Jerzy Grotowski e le ceneri del teatro
Presto ricorreranno due commemorazioni importanti per il teatro: ad aprire il 2019 i vent’anni dalla morte di Jerzy Grotowski e a chiuderlo i trent’anni dalla morte di Samuel Beckett.
Prima di ritrovarsi nell’orgia delle celebrazioni o nel deserto delle dimenticanze (gesti che si equivalgono nella sostanza di una cancellazione), in anticipo voglio ricordare qui la traccia profonda lasciata da questi due giganti del teatro nella mia formazione e nel mio lavoro di teatrante.
L’ultimo maestro
Certamente Jerzy Grotowski resterà negli annali della storia del teatro. Sarà ricordato come un innovatore che abbandonò il teatro-spettacolo quand’era al culmine del successo, che prolungò il teatro come veicolo di conoscenza oltre lo spettacolo eccetera, ma ciò che gli annali non potranno ricordare è la “lezione” viva e umana che Grotowski seppe trasmettere a quanti ebbero la fortuna di incontrarlo e di essere suoi allievi o seguaci.
Una lezione che non solo è andata oltre il teatro come spettacolo, ma che non è consistita nella trasmissione di un sapere tecnico, ha utilizzato il sapere tecnico per tracciare un solco profondo nella mente e nel cuore di ogni allievo.
La lezione di un maestro, non tanto nel senso a noi noto del maestro d’arte e di bottega, quanto della guida nella versione orientale del guru o del maestro zen che accompagna l’allievo lungo la strada della conoscenza e della formazione spirituale e poi sparisce. Il maestro che alla teoria astratta preferisce la pratica, la concretezza dell’esercizio e della prova, che dà compiti e non precetti, che sa trascendere e filtrare gli aspetti soggettivi e personali della relazione pedagogica, che comunica con il silenzio e con l’aforisma piuttosto che con la ridondanza delle parole.
Eppure ho incontrato per la prima volta Grotowski proprio attraverso le parole, quelle stampate di un libro: Per un teatro povero.
Ma erano parole diverse, frammenti di lezioni e conferenze, pagine di informazioni dettagliate di un procedimento tecnico (il training psicofisico dell’attore “santo”), descrizioni precise di spettacoli straordinari e non consueti, parole attraverso le quali trapelava il fascino di un’esperienza intima, profonda che già allora indicava una strada e attraversava il teatro per puntare altrove.
Fu quel fascino interstiziale, quell’aria di “mistero” che avvolgeva l’esperienza raccontata nel libro, quella profondità, garanzia di “autenticità”, incarnata nelle immagini del training, delle prove, degli spettacoli, nel flash di Cieslak nei panni (nel panno) del Principe Costante/Cristo a un passo dal suo sacrificio, ad indurmi a scegliere il teatro. Avevo appena superato l’adolescenza e mi affacciavo nella prima giovinezza pieno di interrogativi sulla vita, la cui risposta cercavo sui libri di filosofia e fu allora che l’immersione nelle acque profonde della pratica teatrale mi apparve come l’unico esercizio possibile per coniugare conoscenza e vita reale.
Negli anni, poi, mi sono convinto che nelle parole (pregne di silenzi, ellissi e allusioni) di quel “Teatro povero”, fosse già contenuto (come in una profezia) l’abc di tutto il cammino che – con rigorosa coerenza – Grotowski avrebbe intrapreso. Perciò ho tenuto con me, sempre accanto, quel libro e vi ho fatto ricorso, leggendolo e rileggendolo a ogni passo della mia esperienza teatrale, in cerca di prove e conferme o reindirizzamenti sulla strada da me intrapresa.
Un maestro non plagia mai l’allievo, lascia che questo lo imiti, perché sa che nell’imitazione c’è un apprendimento non intellettuale, ma a un certo punto smette bruscamente di essere un modello e indica all’allievo la strada dell’autonomia.
Un maestro sa quando è venuto il momento di lasciare l’allievo e a quel punto non esita a farsi uccidere. Ama l’allievo, ma non vuole possederne l’anima in eterno.
