniana sulla madre di Cecilia è “onesta” e meravigliosa. Ma anche La sera fiesolana raggiunge una grande verità, che non è quella morale di Manzoni ma è sensitiva e cosmica. E d’altra parte ci può essere una poesia sobria e dimessa che fa di questa sobrietà una maniera o uno stratagemma. Insomma, la verità poetica non è mai garantita da un genere o da una posizione di principio. La troviamo soltanto nella solitudine di un testo, nella sua necessaria unicità, nel suo farci sentire che può essere scritto solo in questo modo, sia che si tratti di una verità umile e quotidiana sia che si tratti di un mondo fantastico e visionario.
La cosa che più di ogni altra ti dispera, Milo. Sia nel pensiero, quindi immagino una cosa alta, sia nella quotidianità, quindi immagino una cosa resistente. Il pensiero che più mi angoscia, che più mi impaurisce, è di non fidarmi più delle persone. Ci sono stati momenti brillanti (nel senso che davvero illuminavano il cielo, ogni tipo di cielo e ogni tipo di notte) in cui non c’era fiducia verso nessuno, è un tipo di mondo che non si ferma. Quando dico non fidarmi di nessuno intendo dire neppure di me fidarmi. Questo porta al caos, il caos fine depressione, che ho bene conosciuto, soprattutto quando il cielo era brillante. Consolidato, tutto, fermo, a bocce ferme, a domeniche ferme: pensieri ripetitivi, parole banali e ripetitive mi fermavano dalla testa ai piedi senza fiducia e senza parole. Nella quotidianità invece ciò che più mi danna è la disparità. Il dislivello. Proprio due tre sere fa camminavo col cane e ho superato questo uomo senza dimora e senza niente che dormiva con espressione penosa della bocca (una specie di ghigno ma senza superbia, veramente triste e spompato) e i palmi della mano semichiusi come quelli di tutti i neonati. Io ho portato avanti il mio cane e il mio me e – orribile – dopo due tre altri giri di angolo – sono salito a casa. Non ho detto nulla alla mia compagna. Ho visto le luci accese e mi sono calato nel loro “fare finta di niente”.
“La cosa che più di ogni altra ti dispera, Milo” è una domanda che mi ha fatto impazzire. Perché mi è così difficile rispondere? Perché la disperazione non ammette esempi. La disperazione si attenua appena trova un motivo, perde la sua terribile e angosciante totalità, diventa qualcosa d’altro, che può essere rabbia, terrore, vergogna, indignazione, qualcosa a cui possiamo replicare. Ma la disperazione vera non risponde. Forse è un terrore che ha smarrito interamente il proprio oggetto: non è terrore di questo o di quello, ma un grido micidiale nel vuoto, qualcosa che non giunge più a un’immagine del mondo e nemmeno di se stessa, un assedio di puro niente che rade al suolo non solo i nostri progetti ma anche ciò che abbiamo vissuto, una sorta di annientamento dove non troviamo più il nostro nome e nemmeno quello delle persone più amate. Avendo lavorato in carcere e negli ospedali psichiatrici, posso dire di avere intravisto creature minacciate da questo baratro.
Per quanto riguarda invece quello che definisci il livello “quotidiano”, mi sarebbe facile parlare del nostro attuale mondo poetico, dove autori di nessun talento ricevono applausi a scena aperta e altri che si sono votati interamente alla poesia, nell’anima e nello stile, muoiono sconosciuti. Ma non sarebbe “disperazione”, non avrebbe il colore grave di questa parola. Sarebbe uno dei tanti esempi di frode civile contro cui è possibile combattere e dare il nostro piccolo tributo per contrastarla.
C’è una poesia che non sei mai riuscito a scrivere? Magari hai la situazione. Nel pugno, ce l’hai. Che hai stretto, persa la mosca. Hai il pensiero, hai la situazione, hai tutto ma non riesci a raggiungere quella verità, quella precisione, quella cosa che era nata per essere irripetibile. Ti è capitato? Ricordi di cosa trattasse? Io non sono mai riuscito a mettere in poesia questo evento, per esempio (ogni mia domanda a te nasce dal tentativo di rispondere a miei cavilli netti): mio fratello si taglia i capelli da solo. Se la sta passando male in questi tempi. Emotivamente, lavorativamente. Sono anni fa, ma come sai gli anni addietro nel pensiero fanno tanto e arrotondano ogni ricordo verso la sua immorale e geometrica vergogna. Comunque: si taglia i capelli e sta peggio di come stava pochi minuti fa. Arriva da me con una felpa diversa. Credo perché vuole che io noti prima la felpa e, solo dopo, i capelli cambiati e magari si aspetta – e magari ci ha pensato tantissimo prima di mettersela, per riuscire a fare proprio questo – che prima gli chieda della felpa e, solo dopo, al secondo posto e quindi meno importante, dei capelli che ha tagliato. Mentre gli chiedo della felpa chiaramente mi sono già accorto dei capelli e quindi quando arriverò a chiedergli dei capelli lo farò con un tono già registrato sul ‘dai, ti stanno abbastanza bene’, quindi una voce non così colpita, non così dispiaciuta, non così allarmata. Ecco, non sono mai riuscito a descrivere per bene questa situazione.
