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La Ever Given e il volto della globalizzazione più o meno invisibile

Foto di Camillo Pasquarelli
31 Maggio 2021
Andrea Bottalico

Negli ambienti disinvolti del commercio marittimo sanno bene quanto il flusso delle merci su scala globale sia in buona sostanza un gioco di prestigiatori. Generalmente poco inclini alla trasparenza, che si tratti del trasporto di armi o di calzature, gli uomini senza scrupoli che governano questi flussi spesso mantengono un basso profilo e si muovono in un mondo piuttosto opaco.

Dall’inizio della pandemia però si nota un cambio di passo. La catena logistica del trasporto merci (peraltro disseminata da anni da conflitti e mobilitazioni di varia natura e intensità) è balzata agli onori delle cronache. I giornali hanno cominciato a parlarne con maggiore attenzione. Vengono pubblicati libri e approfondimenti sui periodici. La casa editrice Egea tra l’altro ha pubblicato di recente la nuova edizione di The Box, la scatola che ha cambiato il mondo, il libro di Marc Levinson del 2006 sulla storia del container che ha fatto scuola (forse sarebbe opportuno ristampare anche opere per niente invecchiate ma introvabili, come La nave morta di B. Traven).

Sia come sia, nonostante l’aumento dell’attenzione nei confronti di questi temi, degli armatori non vi è traccia. Loro non amano farsi vedere. Preferiscono non lasciare dichiarazioni, non esprimersi, non apparire al di fuori dei loro circoli auto-referenziali. Gli osservatori più distratti si sono accorti non tanto della natura globale del capitalismo, quanto piuttosto della natura capitalistica della globalizzazione. Eppure, coloro che la governano muovendo la merce e inseguendola ai quattro angoli del mondo non fiatano.

Si tratta per lo più di gente priva di scrupoli, esperta di finanza internazionale, che non perde tempo a trarre il maggior vantaggio competitivo dalle regolazioni ambigue e dalle modalità creative per aggirarle. Di armatori che godono di esenzioni antitrust in Europa e che, tanto per dirne una, in piena pandemia hanno registrato 2,7 miliardi di profitti, agevolati anche dal minor costo del carburante e dalla strategia di ridurre drasticamente i servizi allo scopo di aumentare i noli: un record di utili dal 2010. Il governo americano mesi fa ha accusato gli armatori di “comportamenti che possono violare gli standard di competizione”. Nei primi mesi di pandemia le compagnie armatoriali principali hanno deciso di allungare la rotta dall’Asia all’Europa circumnavigando l’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza piuttosto che tagliare dal Canale di Suez, navigando così per oltre tremila chilometri in più per i porti europei, e costringendo una forza lavoro già di per sé sfruttata ai limiti della legalità a tempi d’imbarco molto più lunghi. La forte riduzione della domanda di trasporto permetteva tempi di viaggio maggiori, e la diminuzione del prezzo del carburante rendeva più vantaggioso aumentare i consumi che pagare il transito di Suez. In barba a qualsiasi retorica sulla transizione ecologica degli addetti ai lavori, viene da aggiungere. Questa è gente che dallo scioglimento dei ghiacciai trarrà profitto, dal momento che si apriranno nuove rotte commerciali per le flotte di navi che possiedono.

Si tratta per lo più di gente priva di scrupoli, esperta di finanza internazionale, che non perde tempo a trarre il maggior vantaggio competitivo dalle regolazioni ambigue e dalle modalità creative per aggirarle.

L’attenzione nei confronti della catena marittimo-logistica ha avuto il suo culmine verso fine marzo, quando la Ever Given, una portacontainer di ultima generazione da 20mila Teu, si è messa di traverso nel canale di Suez bloccando la navigazione a causa di un blackout, dicono, e del vento forte. Cosa ci suggeriscono quelle immagini che hanno fatto il giro del mondo? Ci suggeriscono (o forse ribadiscono) che i meccanismi di funzionamento di quel reticolo su cui poggiano le strutture produttive e distributive dell’economia globale sono fragili. Molto fragili. Poi ci dicono che il modello predominante delle catene di approvvigionamento è insostenibile e che andrebbe messo totalmente in discussione. Ci dicono anche che i flussi materiali di merce che vanno e vengono come se fossero su un nastro trasportatore che parte dall’Asia e arriva in Europa sono visibili, nonostante il commercio marittimo globale passi spesso per qualcosa d’invisibile, come un gioco di prestigiatori appunto – e allora viene naturale interrogarsi su come far vedere ciò che non si vede. Infine, ci dicono che la logistica, la spina dorsale della globalizzazione economica, è qualcosa di concreto, ed è governata da gente in carne e ossa ossessionata dalle economie di scala, disposta a inseguire la merce ovunque, perché dove sta il peso là sta la bilancia.

Anche la Ever Given, battente bandiera panamense per le ragioni di cui sopra, ha un armatore, beninteso. È la società giapponese Shoei Kisen, che a sua volta ha noleggiato la nave alla compagnia marittima taiwanese Evergreen (secondo il classico modello delle scatole cinesi e matrioske societarie tipiche del commercio marittimo globale). Poi c’è la compagnia assicurativa con sede a Londra. Mi domando cosa avranno pensato tutti quando hanno visto l’immagine della nave di traverso nel canale da cui transita la merce da e per l’Asia, ostruendo il flusso come se ostruisse l’arteria che pompa il sangue al cuore pulsante dell’economia globale.