Un maestro, qualunque mezzo adoperi: che sia la parola (nelle lezioni, nei discorsi) o l’azione (nella direzione degli esercizi e delle prove-test), usa sempre lo stesso metodo: l’organicità del processo, nel quale ogni passo successivo scaturisce “organicamente” dal precedente (secondo una logica naturale non forzata da imperativi intellettuali), in una catena di azioni-reazioni che richiama sempre il fondo pulsionale d’ogni uomo.
Grotowski, nella sua carriera, ha alternato brevi apparizioni pubbliche (per lo più conferenze sui temi attuali della sua ricerca, ma in rari casi lunghi corsi universitari) a lunghe tappe di lavoro pratico, prima nel segreto del Teatro-Laboratorio a Wroclaw, poi in tutto il globo nelle sessioni aperte del Parateatro, poi con gruppi ristretti di ricercatori nei luoghi “sacri” del Teatro delle Fonti e infine di nuovo nel chiuso protetto del suoi Centri di Lavoro – prima negli Stati Uniti e da ultimo a Pontedera in Italia; in ciascuna di queste esperienze (che si trattasse di una conferenza, di un esercizio, di una prova o di una performance) Grotowski ha sempre puntato a guidare l’interlocutore (allievo, partecipante, attore, ascoltatore) attraverso un processo scevro dall’ossessione del risultato che conducesse all’acquisizione-rivelazione di una verità ultima (ovviamente relativa, cioè senza pretese di validità universale) costituente il nucleo incandescente della lezione o della prova o dell’azione.
La mia esperienza, assistendo alle lezioni o partecipando a rari ma preziosi incontri diretti con il maestro o con i suoi attori-performer, è stata proprio questa: una guida “personalizzata” (persino negli affollati incontri pubblici) verso una verità gnoseologica relativa all’oggetto della lezione, attraverso una serie di rivelazioni accese dalle sue parole, dai suoi salti logici, dai frequenti ricorsi ad esempi concreti di lavoro o dai racconti di episodi carichi di senso. Era come se lui, nel mezzo della folla di aule immense, direzionasse il suo sguardo verso te solo, parlasse proprio a te, un volto disperso tra mille altri e non necessariamente in prima fila. Una magia condivisa, il segno che anche la comunicazione puramente verbale nel suo caso fosse concepita non come un esercizio intellettuale, ma come un processo organico implicante una relazione io-tu (così come nell’esperienza teatrale autentica).
L’efficacia persuasiva (ma senza violenza impositiva), probabilmente maieutica, del suo insegnamento s’incentrava sulla sua capacità di giocare sul doppio registro dell’assenza-presenza.
Un maestro è davvero tale quando la sua lezione giunge all’allievo, oggettiva, spogliata della presenza (soggettività) della sua fonte, cioè quando si realizza in “assenza”.
Grotowski nella seconda parte del suo percorso di ricerca e trasmissione è stato per lo più assente, delegava la guida delle esperienze ai suoi collaboratori più stretti, rimaneva nel luogo dell’esperienza, ma invisibile, i collaboratori gli riferivano costantemente gli esiti del lavoro ed egli ragionava con loro su come procedere.
Ricordo un paio di giorni in un incontro a Volterra: una lunga attesa insieme agli altri partecipanti, percorsa da ansie, dubbi, nervosismi e poi finalmente quando il lento passare del tempo aveva indotto ciascuno a mollare ogni resistenza ecco cominciare il lavoro in un salone spoglio, buio, illuminato da qualche candela. Condotto in un percorso notturno da guide a loro volta poco visibili, per lo più discrete e silenziose, chiedendomi di tanto in tanto che cosa stessimo facendo, se fossimo partecipanti o testimoni (perché disseminate avvenivano piccole performance dei conduttori), alla fine nel cuore della notte approdai, insieme a pochi altri, all’incontro diretto con Grotowski (un incontro programmato ma che più volte avevo temuto fosse saltato) per un colloquio apparentemente “tecnico”, ma che, come già altre volte era capitato, si dimostrò semplicemente di relazione interumana volta a scoprire (con la guida sapiente e sibillina del maestro) quali fossero le ragioni profonde che scuotevano ciascuno di noi (se non ricordo male eravamo cinque registi più o meno appartenenti all’area dell’allora denominato “terzo teatro”) e ci ostacolavano nel nostro processo creativo nascondendosi dietro “problemi tecnici”.
