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La guerra in Bosnia nello sguardo di Luca Rastello

30 Ottobre 2021
Giorgio Morbello

Quando suonò il telefono di casa quella sera di dicembre del 1992, Luca Rastello non poteva immaginare che stava per immergersi in un’avventura che avrebbe accompagnato alcuni anni della vita sua e della sua famiglia. A quell’epoca aveva 31 anni e dirigeva “Narcomafie”, mensile del Gruppo Abele.

Negli anni successivi, fino al 2015 quando morì, avrebbe scritto tra le altre cose, La guerra in casa, Piove all’insù, I buoni, testi imprescindibili per capire fenomeni come la guerra in Jugoslavia, il ‘77 e le zone d’ombra dell’impegno sociale. In quella telefonata un’amica gli comunicava che si stava creando un gruppo che aveva intenzione di impegnarsi nell’accogliere per l’inverno i profughi della guerra in corso in quella che era la Jugoslavia. Attraverso il passaparola si incontrarono così una ventina di persone che per la maggior parte non si era mai viste prima, provenienti per lo più dal mondo del sindacato, di Rifondazione Comunista e del volontariato sociale laico o cattolico. L’obiettivo era di andare a prendere profughi dai campi di raccolta della Jugoslavia e trovare loro una sistemazione più adatta e umana. Qualcuno mise a disposizione una propria casa di famiglia fuori città o un appartamento sfitto, vennero coinvolte parrocchie, la Chiesa valdese, il privato sociale che offrirono spazi e luoghi di accoglienza. L’Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione, si occupò degli aspetti legali, l’ufficio immigrazione della polizia offrì un supporto non scontato.

Nacque così, in modo semplice, spontaneo, ma anche con un impegno e un’organizzazione verrebbe da dire “professionali”, il “Comitato accoglienza profughi”. Il primo viaggio di un convoglio di quattro auto private partì intorno al 10 gennaio del 1992 e nel corso degli anni successivi in tutto il Piemonte vennero accolti, qualcuno in modo un po’ retorico dice “salvati”, più di quattrocento esseri umani in fuga dalla guerra. Con il passare delle settimane si capì che accogliere persone in fuga significa anche farsi carico di intere vite fatte di problemi, angosce, rapporti umani e familiari, bisogni e necessità che andavano oltre al semplice vitto e alloggio. Il Comitato non si perse d’animo e attivò una rete di sostenitori, anche economici, per rispondere a tutto quello che le diverse situazioni richiedevano: il supporto psicologico, la scuola per i bambini, le visite mediche, i documenti, il contatto con i parenti dispersi, le nuove nascite, la ricerca di stabilità e lavoro… L’impegno che si prospettava emergenziale e rivolto a offrire vitto e alloggio per un inverno, si rivelò molto più gravoso e coinvolse gli aderenti al Comitato per circa tre anni, nel corso dei quali arrivarono anche i familiari per una sorta di “ricongiungimento familiare”. Oggi questa esperienza ha fatto scuola e di fronte alle emergenze umanitarie viene citata e studiata per dimostrare come una rete capillare, dal basso, fatta di piccole realtà e di singoli, ma con un impegno costante, possa riuscire a dare accoglienza a grandi numeri di persone, in modo umano e dignitoso per chi viene accolto e poco “invasivo” per le comunità in cui i profughi sono inseriti.

La prima famiglia che venne direttamente accolta da Luca Rastello e dalla moglie Monica, in quei mesi in attesa della loro prima figlia, arrivò con un autobus di profughi in Piazza Castello. Dopo gli anni della militanza nei movimenti giovanili, negli anni Ottanta l’attenzione di Luca si era maggiormente rivolta alla letteratura, ai libri. Era stato tra i fondatori della rivista “L’Opera al Rosso”, lavorava come redattore all’Indice e si era in particolare appassionato alla letteratura ceca. Il suo impegno nel Comitato coincise con quello che lui descriveva come un bisogno di ritornare all’attività politica e sociale e, finiti i tempi dei movimenti e dei gruppi, nei primissimi anni Novanta il Gruppo Abele, dove entrò come direttore della rivista “Narcomafie”, gli sembrò il luogo in cui fosse possibile una rinnovata forma di impegno.

Luca e Monica presero inizialmente in carico due nuclei familiari per un totale di quattro adulti e cinque bambini, tra i quali due gemelli di due mesi partoriti dalla madre in un bosco nel corso della fuga. Al momento del primo incontro, nel modo più amichevole e sorridente possibile, Luca si rivolse a uno dei due uomini utilizzando quella lingua ceca che aveva imparato per leggere Hrabal, scommettendo sulla somiglianza delle due lingue slave. La risposta di chi era impaurito e cercava disperatamente rassicurazioni in una città mai vista prima, lo fece esplodere in una grande risata: “Ehi! Ma l’italiano è facilissimo! Ho capito quasi tutto quello che hai detto!”. I nove furono accompagnati nella casa di famiglia alle porte di Pont, nel Canavese, paese originario del padre di Luca, Guido, un militare in pensione, di grandissima umanità, che in silenzio e senza sovrastrutture politiche o ideologiche, con grande naturalezza, mise a disposizione del gruppo, oltre alla propria casa, anche la sua disponibilità nell’acquistare quanto servisse per le necessità quotidiane o, più semplicemente, nell’essere presente con il suo affetto e la sua amicizia: “per tutta la vita mi sono addestrato per la guerra, ora lavoro per la pace”, era solito dire.
Rastello non ha mai nascosto le difficoltà e le fatiche di quest’opera di accoglienza.