Le mie poesie non partono mai da un avvenimento preciso, da un fatto accaduto in quel giorno o in quell’ora, da qualcosa che possa essere riassunto. No, non ho nessun evento alle mie spalle che io possa “mettere in versi”. Ci può essere talvolta una scena universale dove confluiscono altri eventi dispersi nei tempi: una partita di calcio, per esempio, può ospitare in se stessa i momenti più suggestivi di altre partite, cercando di mantenere vivi sia l’archetipo della Partita sia il dettaglio, il foglietto del calendario, il campo in cui è avvenuta, in modo che la partita sia “quella” e insieme tutte le altre, sia attimo e durata, occasione e potenza rituale. Quello che ne deriva non è più il racconto di una partita ma piuttosto una partita fantastica impastata con la farina di tutte le altre. Più spesso non c’è nemmeno questa scena di partenza. C’è invece una sorta di energia brancolante, confusa e a volte cieca che mi spinge ad avvicinarmi al tavolo e scrivere senza che io sappia esattamente cosa. Per questo mi è impossibile rispondere alla tua domanda, proprio perché in me l’atto di scrittura poetica capovolge la sequenza temporale: non c’è “prima” l’evento da mettere in versi e “poi” la poesia che lo racconta, ma al contrario sono i versi per primi a creare l’evento che dopo, finalmente, potrò conoscere nella sua essenza.
In una poesia, confessando che secondo me una cosa esclude necessariamente l’altra (altrimenti non esisterebbero le priorità ma soprattutto non esisterebbe LA PAURA), è per te più importante l’onestà o tutto il resto? Per tutto il resto intendo la bellezza formale, la misura, la costruzione, eccetera. La grammatica che qui manca. Io credo nella prima ed è il motivo per il quale, in ogni cosa che scrivo (anche questa nostra seconda conversazione, che sarà certamente meno interessante della prima), non rileggo mai e quindi mi precludo di correggermi e di ‘acchittarmi’, come diciamo a Roma. Abbellirmi ecco. Non voglio rinunciare a essere onesto con te, a essere me, con te. In un attimo potrei essere te, con te e con tutto il mondo. Ma non è così che si scrive, non si vive così, è mancanza di fiducia sennò – e torniamo sempre su, alla mia angoscia più grande: che si perda la fiducia e che torni la depressione, il caos, il saluto nero.
Per ritornare all’esempio di Umberto Saba, aggiungerei a questo punto che l’onestà è una condizione necessaria ma non sufficiente, come si diceva a scuola. Che un poeta sia onesto è il minimo indispensabile e anzi mi sembra assurdo che qualcuno decida di barare proprio lì, nella casa della poesia, luogo sacro dove la furbizia ha sempre subito dure punizioni e prima o poi tutti i nodi vengono al pettine. Ma che l’onestà sia sufficiente, è tutto da vedere, dal momento che troppe volte ha generato versi piatti, lineari, mediocri e senza abisso. D’altra parte anche il gesto di “acchittarsi” (bel verbo, ne prendo nota) può essere onesto, tenero e struggente, come l’anziana signora di cui parla Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo, che si acchitta con un trucco pesante nel tentativo di contrastare l’assedio della vecchiaia ormai prossima. E infine, per riprendere il tuo accenno alle “correzioni”, devo dire che non sempre costituiscono un puro e semplice abbellimento ma anzi in un vero poeta sono necessarie, in un poeta che si rilegge e si ripensa non per futili motivi ma per un estremo di onestà, per sfrondare le espressioni più meccaniche o decorative e mostrarsi nella propria nuda presenza, per cogliere le parole esatte che ci vengono dettate e che non abbiamo udito con la necessaria precisione.
Ecco alcune sante pillole che precedono un congedo. Mi piace che siano dei salti brevi, come quando – da ragazzi – si diventava stanchi e invece di tiri di collo piano si passava al pallonetto sconsolato. Sono molto curioso di vedere dove andranno i tuoi pallonetti (i miei già laterali, non hanno creato alcuno spavento manco al vento o al passante, erano pallonetti d’inerzia, fatti per riderne il secondo dopo e dire “vado a casa”). Il libro di narrativa in cui vorresti vivere. La poesia in cui vorresti vivere. Il libro di narrativa che avresti voluto scrivere. La poesia che avresti voluto scrivere. E se potessi scegliere uno scrittore che scriva di te, chi sarebbe? Non voglio che tu mi dica il più bravo ma quello che più di altri riuscirebbe a scrivere di te. Quello che ti capirebbe e che scriverebbe di te con giustezza, con rigore.
