La Madre Terra e il sinodo sull’Amazzonia

(disegno di Marino Neri)
È stata la pachamama la protagonista assoluta del sinodo sull’Amazzonia che Papa Francesco ha presieduto in Vaticano dal 6 al 27 ottobre scorsi. Si tratta di una statuetta di legno che raffigura una donna indigena incinta, e richiama la “madre terra”, pachamama in lingua quechua, la divinità alla quale i popoli originali amazzonici si rivolgono per invocare la fertilità. Gli indigeni invitati al sinodo ne hanno portate a Roma qualche copia, mettendole in bella mostra nella cerimonia con il Pontefice che si è svolta nei giardini vaticani alla vigilia dell’apertura dell’assemblea, e da quel momento in poi i cattolici talebani sono impazziti, eleggendo la pachamama a parafulmine del loro crescente astio nei confronti del sinodo, dell’Amazzonia e del Papa. Un giorno all’alba due di loro si sono introdotti nella chiesa di santa Maria in Traspontina, dove erano esposte tre di queste statuette, le hanno rubate e le hanno buttate nel Tevere, riprendendo il tutto, senza mai mostrare il proprio volto, con una telecamera, e postando poi sui social media il video del trionfale ratto, un po’ furto eclatante di opera d’arte, un po’ spedizione punitiva fascista, un po’ I soliti ignoti: sarà stata la densità dell’acqua verdognola, sarà che avranno sbattuto contro una pantegana, fatto sta che le statuette sono state facilmente ritrovate poco dopo dai carabinieri che le hanno restituite… al Papa.
E, come spesso capita, è il dettaglio, il lapsus, che rivela le idiosincrasie più inconfessabili. Perché mentre sui blog e sui social reazionari era tutto un plauso alla gagliarda impresa dei due gaglioffi (brasiliani? statunitensi? italiani? L’entusiasmo, in ogni modo, è stato transnazionale, perché transnazionale è il cattolicesimo fondamentalista), dall’aula del sinodo sono filtrate, dapprima un po’ confusamente, perché frutto della sbobinatura di una registrazione non autorizzata e imperfetta, le frasi sbocconcellate pronunciate a braccio dal Pontefice in persona, che dinanzi ai padri sinodali ha preso la parola per chiedere “perdono”. Perdono di che? Per chi ha compreso da tempo questo Papa, il senso era ovvio prima ancora che la sala stampa vaticana diffondesse la trascrizione completa delle parole pontificie: Francesco chiedeva scusa agli indigeni al posto dei due farabutti impenitenti e di tutti i loro sostenitori. Eppure, nelle redazioni dei giornali, più d’uno ha istintivamente pensato che il Papa, come ha beatamente titolato un quotidiano nazionale, chiedesse scusa “a chi si è sentito offeso dalle pachamama”. L’opposto esatto della realtà.
Un giorno all’alba due di loro si sono introdotti nella chiesa di santa Maria in Traspontina, dove erano esposte tre di queste statuette, le hanno rubate e le hanno buttate nel Tevere
Questione di fretta e di superficialità, questione di un mondo giornalistico che tutto mastica e digerisce senza distinzioni, notizie vere e fake news… ma, soprattutto, questione di uno iato troppo ampio, tra questo Papa e un pezzo di Chiesa, che viene colmato dal wishful thinking: per un certo tipo di cattolico – e anche per diversi cardinali – a essere ovviamente offensiva era la presenza (pagana! idolatrica! eretica!) di una statuetta amazzonica in una chiesa, e non il suo furto razzista e conseguente lancio nel Tevere; a essere incongruo è un sinodo che si occupa di Amazzonia, anziché di sacri paramenti e messa in latino; a essere incomprensibile, ancora a sei anni dalla sua elezione, è Papa Francesco – a conferma, se bisogno ce ne fosse, del carattere profetico della sua missione.
Il sinodo ha avuto molti nemici dichiarati, dall’amministrazione brasiliana di Jair Bolsonaro, che ha allegramente ripreso la distruzione dell’Amazzonia, alle multinazionali che sfruttano risorse e persone nella grande foresta pluviale, dai reazionari statunitensi ai seguaci dell’ideologo ultraconservatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira (1908-1995) alla destra curiale. Ma è il corpaccione della Chiesa ad aver reagito con torpore, se non con boicottaggio passivo, all’assemblea, un atteggiamento riecheggiato nello stordimento con cui molti giornali hanno seguito l’evento, a partire dall’Italia. Il povero Eugenio Scalfari, ormai innamorato perdutamente del Papa, gli ha almeno dedicato un articolo di prima pagina, ovviamente sbagliando tutto e beccando l’ennesima smentita vaticana, ma per il resto un po’ di gossip, qualche articolo sugli indigeni che mangiano i bambini, poco o nient’altro.