La prua che tocca la sponda orientale del canale e la poppa quella occidentale. I rimorchiatori che cercano di raddrizzarla mentre tutto il mondo sta a guardare. La propaganda del regime dittatoriale egiziano che ripete “va tutto bene, non preoccupatevi, è tutto sotto controllo”. 18300 container impilati l’uno sopra l’altro sul ponte di quel gigante del mare e le draghe al lavoro giorno e notte. Un uomo con la sua scavatrice prova a disincagliare la prua della nave. Sono immagini suggestive, senza dubbio.
Mentre il canale è ostruito da quel gigante del mare lungo quattrocento metri, prima e dopo si crea un ingorgo di navi che iniziano ad accalcarsi alle due estremità, in prevalenza portacontainer e petroliere. Le compagnie marittime con il passare delle ore si ritrovano di fronte a un dilemma: aspettare che il canale si sblocchi oppure circumnavigare l’Africa? Ci sono milioni di dollari in ballo a seconda di questa o quella scelta. I telefoni dei caricatori e degli spedizionieri squillano in continuazione e i terminalisti portuali maledicono il gigantismo navale e chi lo ha creato. Nel frattempo è il caos, perché la Merce non può starsene ferma, e perché un blocco del genere produrrà un “effetto farfalla”: la congestione in quell’arteria principale del commercio globale causerà ritardi (che hanno un costo di circa dieci miliardi di dollari al giorno) e si riverserà tutta sui porti in cui quelle navi bloccate dovranno scalare, e poi sui loro hinterland, nella filiera del trasporto terrestre. L’intasamento non svanirà ma si sposterà soltanto altrove, in altri nodi distributivi e poi nei luoghi di produzione.

Mi domando cosa avranno pensato tutti quando hanno visto l’immagine della nave di traverso nel canale da cui transita la merce da e per l’Asia, ostruendo il flusso come se ostruisse l’arteria che pompa il sangue al cuore pulsante dell’economia globale.

Nell’attesa, gli analisti del settore hanno rispolverato il progetto promosso dall’Onu per la costruzione di un secondo canale tra il Mar Rosso e il Mediterraneo, che scorrerebbe lungo il confine tra Egitto e Israele, partendo dalla parte settentrionale del Golfo di Aqaba e sfociando nel Mediterraneo vicino al confine meridionale della Striscia di Gaza.

Passano sei lunghi giorni finché la portacontainer Ever Given, partita da Ningbo a inizio marzo e diretta al porto di Rotterdam, non viene disincagliata la mattina del 29 marzo, dopo una lunga e costosissima settimana. A quel punto i riflettori mediatici si spengono come se la storia fosse finita lì, ma in verità la storia comincia proprio quando i riflettori mediatici si spengono, perché l’attualità non è la contemporaneità – ce l’ha insegnato Goytisolo se non ricordo male, su un vecchio numero de “Lo Straniero”. Proprio quando il canale viene liberato dalla nave i nodi vengono tutti al pettine (e il conto viene presentato al responsabile del danno, che resta difficile da quantificare). Una volta disincagliata, la nave è stata trainata dai rimorchiatori al Grande Lago Amaro lungo il canale di Suez. Ci sono voluti almeno tre giorni per il transito di tutte le navi rimaste bloccate.

A più di un mese di distanza dai fatti le conseguenze sono ancora evidenti e la nave sta là ferma, sotto sequestro insieme al suo carico dopo che l’Autorità del canale ha chiesto circa un miliardo di dollari di risarcimento alla società Shoei Kisen per i danni causati dall’incagliamento. Sia l’armatore che la compagnia di assicurazioni sostengono che la cifra richiesta dall’autorità del canale è fuori portata. È in corso la battaglia legale, un compromesso al momento non è stato ancora raggiunto e intanto la nave e la merce che trasporta (per un valore di tre miliardi e mezzo di dollari) non si muovono da lì; la richiesta dell’armatore di dissequestrare nave e carico è stata rifiutata il 4 maggio scorso da una corte egiziana. La compagnia assicurativa della Ever Given sta negoziando con l’autorità del canale per raggiungere “una soluzione amichevole”. Ma la nave, intanto, è sotto sequestro insieme al carico destinato all’Europa. E all’equipaggio.

Sono in venticinque. Tutti di nazionalità indiana. Hanno ricevuto la visita del sindacato Itf, l’International transport workers’ federation, da cui è emerso che “l’equipaggio è di buon umore e sta bene, con tutti gli stipendi pagati e la nave ben rifornita. Stanno ricevendo ogni possibile supporto dall’armatore e dai tecnici. Hanno accesso a internet e possono parlare coi familiari, tuttavia sono preoccupati dall’idea di non poter lasciare la nave o continuare il viaggio”. Il sindacato ha espresso forti perplessità rispetto al prolungamento dei tempi di negoziazione per trovare un accordo sul risarcimento tra armatore e autorità del canale di Suez, poiché l’equipaggio è in ostaggio di questa situazione finché non si troverà un compromesso. Alcuni membri hanno avuto la possibilità di lasciare la nave “per questioni private urgenti”, ma il punto è che mentre quelli discutono dai loro uffici sulla cifra per compensare il danno il tempo passa. E finché le negoziazioni andranno avanti la nave sta ferma dov’è insieme all’equipaggio. Ed è trascorso già un mese.

Un’ultima cosa: mi dicono che l’uomo nella scavatrice si chiama Abdullah Abdel-Gawad, ha ventotto anni e ha lavorato ininterrottamente per ventuno ore per disincagliare la nave. Le immagini lo ritraggono a scavare intorno alla palla di prora. Se la Ever Given si è mossa da là a un certo punto è anche grazie a lui. A un giornalista ha detto che non gli hanno pagato neanche gli straordinari.


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