La corsa al vaccino tra nazionalismi politici e profitti privati

La notizia viene annunciata alla stampa italiana con lo stesso registro letterario di chi comunica la vittoria in una gara di velocità. Piero di Lorenzo, presidente della Irbm di Pomezia, il laboratorio che partecipa al processo di ricerca e sviluppo del vaccino anti Covid-19 messo a punto dalla Università di Oxford in partnership con il colosso farmaceutico AstraZeneca, comunica che “la fase 3 della sperimentazione clinica terminerà alla fine di novembre e il vaccino potrebbe essere validato entro la fine dell’anno”. Il vaccino di Oxford (Azd1222), uno dei percorsi di sperimentazione più avanti nella sfrenata corsa mondiale per trovare un rimedio che fermi o almeno rallenti il contagio del virus Sars-CoV-2, pare che produca una risposta immunitaria efficace e omogenea tra i giovani e le fasce più anziane della popolazione, ciò che rinnova le aspettative verso il rapido taglio del traguardo. Il vaccino dovrebbe essere uno dei primi prodotti di big pharma (il potente complesso industriale che raccoglie le principali holding farmaceutiche mondiali) a ottenere la validazione delle autorità regolatorie, accanto a quello di Pfizer e BioNTech.

Chi arriverà per primo avrà in mano il destino del pianeta. È questo il messaggio geopolitico che sottende alla smodata sequenza di annunci somministrati da politici, scienziati e imprenditori. Non deve sorprendere. Non si era mai vista prima una mobilitazione di questa portata contro lo stesso patogeno, vettore di una pandemia ormai non più solo sanitaria ma economica e sociale. Del resto, ogni positivo annuncio sullo studio clinico innalza le quotazioni in borsa, precisamente uno degli effetti desiderati e non secondari, visto che geopolitica e finanza camminano di pari passo. Il titolo AstraZeneca in poche ore ha guadagnato oltre l’1% a Londra, pur in uno scenario difficile per le borse dovuto all’aumento dei casi di Coronavirus, ormai fuori controllo in Europa. Non possiamo poi ignorare un altro aspetto, in ombra ma decisivo, della gigantesca corsa al vaccino. Mi riferisco alla brevettazione sulle tecnologie, prima ancora che sui prodotti, l’altro traguardo da perseguire in questo tour de force per le piccole e grandi industrie farmaceutiche. La saldatura di questi fili poderosi contraddistingue la gara in velocità che il mondo racconta e che va presidiata con estrema attenzione, perché si tratta di una competizione comunque per pochi e foriera di possibili “false promesse”, denunciava alcune settimane fa su “The Observer” Jeremy Farrar, direttore della fondazione Welcome Trust.

Ma torniamo ai vaccini, che sono interventi di sanità pubblica efficaci e comprovati, capaci di combinare a certe condizioni benefici individuali e collettivi. Ma quali sono, queste condizioni? Devono essere sicuri ed efficaci prima di tutto. Devono pure essere disponibili a coloro che ne hanno più bisogno. I quali, ricordiamolo bene, non sono persone malate. A seconda della malattia, della sua modalità di trasmissione e potenza virale, un vaccino efficace deve idealmente proteggere dall’infezione o altrimenti garantire un impatto molto attenuato del virus, e fermare comunque il contagio. Accanto al prodotto, è quindi fondamentale la definizione di una strategia adeguata di vaccinazione. Chi e quando immunizzare, e in quale ordine di priorità (se la disponibilità del vaccino è limitata), sono decisioni da prendere sulla scorta di informazioni epidemiologiche e sulle proprietà del vaccino suscettibili di modifiche a seconda della evoluzione della malattia e della eventuale presenza di altri vaccini, in una dinamica e mai scontata valutazione dei rischi e benefici. Soprattutto in situazioni di emergenza come quelle che Covid-19 ha imposto. Eppure, questi essenziali obiettivi di salute pubblica rischiano di perdersi per strada nella gara commerciale e geopolitica per il vaccino. Il processo sotto i nostri occhi fa leva su presupposti tutt’altro che favorevoli al perseguimento dell’interesse comune: la privatizzazione della conoscenza scientifica e la logica di mercato fra giganti industriali che i governi non sanno o non vogliono controllare.