Forse è impossibile rispondere a parole alla domanda – come essere se stessi? – ma senza dubbio è possibile trovare la risposta nell’azione, se dimentichiamo noi stessi […] ma per dimenticare se stesso l’essere umano deve essere interamente in quello che fa, che desidera. In altre parole, deve smettere di pensare continuamente a se stesso.(Jerzy Grotowski, L’azione è letterale, intervento pubblicato in “Dialog” 1979, n. 9, pp. 95/101.)
Dimenticare se stessi, come attori, come testimoni di un’azione altrui, come insegnanti, come ascoltatori, come registi, come guide in un’esperienza. Mettere se stessi tra parentesi, assentarsi e gettarsi nell’azione, che si tratti di una comunicazione verbale o di un’esperienza pratica (un esercizio di respirazione, una prova teatrale, una camminata nei boschi). È stato questo l’insegnamento di Grotowski: l’ego con la sua presenza ingombrante è di ostacolo alla comunicazione, impedisce l’ascolto dell’altro, rende la ricerca di una verità nel discorso o di un’autenticità nell’azione, una disputa per chi prevale, allontanando di fatto la meta.
Le sue lezioni (così come del resto la direzione degli spettacoli fino al 1970, e come poi la guida delle ricerche post-teatrali, dal Parateatro a L’arte come veicolo) funzionavano perché l’io-Grotowski è sempre stato assente, cedendo il suo posto al filo delle parole, o dei compiti assegnati, degli sguardi, dei silenzi, dei muti assensi-dissensi. Dimenticando se stesso il maestro spinge l’allievo a fare lo stesso, per lasciare spazio al cuore incandescente del discorso e dell’esperienza.
Anche una lezione fatta di parole per Grotowski è sempre stata un’esperienza, in un certo senso una performance.
Nel marzo-aprile del 1982 Grotowski tenne un ciclo di lezioni sul Teatro delle Fonti presso l’Istituto del Teatro e dello Spettacolo dell’Università di Roma. Possiedo una trascrizione in parte integrale, in parte antologica di quelle lezioni; ebbene leggendola ci si accorge che persino le parole scritte riescono a resuscitare la suggestione dell’oralità viva che le aveva generate. Il lettore, affascinato dal filo della narrazione senza fronzoli, né deviazioni soggettivistiche (come nei romanzi dostoevskiani), tutta incentrata sull’obiettivo da perseguire e sulla materia da trattare, è trascinato in un percorso di conoscenza, fatto di intuizioni e rivelazioni improvvise che accumulandosi generano una “consapevolezza” organica e non semplicemente intellettuale.
Anche a distanza, nello spazio e nel tempo, per chi ha voglia di ascoltare, un maestro sa farsi sentire, il suo messaggio viene dal corpo e parla al corpo, e ciò è vero – paradossalmente – quanto più è marcata questa distanza. Essa è garanzia di una trasmissione non inquinata dal confronto tra ego che per quanto tenuti sotto controllo, non smettono mai d’interferire.
Nell’ultima fase della sua ricerca Grotowski era tornato a lavorare con un gruppo ristretto di collaboratori con l’intento di sperimentare azioni in un certo senso reali, cioè non rappresentative di alcunché e non predisposte per essere viste, ma tutt’al più spiate, intraviste dal buco della serratura allo scopo di verificare la possibilità di una connessione induttiva tra performer e testimoni. L’azione probabilmente strutturata, ma nello stesso tempo spontanea come un flusso organico, si sviluppava a partire da quelle “fonti” a lungo frequentate nella fase precedente.
È stato il tempo dell’Arte come veicolo di conoscenza, letteralmente – secondo le parole di Grotowski – come mezzo di trasporto (un ascensore o una scala come quella di Giacobbe), il tempo della tecnica al servizio della conoscenza di sé, dell’altro, del mondo, e della relazione autentica (senza i condizionamenti dell’ego, senza la pressione delle opinioni, senza l’obbligo di un risultato).