Le differenze culturali, i pregiudizi, il “noi e loro”, il “qui e lì” erano fattori sempre presenti sia in chi ospitava quanto nelle persone accolte. Luca sintetizzava questo percorso faticoso in modo scherzoso, ma neppure troppo, nella frase “c’è la fase iniziale epico romantica, seguono poi quella cinico repressiva e infine quella serbo-bosniaca in cui li prenderesti a cannonate”. Oltre a gestire il nutrito gruppo affidatogli, Luca continuava la sua opera nel Comitato sia per trovare altri alloggi e gestire i problemi che man mano emergevano, sia recandosi nella ex Jugoslavia a prendere altre persone a cui dare accoglienza. Furono almeno venti i viaggi che lo portarono fino ai confini delle linee del fronte soprattutto nella Bosnia centrale. Il suo bisogno di capire, il suo sguardo attento, la sua capacità di scendere in profondità cogliendo nelle situazioni nodi, contraddizioni, ferite, zone d’ombra, lo hanno accompagnato in questi viaggi e hanno costituito il filtro con cui ha letto quella realtà in guerra. Ha mantenuto sempre vigile la sua capacità di riflettere anche sul senso e i limiti dell’impegno suo personale e del Comitato: “L’intervento umanitario in una guerra non è mai neutro. Non possiamo fare le anime belle, pensare che non siamo anche noi coinvolti e attori in questa guerra, non esistono i pacifisti, i volontari ‘puri’. Se aiuti, seppure non volontariamente, una delle parti in conflitto a risolvere il problema dello sfollamento dei civili, stai dando un vantaggio a uno degli schieramenti. Se provi a sollevare l’attenzione internazionale con marce e manifestazioni per la pace, queste possono più o meno indirettamente portare sul teatro di guerra un aiuto a una o all’altra causa”.

La guerra in casa, il libro pubblicato nel 1998 e recentemente ristampato con una postfazione di Mauro Ravarino, riporta in parte in forma di romanzo e in parte di reportage, tutto quello che Rastello ha potuto ricostruire di quel conflitto e delle ricadute che questo ebbe sulla galassia pacifista e umanitaria, evidenziando come per la vicinanza dei luoghi, per il coinvolgimento delle potenze europee, per l’impegno umanitario messo in campo, non solo dal Comitato, quella nella ex Jugoslavia è stata a tutti gli effetti anche una “nostra” guerra. E con la lucidità che sarà sempre la cifra dei sui scritti, Rastello mette in luce anche le contraddizioni più ruvide, di attrito, quelle che mettono in discussione le certezze di chi, in modo sincero e genuino, si è impegnato per la pace. Ebbe il coraggio di guardare negli occhi il “male” assoluto, incontrando e parlando con un cecchino serbo, denunciò l’inettitudine dei militari dell’Onu a Srebrenica, mise in luce il ruolo di Medjiugorje nella costruzione dell’identità nazionalista croata, e soprattutto non risparmiò critiche feroci e puntuali all’intervento umanitario.

“Quello che avevo da dire l’ho scritto nel libro. Da allora mi sono occupato di altro, non so più nulla di Bosnia”

La sua ricostruzione della morte di Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, giustiziati mentre accompagnavano un carico di aiuti nei pressi di Gornij Vakuf, ha contribuito in modo determinante all’individuazione dei fatti e dei responsabili, ma ha anche gettato interrogativi sul ruolo della Caritas di Gedi, in provincia di Brescia. Il racconto critico dell’assassinio di Moreno Locatelli, colpito da un cecchino a Sarajevo sul ponte Vrbanja durante un’iniziativa pacifista ritenuta da Rastello autoreferenziale, inutile e velleitaria, gli procurò le pesanti critiche da parte dei “Beati Costruttori di Pace”, organizzazione alla quale Moreno apparteneva. A proposito di questi episodi la posizione di Rastello è esplicita. Si legge ne La guerra in casa: “quella dell’impegno civile in Jugoslavia è una storia piena di ombre, di approssimazioni, di errori sui quali molto spesso la galassia varia e litigiosa del volontariato di pace non è disposta a riflettere”.

Dopo aver scritto il libro e partecipato ai vari incontri e presentazioni che gli erano richiesti, Luca si congedò definitivamente dalla Bosnia e da quella guerra. A chi negli anni successivi gli chiedeva di partecipare ad anniversari o rievocazioni, a chi lo interpellava come “esperto”, rispondeva con un leggero fastidio: “Quello che avevo da dire l’ho scritto nel libro. Da allora mi sono occupato di altro, non so più nulla di Bosnia”. Eppure avrebbe potuto arroccarsi, costruirsi, come in tanti hanno fatto sugli argomenti più diversi, una “rendita di posizione” tra gli analisti, gli intellettuali, i giornalisti che gli avrebbe permesso di avere spazi e visibilità. Questa forse è una delle lezioni più importanti che ci ha lasciato Rastello: “prima si vive, poi, eventualmente, si racconta”. Il suo sguardo, le sue scelte, il suo impegno lo hanno negli anni successivi portato a esplorare altri luoghi: la valle Susa e la Tav, il dramma dei migranti, l’Asia centrale, le organizzazioni del privato sociale, la sua città, Torino. Chissà oggi, a sei anni dalla sua morte, dove avremmo potuto trovarlo? Su quali questioni avrebbe acceso la sua curiosità? Sono domande che tutti i tuoi lettori o amici si fanno e che, inevitabilmente restano senza risposta. Ed è un peccato.

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