L’approccio classico per lo sviluppo dei vaccini è che le aziende private investono in ricerca e sviluppo (R&S) in base alle piattaforme tecnologiche (vettori, sistemi di distribuzione, coadiuvanti) di cui sono proprietarie, nelle quali integrano uno specifico antigene per adattarlo alla malattia specifica di cui si occupano. Nonostante i quasi duecento progetti di ricerca in corso per il vaccino, la gara a chi corre più veloce non incentiva affatto la migliore scienza contro Covid-19. Favorisce piuttosto una rilevante frammentazione, uno spirito di competizione che esclude ogni possibilità di condivisione della conoscenza scientifica esistente, delle sperimentazioni più o meno riuscite ma già effettuate con le nuove biotecnologie usate per i vaccini. Le industrie farmaceutiche insomma svolgono la loro ricerca entro i confini delle tecnologie brevettate di cui dispongono, ma non è detto che le singole componenti delle loro piattaforme siano quelle più utili e appropriate al vaccino contro Covid-19.

In altre parole, la filosofia proprietaria che muove la ricerca è agli antipodi dello sforzo di intelligenza collettiva che dovrebbe ispirare la comunità scientifica di fronte a una sfida come Sars-CoV-2. Di fronte a una emergenza sanitaria globale come quella che stiamo vivendo, sarebbe bello che gli scienziati di tutto il mondo potessero condividere la conoscenza medica e le rotte tecnologiche già battute, per combinarle creativamente e generare un portafoglio di candidati vaccini con le caratteristiche più adatte a debellare il nuovo Coronavirus. Non possono invece neppure confrontare tra di loro la performance dei singoli candidati vaccini attualmente in lizza, gli scienziati, visto che i dati sono tenuti segreti dalle singole aziende, o snocciolati con il contagocce. Nel sistema di innovazione guidato dal “capitalismo del monopolio intellettuale”, come lo definisce Susan Sell, non esistono dispositivi normativi di salute pubblica in grado di fissare e imporre alle aziende la ricerca e sviluppo di prodotti (non solo vaccini) secondo criteri di performance sanitaria fissati ex ante. E così, sono candidati meno che ottimali quelli che avanzano nella filiera della ricerca scientifica. Secondo obiettivi di efficacia fissati dalle aziende in base a quanto possono fare. Sulla base di studi clinici disegnati sempre dalle imprese, i cui esiti sono confidenziali. Così come lo sono i costi della ricerca e i criteri di determinazione dei prezzi finali.

Ad aprile 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha pubblicato il Target Product Profile (Tpp) del vaccino contro Covid-19, ovvero il profilo target per il prodotto, con uno spettro di caratteristiche minime e ideali volte a guidare gli scienziati nella ricerca. Il Tpp esplicita gli obiettivi di efficacia e di sicurezza del vaccino in un’ottica di salute pubblica, da testare su fasce di età diverse, diversi gruppi etnici e classi di persone con più patologie. Infine indica quali aspetti essenziali sviluppare, per una distribuzione ad ampio raggio del prodotto: ad esempio, la stabilità termica, la somministrazione in soluzione monodose, la possibilità di produzione scalabile, a basso costo. Qual è il problema? I gruppi di ricerca possono far finta che non esista, e infatti lo ignorano. Neppure le agenzie del farmaco possono obbligare le imprese ad adeguarsi. La soglia di efficacia stabilita dall’Oms è di almeno il 50%, ma in uno studio condotto da Sarah Bartsch e altri si è calcolato che, per bloccare la pandemia e conseguire l’immunità della popolazione, i vaccini dovrebbero assicurare una soglia del 70-80% di efficacia contro l’infezione. Resta da capire quanto sia elevato il livello di efficacia dei candidati in competizione tra loro e se l’efficacia possa essere raggiuta con una dose o se ce ne vorranno di più, visto che alcuni Coronavirus sono pessimi immunogeni. Intanto, il primo traguardo cui puntano le aziende è la rapida approvazione delle agenzie regolatorie per la commercializzazione del loro prodotto. Lo si evince dai dati sulla fase 3 forniti a settembre, sotto la pressione dell’opinione pubblica, dai tre principali competitori AstraZeneca, Pfizer e Moderna, i quali hanno tre protocolli diversi, dunque incomparabili, per misurare i criteri dell’efficacia.

