La Liguria dell’arte povera

Regista, autore e attore ligure, Pino Petruzzelli lavora da decenni per mettere la cultura al servizio delle cause sociali, andando a conoscere in prima persona le realtà che poi racconta. Nel 1988 crea con Paola Piacentini il Centro Teatro Ipotesi, che si occupa di temi legati al rispetto e alla conoscenza delle culture. Ha viaggiato e lavorato nelle riserve degli Indiani Pueblo in Nuovo Messico, nelle case palestinesi e israeliane, nell’Albania post-comunista e nei campi rom e sinti d’Italia. Ha creato un Corso di Formazione Professionale per Operatori dello Spettacolo indirizzato a Rom e Sinti. Ogni esperienza ha trovato testimonianza attraverso libri e performance teatrali. Ma Pino Petruzzelli è sempre rimasto profondamente ligure, radicato in una terra che descrive attraverso diversi sguardi insoliti, tra cui prediletti sono quelli dei contadini e dell’arte popolare. Da artista di lungo corso, libero battitore ma anche ponte fra realtà istituzionali come il Teatro Nazionale di Genova ed esperienze “altre”, è una voce capace di fare sintesi, senza oscurare ma anzi lasciando intendere le altre voci all’opera sul campo.
La Liguria è maestra nel nascondere opere d’arte straordinarie anche nei paesi più sperduti, di altissimo valore ma sconosciute ai più. A Sassello puoi trovare opere di Mirò, di Scanavino, di Mario Schifano, di Francis Bacon. A Castelnuovo Magra puoi trovare Bruegel, a Taggia il Parmigianino, nel Ponente tantissime opere di Ludovico Brea, il Foppa a Savona, una pala di Perin del Vaga e un altorilievo di Lucio Fontana a Celle Ligure. Per non parlare di Genova. Ma preferisco porre l’accento sui piccoli paesi che questa regione inspiegabilmente non promuove. L’arte aiuta a capirla meglio, a descriverla per come è in realtà, e a capire chi sono i liguri. Penso subito ai versi di Sbarbaro sulla Liguria: “scarsa lingua di terra che orla il mare”. Scarsa. Lingua: qualcosa di sottile. Terra: la fatica. Che orla: piccola, sottile, precaria. Il mare: non il luogo della vacanza, ma il luogo da cui dipendeva la sopravvivenza, la porta del viaggio, e al contempo il pericolo, la paura. Dicono di questa paura diversi paesi che nascono rivolti verso l’entroterra, penso a Deiva Marina.
L’arte tratteggia i liguri di ieri, fino ai nostri nonni, come quelle persone costrette a strappare la sopravvivenza a un terreno avaro; tirando fuori eccellenze incredibili, anche in campo alimentare. Una bottiglia di vino delle Cinque Terre è un bengodi per il turista, ma se fai il contadino e devi tirarla fuori tu, fai prima ad andartene. Cosa raccontano i muretti a secco? Matvejevic sosteneva che è stato versato più sudore a terrazzare i declivi della Liguria che non a tirare su le piramidi d’Egitto. Attraverso l’arte ascoltiamo cosa c’è dietro a questo paesaggio, cosa questa terra ha infuso nella creatività degli artisti che qui sono stati.
Un simile patrimonio oggi costituisce il sostentamento per far vivere le persone in una terra difficile. Sfida che i Liguri di oggi ancora non riescono a intraprendere.
Anche il mio fare teatro si è sviluppato a partire da questo sguardo. La curiosità, la passione di vedere come si comportano le persone in zone difficili, di povertà, di guerra. Come provano a strappare la sopravvivenza, che forza riescono a tirare fuori. In Liguria questo vale per contesti di grande bellezza, come i borghi, che da turista vedi come meravigliosi, e da contadino come condannati alla fatica. Ogni esperienza artistica con questo approccio vive sulla condivisione, non sull’ostentare una cultura da intellettuali. Non faccio niente in cui non credo, perché l’obiettivo è comunicare con le persone, condividere ciò che ho a mia volta ascoltato sul campo. Non un racconto oggettivo ma puramente soggettivo, di tutto un mondo che a prima vista non si riconosce, soprattutto nell’era del consumo; se cominci a vederlo invece riesci a essere grato a chi sta dietro quella fatica. I miei nonni che per coltivare non hanno mai fatto un giorno di vacanza, pensando che i loro figli e nipoti avrebbero potuto studiare e fare delle scelte.
