La guerra vista dall’Italia: l’insegnamento dell’Ucraina

L’aggressione della Russia in Ucraina non era inaspettata. Già da alcuni mesi i preparativi dell’invasione erano sotto gli occhi di tutti e soprattutto di chi – governi, strutture militari, servizi segreti – aveva più di altri elementi per allarmarsi. Solo nelle ultime settimane, prima del 24 febbraio il giorno dell’invasione, c’è stata una crescente attività diplomatica per cercare di fermare i preparativi dell’attacco, ormai già nella sua fase operativa. Sono passati però otto anni dagli accordi di Minsk (2014) che hanno posto fine al precedente conflitto che ha visto la separazione dall’Ucraina della Crimea (annessa direttamente alla Russia) e delle regioni di Donetsk e Luhansk, resesi autonome da Kiev. E sono trascorsi almeno sei mesi dalle prime avvisaglie delle intenzioni di Mosca di normalizzare l’Ucraina. Tutto questo ci ricorda l’assoluta carenza di politiche di prevenzione dei conflitti, dell’assenza di un assetto delle relazioni internazionali (fondato sull’Onu e non sulla Nato) capace di accompagnare le tensioni internazionali verso soluzione pacifiche fondate sul compromesso e e la mediazione. L’Osce ha istituito da anni fa un Centro per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti: assolutamente inutile, una specie di centro studi. Dopo gli accordi di Minsk del 2014 (poco più di una tregua, di un blando cessate il fuoco) non è successo niente: nessuna determinazione da parte dell’occidente e della Russia di ricercare un assetto definitivo del conflitto. L’assenza di politiche di prevenzione non vale solo per l’Ucraina, ma per (quasi) tutti i conflitti nel mondo. Mancanza di determinazione, di volontà politica, di strumenti adeguati a questo scopo: quello di non far scoppiare le guerre.
Il primo motivo di questa guerra sta nella politica imperialista e aggressiva di Putin. Dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, molte repubbliche se ne sono andate per conto loro e alcune hanno aderito alla Nato. La CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), sorta dalle ceneri dell’Urss nel 1991 si è via via eclissata (l’Ucraina ne è uscita nel 2018). Per tenere assoggettato il proprio “cortile di casa”, Putin si è avventurato in una serie di guerre e di interventi attivi: ha prima normalizzato la Cecenia, poi c’è stata la guerra in Georgia (2008), poi in Ucraina (2014) e ha in vari modi tenuto vincolati alla Russia con il sostegno a operazioni repressive o militari altri stati satellite (ultimo il Tagikistan). L’identità imperiale di Mosca non è solo dovuta alla determinazione e alla politica di Putin, ma affonda nella storia: la capitale russa fu insignita del titolo imperiale di terza Roma dopo la caduta di Costantinopoli (la seconda Roma) a opera dei turchi. Questa tendenza imperialistica verso l’esterno si è coniugata con il regime verso l’interno. Una democratura fondata sulla repressione e la persecuzione dei dissidenti e su un misto di politiche liberiste controllate dall’alto e a beneficio di un’oligarchia affaristica e di regime. Cosa vuole Putin? Nello specifico un’Ucraina di fatto demilitarizzata che non entri nella Nato (e nell’Unione europea), la separazione formale delle regioni secessioniste, il riconoscimento dell’annessione della Crimea, il rispetto della popolazione di lingua russa. Più in generale vuole fermare l’espansione della Nato a est, ribadire il dominio russo sul “cortile di casa” e avere degli stati cuscinetto che rispondano a Mosca, o almeno non ostili.
Il secondo motivo di questa guerra risiede nelle politiche occidentali che hanno tradito le promesse fatte a Gorbaciov tra il 1989 e il 1991, quando stava smontando pezzo dopo pezzo il Patto di Varsavia e l’Urss: ovvero l’impegno a non allargare la Nato a est e a varare un sistema di sicurezza inclusivo che potesse rassicurare quella che fino a qualche mese prima era stata l’altra superpotenza (nucleare) mondiale. Ora, prima gli Stati Uniti hanno sostenuto un disastroso leader come Eltsin, poi hanno flirtato con Putin (fino a Trump), mentre intanto cambiavano radicalmente politica: invece di costruire un sistema di sicurezza condiviso, hanno puntato a espandere la Nato e la sfera d’influenza occidentale a est (espansione magari sollecitata dai paesi ex patto di Varsavia, impauriti dalla vicina Russia), mentre la Cina diventava sempre più il competitor globale. Proprio con la Cina la Russia stringeva rapporti e alleanze, fino a firmare 20 giorni prima dell’inizio della guerra, un importante accordo di cooperazione con Pechino. Non ci voleva un genio della realpolitik per capire che portare l’Ucraina nella Nato (cioè sotto le porte di Mosca) sarebbe stata percepita come una provocazione inaccettabile per Putin. D’altronde come avrebbe reagito Washington, se il Messico avesse aderito a un’alleanza con Mosca, installando magari dei missili russi? Semplice, avrebbe invaso il Messico. E d’altronde cosa fecero 60 anni fa gli americani, quando i cubani ospitarono delle batterie di missili sovietici? Stava per scoppiare una Terza guerra mondiale.