Ho avuto qualche occasione di “sbirciare” (spia e testimone) l’Azione, basata su canti e movimenti di danza strettamente connessi con l’essenza dei canti. Ho portato con me la sensazione che nel percorso grotowskiano anche quella fosse una tappa che presto sarebbe stata superata. Perché non era nella mentalità di Grotowski rinchiudersi in una nicchia protetta, accontentarsi di aver toccato il cuore caldo della conoscenza e di tenerlo per sé.
Il maestro possedeva un forte senso del suo ruolo sociale così come delle sue ricerche, e aveva sempre adottato il principio della “complementarità” * nei confronti della società intorno, aprendosi o chiudendosi in contrasto con la tendenza sociale del momento.
Ho immaginato che in un tempo, come quello che viviamo, di dispersione, di un individualismo che si fa gruppo solo per somma utilitaristica e mai per intima solidarietà, Grotowski avrebbe aperto l’Azione, spinto il processo induttivo ad allargare la sua area d’influenza, avrebbe – anello dopo anello – costruito una catena di conoscenza condivisa e diffusa nel corpo sociale, uscendo definitivamente dall’ambito stretto del teatro, senza perdere di specificità… non so bene quale sarebbe stata la nuova strada intrapresa, certo non quella di un ritorno indietro nel territorio limitato del “teatro”.
Considero Jerzy Grotowski l’ultimo dei maestri (nel senso sapienziale e strettamente pragmatico del termine). In un’epoca relativista come la nostra, non c’è più spazio per il gesto a suo modo assoluto di un maestro che indica una strada e la percorre come unica possibile, e non nascono più allievi disposti ad ascoltare la parola definitiva di un maestro. Definitiva perché o la prendi alla lettera e vai avanti o ci giochi e alla fine la tradisci e la cancelli.
Ciò che resterà dopo di me non può essere nell’ordine dell’imitazione ma del superamento. Nello stesso modo, io non ho imitato Stanislavskij, ho cercato quello che era possibile dopo. Una ricerca non può limitarsi a una sola vita. È una faccenda di parecchie generazioni. (J. Grotowski, Ce qui restera après moi…, intervista a cura di J.P. Thibaudat, 26 luglio 1995)
L’ultima parola
“Dove
andrei, se potessi andare, cosa sarei, se potessi essere, cosa direi,
se avessi una voce, chi parla così, dicendosi me? Rispondete
semplicemente, che qualcuno risponda semplicemente. È lo stesso
sconosciuto di sempre, il solo per cui io esisto, nel vuoto della mia
inesistenza, della sua, della nostra, ecco una semplice
risposta…” (Samuel
Beckett, Testi per nulla)
Fui
incuriosito e poi folgorato da Beckett all’indomani
dell’attribuzione del premio Nobel. Alcuni episodi della sua
biografia mi affascinarono inducendomi ad acquistare l’edizione
tascabile della trilogia letteraria: Molloy,
Malone muore e L’innominabile.
La lettura, precoce quanto faticosa (frequentavo gli ultimi anni del
liceo), letteralmente mi sconvolse. Avevo appena letto La
nausea
di Sartre, ma il disfacimento dell’io lì era ancora narrato in una
forma romanzesca, che ne attenuava l’acuta drammaticità. Ora con
Beckett mi trovavo, senza la consolazione della “bella forma”, di
fronte agli stessi abissi, descritti attraverso un tessuto narrativo
e sintattico completamente destrutturato. L’effetto fu travolgente:
già ero incline a melanconie schopenhaueriane e leopardiane, e
all’assurdo pirandelliano, Beckett contribuì a formare in modo
indelebile il lato pessimista e nichilista del mio carattere. Divenne
oltre che fonte di meditazioni personali ed interiori, uno strumento
di difesa e provocazione nei confronti dell’ottimismo di superficie
che mi circondava in quegli anni di vuoto benessere.
All’epoca
fu proprio la sostanza filosofica ed esistenziale del “non io”
dei personaggi beckettiani a colpirmi, solo in seguito mi sono fatto
delle domande sul contesto storico e sociale cui quei personaggi
rinviavano.