I leader internazionali e i governi occidentali fanno da mesi gli aedi del “vaccino bene comune” – data la eccezionale natura della crisi sanitaria – ma in realtà coltivano una patologica sindrome di nazionalismo sanitario, per cui concedono montagne di finanziamenti all’industria per accaparrarsi anticipatamente le dosi del vaccino, senza porre condizioni. Il governo federale americano ha fatto accordi con big pharma per quasi undici miliardi di dollari nel quadro della operazione Warp Speed, lanciata con ingenti fondi pubblici e sotto l’egida della difesa (Warp Speed si richiama al Manhattan Project che il governo americano creò per la bomba atomica). Gli Usa si sono già assicurati 800 milioni di dosi di almeno 6 vaccini in sviluppo, tutte per uso interno. America first. Il vaccino per uso elettorale, insomma. La Commissione Europea, dal canto suo, è riuscita a mobilitare 16 miliardi di euro per la Coronavirus Global Response (Cgr), siglando nel contempo accordi bilaterali con Sanofi, Johnson&Johnson e AstraZeneca, per acquisti preventivi di centinaia di milioni di dosi di vaccini a uso e consumo dei cittadini europei. La rivista Nature giustamente ha stigmatizzato l’“ineguale arrampicata” dei paesi ricchi, che hanno ordinato per sé oltre 2 miliardi di dosi (340 milioni di dosi per la sola Inghilterra), cioè tutta la capacità produttiva almeno fino al 2022.

Nella frenesia dell’accaparramento i governi hanno operato nel segno di un incomprensibile laissez faire nei confronti delle imprese. Non hanno negoziato il prezzo del prodotto finale, non hanno posto condizioni di trasparenza, né clausole di accesso al vaccino per tutti, vista la retorica del vaccino bene pubblico globale. Purtroppo gli assetti del mondo pre-Covid, quell’ordine delle cose che toglie il respiro sui crinali di una patogenesi imposta dalla globalizzazione, restano intatti nonostante i contraccolpi della pandemia. A metà ottobre, la proposta portata al Consiglio dei Trips da parte di India e Sudafrica, per convincere l’Organizzazione mondiale del commercio a sospendere eccezionalmente le regole sui brevetti farmaceutici per accelerare il contrasto a Sars-CoV-2 – una proposta politica che aveva sortito un amplissimo consenso internazionale – è stata rigettata dopo tre ore di discussione dai soliti paesi: Stati Uniti, Europa, Canada, Giappone, Russia, Australia, Inghilterra, ancora arroccati a difendere un sistema di regole commerciali che fa acqua da tutte le parti, a venticinque anni dalla creazione della Omc.

Ma riprendiamo il nostro discorso da dove siamo partiti. Il vaccino di Oxford al cui sviluppo l’Italia è direttamente coinvolta. Stephen Evans, professore di farmaco-epidemiologia alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, ha messo in guardia dal cantar vittoria troppo in fretta sulla sua efficacia, almeno fintantoché i dati completi non sono stati pubblicati: “Sono indispensabili robusti studi clinici di fase finale per verificare se la promettente risposta immunitaria si traduce in efficacia clinica, volta a prevenire l’infezione. Ciò che dovrà coinvolgere un numero molto più ampio di persone. È saggio non essere troppo ottimisti finché quegli studi non saranno stati completati”.

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