Per la narrativa scelgo L’idiota di Dostoevskij: sarebbe emozionante camminare per San Pietroburgo con Rogòžin, Nastas’ja Filippovna e il Principe Myškin, tre personaggi meravigliosi ma anche tre archetipi dell’anima umana. E per la poesia scelgo La notte di Dino Campana: non meno emozionante sarebbe camminare con un poeta folle per le colline notturne, tra visioni, antiche città e fanciulle dalla pelle ambrata. Aggiungo le Operette morali di Giacomo Leopardi e Due nel crepuscolo di Eugenio Montale. Ma attenzione: non sono opere che “avrei voluto scrivere”. Se le avessi scritte io, mi sarei privato della gioia di scoprirle! Post scriptum: se potessi scegliere uno scrittore capace di entrare nel mio universo, vorrei un’anima tremante e insieme lucida, inquieta nella vita ma esattissima nel giudizio sulla pagina, come Cesare Pavese, “l’uomo di carta” che aveva letto tutti i libri.
È il nostro accordo questa nostra sedia che non si sfracella, quindi solo un’ultima domanda. Qual è la tua paura più grande? La cosa che davvero supera ogni tua certezza ogni prudenza ogni muro che sei riuscito a tirare su, ogni morale ogni responsabilità. Quella paura lì, se puoi dirmela. E, durante la giornata, quindi nella quotidianità, come oggi e ieri e domani, la tua più grande felicità. Ti dico la mia: svegliarmi e sentire che il caffè è stato non solo fatto, ma anche già un po’ bevuto. L’ha fatto la mia compagna. Il cane ha già mangiato e quindi è piuttosto calmo o almeno non così scalmanato. Lei mi guarda la faccia stropicciata e mi dice “quanto sei bello oggi”. Poi ride e le vedo l’apparecchio, interamente. Ogni dente ha il suo motivo per cambiare e ce la farà. Mi siedo sulla sedia e apro con una buona forza il vaso di plastica che contiene i biscotti bianchi. Questa è la mia più grande felicità nel quotidiano. La mia più grande paura invece non corrisponde alla fine di qualcosa bensì al cambiamento di un ricordo. Questo mi terrorizza. L’idea che un ricordo possa cambiare connotati mi avvilisce e delude mortalmente, mi tira fuori una confusione verso la vita senza parole spietate ma solo banali. Mi gira confusioni, mi toglie tutto. Trovo giusto che le cose finiscano (come è giusto che finisca questa nostra intervista, senza alcun rimpianto) ma trovo così ingiusto che i ricordi cambino. Che quella voce non suoni più come suonava prima, quando suonava vera. Di questo ho paura, scrivo per questo credo, per non arrendermi ai ricordi che cambiano tutti i giorni. Forza Roma forza Milan, domani ce la giochiamo alla pari. Ti immagino a dormire, adesso. Vado a spegnere una luce e poi è fatta amico mio.
Qual è la paura più grande, mi chiedi. Credo che questa paura abiti negli immediati dintorni dell’indicibile: si annida in qualche angolo buio e spaventoso e non si lascia afferrare, come la cosa che “più di ogni altra mi dispera” di cui abbiamo parlato prima. Se proprio devo cercare un nome per questa maledetta cosa, direi che un terrore ricorrente è il ritorno degli incubi freddi, quando negli anni ottanta avevo smarrito il contatto con la vita ed ero precipitato in una specie di irrealtà, un mondo astratto e senza sangue dove gli affetti, gli amori, le parole perdevano colore, diventavano delle equazioni in bianco e nero da dimostrare razionalmente, come si faceva a scuola con i gessetti e la lavagna, davanti a un professore implacabile. Capisco bene il tuo discorso sulle tremende metamorfosi del ricordo: anche allora sentivo che il passato poteva scomparire o trasformarsi in un’oscura lacuna, diventare una pagina scritta in etrusco, il capitolo censurato della nostra esistenza. Ma forse mi è più facile parlare delle felicità quotidiane. La prima che mi viene in mente è quella di aprire con Viviana le buste che ricevo ogni mattina dai poeti sparsi per il mondo, come un antico dono natalizio, con lo stesso stupore fiabesco: scoprire una voce inattesa che dall’ignoto giunge qui, in questa minuscola stanza, regala splendore all’intera giornata, creando dal nulla quei purissimi legami che solo la poesia custodisce. Di sera invece lo sport è al centro di questo mio concertino di note felici. Con un bicchiere di Gewürztraminer che mi accompagna (meglio se alsaziano), rincorro meeting di atletica o tornei di tennis disseminati lungo le epoche, da un salto di Valerij Brumel’ a una volée di Roberta Vinci. Oppure assisto a una folle partita di calcio come quella di lunedì 26 ottobre, a cui accennavi anche tu, palcoscenico di un vero e proprio carnevale: gol fatti, gol sfiorati, pali, papere, prodezze, rigori immaginari, occasioni mancate all’ultimo secondo, tutta una giostra di fantasie e scorribande come raramente succede di vedere. Aveva ragione quell’uomo anziano che gridava di notte davanti allo stadio: “Non toglieteci le partite, non toglieteci la nostra dose settimanale di giovinezza!”.
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