C’è poi una serie di esperienze teatrali nate esplorando le pieghe della realtà, dove non si ha voglia di guardare. È il caso del teatro con i Rom. Mi sembravano così diversi che volevo andarli a conoscere; poi ho scoperto tra loro tanti modi di vedere la vita che sono i nostri. Una volta ho chiesto a una donna che faceva la cartomante se davvero credesse nella lettura delle carte. Naturalmente no, mi rispose. E allora come fai, chiesi io, a dire alla persona che hai davanti cose che suonano sensate? Rispose che stava tutto nell’ascolto. Noi abbiamo sempre voglia di parlare e poco di ascoltare, e quindi capiamo poche cose delle persone che abbiamo davanti. Questa lezione me la sono portata nel lavoro artistico: inventare delle storie col teatro per fare le domande utili ad ascoltare meglio la realtà. Stando nei campi, mangiando con loro, ho avuto modo di vivere e osservare dinamiche che mi hanno insegnato molto. Rom e Sinti sono un pezzo della Liguria, ma in ogni posto sono parzialmente adattati a quel contesto specifico, che si intreccia con la loro storia: hanno un’identità fatta di sfumature.
Ci sono diverse realtà liguri che vivono l’arte in chiave sociale, civile, di prossimità. Ce ne sono altre che non vogliono comunicare. Chi propone riferimenti culturali d’élite, incomprensibili ai più, non sta comunicando nulla, sta solo dicendo agli altri quanto è più in alto di loro. Di questa arte possiamo farne a meno. È anche per questa miopia che l’arte perde la sua funzione nella società: alzare il livello del pensiero, farti sognare qualcosa che magari poi creerai col tuo ingegno, con le mani, con la scienza. Quel sogno iniziale te lo dà l’arte, la voglia di sognare, di vedere la bellezza e di provare a incidere sulla tua vita.
La Liguria sta cambiando, eppure registra forme di resistenza, come chi sceglie di restare nei paesi. A Loco, dove si ritirò Caproni, qualcuno continua a viverci nonostante sia sperduto. Mandare un figlio a scuola da posti del genere è un’impresa quotidiana, eppure alcune famiglie decidono di restare o di ritornare; coltivano, allevano, e noi riusciamo ancora a trovare prodotti della nostra terra. Il patrimonio dei muretti a secco è un altro segno del fatto che i liguri continuano a resistere; la generazione dei nonni ha trasmesso questa arte e qualcuno la raccoglie. Purtroppo finora la tecnologia ha contribuito a svuotare le campagne, bisognerebbe invece utilizzarla per faticare un po’ meno a coltivarle e abitarle. Dobbiamo anche restituire un valore culturale forte all’essere contadino, perché è la natura a farci mangiare, non altro. Oggi in Liguria si preferisce vivere in un casermone di periferia degradata piuttosto che in un borgo caratteristico a 5-10 chilometri dalla città. Ha vinto un sistema che ti fa credere di aver bisogno della città, in una terra dove la campagna è dietro l’angolo, e dove se sei disoccupato avresti più prospettive a riprendere in mano gli attrezzi per valorizzare la saggezza produttiva di un tempo.
Non è facile identificare oggi la Liguria come terra. Da fuori è più semplice riconoscerla. Da dentro non te ne accorgi. Ma quando la percorri ed entri in relazione con i contadini, con la gente dei paesi, con i commercianti, noti un carattere comune sempre diffidente, sulla difensiva, e questo ti spiazza. Dice delle cose importanti su di noi: il ligure dalla storia è sempre stato fregato, depredato, strappato alla sua casa per fare le guerre di gente di fuori, mentre provava a sopravvivere su un terreno durissimo. Quando impari a entrare in questo modo di vedere la vita, la quotidianità, trovi il linguaggio per ascoltare cosa vivono oggi i liguri.