Era il paesaggio devastato dell’Europa del secondo
dopoguerra: l’Europa sconvolta dai massacri, dai campi di
concentramento, dall’olocausto? O era la contemporaneità: il
presente, vuoto e alienato, del neocapitalismo che tutto omologava
sotto l’egida del consumismo galoppante, nascondendo la paura di
una guerra atomica? O si trattava piuttosto di uno sguardo
vaticinante gettato oltre l’orgia consumista, in quel deserto delle
anime che sarebbe venuto dopo, all’alba della prima di una lunga
serie di “recessioni” non solo economiche, ma anche sociali ed
esistenziali?
Difficile a dirsi, certo è che la parola
“ultima” di Beckett, ebbe e
ha
una sua attualità e verità buona per ogni stagione.
Ho
sempre interpretato la desolazione del mondo e dei personaggi
beckettiani come un j’accuse,
piuttosto che come l’effetto di un’angoscia ontologica e di un
conseguente deprimente disamore per la vita. Nel tempo del narcisismo
è con un’orgogliosa (irlandese) fierezza che i vagabondi
beckettiani, nella consapevolezza di essere nessuno, si difendono dai
sentimentalismi e dagli psicologismi confortevoli dell’uomo medio,
vivendo ai margini dei conformismi, rifiutandosi ogni sia pur minima
forma di integrazione. Si veda per tutti il protagonista della
novella Primo
amore.
L’amore
rende cattivi, questo è un fatto. Ma di quale amore si trattava,
precisamente? Dell’amore-passione? Non credo. Perché è proprio
l’amore passione quello satiriaco, non è vero? O confondo forse
con un’altra varietà? Ce n’è talmente tante, non è vero? Tutte
una più bella dell’altra, non è vero? L’amore platonico, per
esempio, eccone un altro che mi viene in mente all’istante. È
disinteressato. Forse l’amavo di amore platonico? Stento a
crederlo. Avrei forse tracciato il suo nome su delle vecchie merde di
vacca se l’avessi amata di un amore puro e disinteressato? E per di
più col dito, e succhiandolo subito dopo?(Samuel
Beckett,
Primo amore)
E
quando ancora fossero restati dei dubbi su questa “vitalità
nichilista” di Beckett, ecco che mi venne incontro il suo teatro.
Didi e Gogo, Hamm e Clov e ancor più Nagg e Nell, non sono esseri
lamentosi e disperati affetti da depressione cronica, ma “stoici”
e “cinici” filosofi in lotta perenne contro il mondo, i suoi
luoghi comuni, le sue buone abitudini, le sue sacre
certezze.
L’ironia teatrale di Beckett avvolge e sconvolge
ogni aspetto della vita, ogni fase, dalla nascita alla morte, e non
salva nulla e nessuno, nemmeno gli stessi personaggi che ne sono
portatori e che, alla fine, privati di coscienza, di memoria,
sdraiati o striscianti, sono solo bocche che parlano perché non
possono tacere, in assenza di qualsiasi sostanza, fisica o psichica,
atta a governarle.
La coerenza e il rigore di Beckett sono
le peculiarità, che l’hanno reso pressoché unico nel panorama
letterario del Novecento.
Dal momento in cui ho cominciato a
leggerlo, ho poi seguito ogni passo successivo della sua opera
assistendo progressivamente alla rarefazione delle parole, allo
svuotamento di ogni forma e struttura narrativa, così come alla
sottrazione di ogni lemma del linguaggio teatrale: dalla scenografia,
al personaggio, dalla trama all’azione.
Come nel mucchietto di
miglio di Zenone (citato da Clov all’inizio di Finale
di partita)
nulla si aggiunge a nulla, il tempo è fermo e la fine avvicinandosi
si procrastina. Così non resta che continuare, ripetere il già
detto per dirlo meglio cioè più povero (essenziale) possibile,
senza fronzoli, senza giri di parole, rivedere il già visto, il mal
visto, per sfocarlo nel grigio plumbeo dell’orizzonte. Ogni opera
successiva rinvia a quella precedente e si prolunga in quella
seguente con una coerenza logica, con un rigore sperimentale che non
hanno uguale. In una progressiva spoliazione che ha bandito le
epifanie joyciane e rarefatto la memoria involontaria di Proust; in
una tensione al silenzio e alla pagina bianca che tuttavia non
arriveranno mai per volontà dell’autore, pena l’attribuzione di
un senso a quel nulla e quel vuoto che invece ne sono la più
concreta negazione.