Che fare ora? Non siamo neutrali: stiamo dalla parte della martoriata popolazione ucraina. Ecco perché la prima cosa ovvia da fare è fermare la guerra. L’interventismo militare nell’assetto geopolitico del dopo guerra fredda si è dimostrata fallimentare, non ha pagato. Con la guerra non si vince. Non si è assicurata la stabilità del Medio Oriente (si guardi alla Siria e alla Palestina) dopo due guerre contro l’Iraq. Non si è assicurata all’Afghanistan democrazia e diritti umani dopo 20 anni di occupazione della Nato. Non si è costruita la pace dopo l’intervento della Nato in Kosovo. La Bosnia è sempre a rischio di secessione. Pensare di fermare la guerra, “vincendola”, inviando altre armi, significa solo prolungare la guerra, trasformare l’Ucraina in una sorta di Afghanistan ed esporre la popolazione ad altre sofferenze. L’occidente si lava ipocritamente la coscienza con l’invio delle armi, mentre continua a finanziare Putin acquistandogli il gas. E all’insegna dell’armiamoci e partite, vengono inviate le armi, ma si evita di essere coinvolti direttamente per non correre il rischio di entrare in una nuova guerra mondiale. Qui, l’etica si inchina alla realpolitik. L’invio delle armi, evocando in modo demagogico e strumentale la lotta di liberazione in Vietnam e la guerra di Spagna, invece diventa una sorta di mantra per pulirsi le coscienze e trovare un capro espiatorio: i pacifisti. Tra l’altro ha ricordato Aldo Natoli che quando il Pci incontrò i dirigenti del Vietnam del nord, questi gli dissero: non mandateci armi, ma intensificate le manifestazioni per la pace, questo ci serve di più. E quando ci fu la guerra di Spagna, il Servizio civile internazionale organizzò nel nord del paese campi profughi e aiutò la popolazione civile, ma non mandò armi. E, ancora, i pacifisti non hanno mai chiesto di mandare armi ai vietcong e ai palestinesi: hanno messo in campo tutti gli strumenti della pressione politica (manifestazioni, ecc.) per ottenere giustizia e fine delle guerre. Migliaia di pacifisti russi sono in carcere per aver manifestato contro Putin, 500mila persone hanno manifestato a Berlino per chiedere di fermare la guerra e in Italia centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere il cessate il fuoco e portare aiuto alla popolazione ucraina. E allora serve la soluzione politica per fermare i combattimenti sulla base di un negoziato che non sia solo tra russi e ucraini, ma che veda presenti anche i rappresentanti dell’Unione europea e dell’Onu. Sulle basi del ritiro delle truppe russe, del riconoscimento della sovranità e dell’indipendenza di una Ucraina neutrale, che non ospiti sistemi d’arma stranieri, che riconosca lo status speciale delle regioni di Donetsk e Luhanks e affidi a un referendum sotto la sorveglianza dell’Ocse la sorte della Crimea. Qualcuno può fare ironia sulla opportunità di un referendum dall’esito prevedibile. Ma perché quello che per l’occidente era giusto e sacrosanto per la Bosnia del 1992 (un referendum controverso, sbagliato e per niente plebiscitario per staccarsi dalla Jugoslavia), non lo è per la Crimea se vuole separarsi dall’Ucraina? Servirebbe poi un contingente Onu di peace keeping da posizionare nelle aree calde di frontiera. Agli occidentali che vedono questo come un rischio dell’integrità dell’Ucraina ricordiamo cosa hanno fatto con il Kosovo, sostenendo e legittimando la sua separazione de facto dalla Serbia. I russi ci chiedono: ma perché ci criticate se vogliamo staccare la Crimea dall’Ucraina, quando voi avete separato il Kosovo dalla Serbia? Al di là delle reciproche accuse quello che è importante è che ogni soluzione sia condivisa, nel rispetto della volontà popolare, del rispetto della democrazia, dei diritti umani e delle minoranze. Ricordiamoci sempre che si tratta di aree in cui si sovrappongono diverse comunità linguistiche e nazionali. In Ucraina il 20% della popolazione è di lingua russa: il 25% a Kiev e fino al 90% nelle aree di frontiera. In questi paesi, in aree così miste, il nazionalismo provoca sempre conflitti e guerra.
Che fare, dopo? È fallito il disegno della Nato di diventare dopo il 1989 il fulcro della stabilità mondiale. Russia e Cina non ci stanno e l’espansione della Nato in Europa può significare solo guerre. Con questo approccio stiamo rischiando un nuovo scontro tra blocchi: da una parte gli Stati Uniti e i suoi alleati e dall’altra la Cina con la Russia come instabile alleata. L’idea di fare una sorta di Nato asiatica (la cosiddetta QUAD: Quadrilatery Security Dialogue) per accerchiare Russia e Cina è un altro grave errore, una provocazione verso la Cina. La geopolitica delle alleanze militari non dà più sicurezza, ma più instabilità al pianeta. Per l’Europa bisogna allora mutuare l’idea degli anni Ottanta di Olof Palme e Willy Brandt di una fascia denuclearizzata tra est e ovest che oggi significa una fascia non solo denuclearizzata, ma anche priva di sistemi d’arma stranieri e di basi di alleanze militari sul proprio territorio. Andrebbe preparata e convocata una nuova conferenza di Helsinki (dopo quella del 1975) che vari un sistema di sicurezza condiviso basato sul ruolo dell’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), mentre a livello globale la riforma delle Nazioni Unite diventa improrogabile per mettere in campo politiche e strumenti di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace. Serve cioè un nuovo assetto delle relazioni internazionali fondato non sull’idea di una progressiva omologazione delle altre aree del mondo ai principi e sistemi dell’occidente, ma sulla consapevolezza della profonda diversità, irriducibile, di sistemi politici e – purtroppo – di regimi che non ci piacciono e che possono essere considerati contrari ai nostri valori. Ma né il socialismo, né la democrazia si portano sulla punta di una baionetta. Ed è la via più tortuosa e difficile quella più realistica e praticabile: la costruzione di un assetto delle relazioni condiviso e pacifico, dove il cammino della democrazia e dei diritti umani possa riprendere.
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