Eppure l’evento ha avuto una sua carica dirompente. E non solo perché l’Amazzonia brucia, e c’è Greta Thunberg, e il Papa viene dall’America latina e queste cose le capisce. E non solo perché alla fine è passata, non senza diatribe, la proposta di ordinare i preti sposati (più precisamente, concedere l’ordinazione presbiteriale a diaconi permanenti, anche se hanno famiglia, che possano assicurare alla loro comunità di ricevere i sacramenti anche in zone dove un prete riesce ad arrivare un paio di volte all’anno a causa delle distanze sconfinate dell’Amazzonia). Fa sorridere, al proposito, andare a rileggere le interviste che don Erwin Kräutler, missionario austriaco e vescovo emerito in Amazzonia, rilasciò a due giornali austriaci dopo essere stato ricevuto dal Papa, a inizio pontificato, in una udienza di cui pochi si accorsero (tra quei pochi, diciamolo, “gli asini”): “Francesco”, disse, “ha spiegato che il Papa non poteva prendere tutto in mano personalmente da Roma. Noi vescovi locali, che conosciamo meglio i bisogni delle nostre comunità, dovremmo presentare proposte molto concrete. Dovremmo essere corajudos, ha detto in spagnolo, che significa coraggiosi, audaci. Un vescovo non dovrebbe muoversi da solo, ha detto il Papa. Le conferenze episcopali regionali e nazionali dovrebbero accordarsi su proposte di riforma. E poi portare queste proposte a Roma”. C’è tutto il metodo Bergoglio: la riforma è l’obiettivo, l’iniziativa dal basso, la benzina, il consenso sinodale il perimetro. La Chiesa deve cambiare, ma deve farlo insieme; non può rinunciare all’unità, ma può litigare e differenziarsi; il vescovo di Roma può creare lo spazio, gli altri vescovi devono però essere corajudos.
Lo strumento sinodale è cruciale in questa strategia, perché solo smontando un certo clericalismo, rivitalizzando il corpo ecclesiale, il “popolo di Dio”, allargando la partecipazione, la Chiesa può avere un futuro.
In questo quadro, l’attenzione sull’ecologia, così come l’insistenza sull’accoglienza dei migranti o le critiche agli eccessi del capitalismo, temi tipici di Papa Francesco, rispondono a esigenze plurime: archiviare un’era nella quale, in particolare sotto Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi, il magistero si è concentrato su questioni che incrociano la sessualità umana (la procreazione medicalmente assistita, i matrimoni gay) o le tematiche bioetiche (l’aborto, l’eutanasia), non per rinnegare quell’insegnamento ma per allargare il campo d’azione della Chiesa e ricentrarlo sul Vangelo; ricollegarsi allo spirito del Concilio Vaticano ii, al “cristianesimo sociale” e a quelle correnti che, in tutta la storia della Chiesa, hanno avuto la cura dei poveri al centro della propria azione caritativa; e trovare punti di incontro con cristiani di altre confessioni, non credenti o diversamente credenti – quelli che Giovanni xxiii avrebbe definito “uomini di buona volontà” – per promuovere insieme un “nuovo umanesimo” che supera gli steccati confessionali e rafforza il contrasto a una secolarizzazione ormai ambientale. Tanto più quando – il vero elefante nella stanza del sinodo – le sette pentecostali macinano aggressivamente conversioni in tutta l’America latina, e se le comunità cattoliche sono abbandonate a se stesse spariranno nel giro di pochi anni.
Un quadro drammatico, quello della secolarizzazione e della competition evangelicale, che sembra sfuggire totalmente – ed è l’aspetto più stupefacente – agli avversari di Papa Francesco, più simili a un Pd qualunque che a un’opposizione ecclesiale: fermi nella rancorosa conservazione di un piccolo mondo antico in disfacimento; inconsapevoli dell’urgenza di cambiare e della possibilità di sparire; imbelli, ma in modo agguerrito, di fronte a un mondo che procede anche senza di loro, e che meriterebbe invece lo sforzo di annunciare il Vangelo in un’epoca nuova, che è quanto Jorge Mario Bergoglio va facendo.
Lo strumento sinodale è cruciale in questa strategia, perché solo smontando un certo clericalismo, rivitalizzando il corpo ecclesiale, il “popolo di Dio”, allargando la partecipazione, la Chiesa può avere un futuro. Nel corso degli anni, però, il Papa si è reso conto di quanto profonde siano le divisioni interne alla galassia cattolica. Durante il doppio sinodo sulla famiglia (2014-2015) alcune proposte iniziali (ad esempio, l’accompagnamento delle persone omosessuali) non raggiunsero il quorum dei due terzi, mentre altre (in particolare, la comunione ai divorziati risposati) sono passate per il rotto della cuffia e con una formulazione piuttosto ambigua. A conclusione della seconda assemblea, Jorge Mario Bergoglio ebbe a dire: “Abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione”. Può darsi che dopo quella esperienza, il Papa abbia deciso di affrontare alcune questioni specifiche con un sinodo più circoscritto geograficamente e più omogeneo nella sua composizione, quello sulla regione panamazzonica. La realtà, disse ancora il Papa argentino in quella occasione, è che “le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale – come ho detto, le questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”. Sennò, si prende una pachamama e la si butta giù nel Tevere.