HAMM
Clov!
CLOV (irritato) Che c’è?
HAMM Non può darsi che noi… che noi… si abbia un qualche significato?
CLOV Un significato! Noi un significato! (Breve risata) Ah, questa è buona!
HAMM
Io mi domando. (Pausa). Una intelligenza tornata sulla terra non
sarebbe tentata di immaginarsi delle cose, a forza di osservarci?
(Assumendo la voce dell’intelligenza) Ah, ecco, ho capito com’è,
sì, ho capito cosa fanno! (Clov trasalisce, depone il cannocchiale e
comincia a grattarsi il basso ventre con le due mani. Voce normale) E
senza arrivare a tanto, noi stessi… (con emozione)… noi stessi…
a tratti… (Veemente) E dire che tutto questo non sarà forse stato
invano! (Samuel
Beckett,
Finale
di partita)
Mi
sono misurato teatralmente più volte con l’opera di Beckett,
ponendomi sempre la stessa domanda: dopo aver rappresentato l’attesa
inesauribile, la fine che non vuol finire, dopo aver inseguito
l’ultima parola che inaugura il silenzio, quale teatro è ancora
possibile oltre Beckett? O meglio ancora c’è un teatro davvero
praticabile oltre Beckett (la stessa domanda vale per il romanzo)?
Si sa, il mondo dello spettacolo così come il mercato letterario, da sempre fanno a meno di coerenza e rigore. Ognuno segue la sua strada che per lo più è sopravvivenza, carriera e dunque continuità, ci si può riempire la bocca di altisonanti discorsi sulla “morte dell’arte”, la fine del teatro, eccetera, ma poi ci si appresta ad andare avanti e non nel senso beckettiano, ma solo perché finire davvero sarebbe un duro colpo per il proprio ego e per il mestiere che ti dà di che vivere. Dunque, dopo Beckett, nonostante Beckett si può tranquillamente ricominciare, magari da un classico, da Shakespeare per esempio.
Ho
sempre creduto viceversa che il rigore di una ricerca non ammetta
scappatoie, né concessioni mercantili, perciò sono stato
costantemente convinto che dopo Beckett, dopo la sua disgregazione
della lingua teatrale, dopo il nulla, oltre il silenzio, quando la
partita sia davvero finita e l’ultima parola detta, non potesse
esserci più teatro di parola: o si ripete Beckett all’infinito o
il silenzio.
Forse un altro teatro, un’altra forma di
spettacolo c’è stata: il teatro laboratorio di Grotowski. Un
teatro “povero”, senza scene, trucchi e costumi, senza
personaggi, ma di esseri umani in relazione, un teatro del corpo, con
la sua intelligenza e il suo patrimonio di memorie.
E dopo Grotowski? Dopo che Grotowski ha abbandonato il teatro-spettacolo?
Plus rien, per dirla con Beckett. O “altro”: una ricerca – come ha fatto il regista polacco – che ha dissolto il teatro nella sua essenza per trasformarlo in una via di conoscenza e relazione tra gli uomini.
E
invece, il teatro continua, il romanzo continua; il rigore assoluto,
la verità universale di un uno non si traduce mai in un imperativo
valido per tutti. Si torna indietro, si ricomincia, con arroganza ed
insieme ingenuità, come se non fosse successo niente, come se la
fine non fosse già accaduta. I libri si aggiungono ai libri, gli
spettacoli agli spettacoli come i chicchi di Clov, in un accumulo
insensato, in una parata babelica per sempre sottomessa alle leggi
del mercato.
Gli
anniversari delle morti di Beckett e Grotowski dovrebbero almeno
servirci a riflettere sulla nostra incoerenza, sulla nostra mancanza
di rigore
Si, ci sono momenti come questo, come stasera, che ho quasi l’impressione di essere restituito al fattibile. Poi passa, tutto passa, sono di nuovo lontano, ho ancora una storia remota, mi aspetto in lontananza perché la mia storia cominci, perché si concluda, e di nuovo questa voce non può essere la mia. È là che andrei, se potessi andare, quello là sarei, se potessi essere.” (Samuel Beckett,Testi per nulla).