Istigazione alla sovversione: 120 giorni di detenzione

Traduzione di Mara Zedonghi
Il 16 febbraio 2020 è scomparsa Li Qiaochu, attivista per i diritti delle donne e del lavoro, poche ore dopo l’arresto del suo compagno Xu Zhiyong, importante avvocato per i diritti umani in Cina. Gli organi di sicurezza di Stato cinesi tratterranno Li Qiaochu in isolamento per quattro mesi, secondo il sistema noto come “Residential Surveillance at a designated location”, con l’accusa di “istigazione alla sovversione del potere statale”. Qualche settimana prima dell’arresto, Qiaochu aveva tentato di portare alla luce la sistematica repressione degli attivisti per i diritti civili, tra cui il suo compagno. Prima di essere arrestata aveva preso parte a una squadra di volontari che forniva mascherine gratuite agli operatori sanitari e aiutava donne vittime di violenza domestica. Perciò era stata messa sotto stretta sorveglianza, con agenti della pubblica sicurezza che stazionavano fuori dalla sua abitazione, sorvegliandola fino al giorno della sua scomparsa. In questo racconto – tradotto e ripubblicato qui con il suo permesso – Li Qiaochu racconta dell’incertezza e del terrore che ha dovuto affrontare in quei quattro mesi di detenzione.
A un anno di distanza dalla data del primo arresto, Li Qiaochu, il 6 febbraio 2021, ha ricevuto….
Oggi,
Gli editori
Verso le 23 del 15 febbraio 2020, mi trovavo da sola a casa di Xu Zhiyong, nel distretto di Changping, impegnata in un lavoro di volontariato per contrastare l’epidemia. Un amico mi ha mandato un messaggio per chiedere notizie di Zhiyong, e poi mi ha detto : “Ho sentito che è stato arrestato”. Non avendo sue notizie da otto o nove ore, ero molto preoccupata per lui. Alle 00:26 del 16 febbraio, mentre mi stavo preparando per andare a dormire, ho sentito qualcuno bussare con insistenza alla porta. In quell’istante un uomo ha gridato a gran voce: “Aprite! Ispezione di sicurezza!”. Trovandomi da sola a casa, a mezzanotte passata, è stato davvero spaventoso sentire quei colpi. Mi sono affrettata a prendere il telefono e, con le mani che mi tremavano, ho scritto a un mio amico: “C’è della gente che bussa alla mia porta!”. Ho iniziato a camminare avanti e indietro davanti alla porta in preda al panico, e alla fine, con esitazione, ho aperto.
Due uomini con tute protettive bianche si sono precipitati subito all’interno per una “ispezione di sicurezza per l’epidemia”. Mi hanno spinta su una sedia, mi hanno ordinato di stare ferma e mi hanno fatto indossare una mascherina. Stavo per chiedere loro un documento di riconoscimento, quando un altro uomo, entrato in un secondo momento, senza né uniforme di polizia né distintivo di riconoscimento, mi ha improvvisamente ammanettata da dietro dicendo: “Siamo del Public Security Bureau”. Nel frattempo i due uomini che erano entrati per primi si sono tolti le tute protettive e hanno mormorato: “Che caldo che fa”. Nonostante sapessi di essere seguita dai veicoli del servizio di sicurezza interna già da un mese e mezzo, mai avrei potuto immaginare un’incursione del genere. Nel frattempo, una decina di uomini erano entrati nel soggiorno, nessuno dei quali indossava un’uniforme né aveva mostrato un documento di riconoscimento. In quel momento mi sono resa conto di essere in pigiama, così ho chiesto di potermi cambiare. Uno degli uomini ha detto: “Aspetta un minuto. Un ufficiale donna sarà qui presto”. Ho aspettato per altri cinque o sei minuti, rimanendo seduta, finché una donna in uniforme è entrata, portando con sé una telecamera agganciata alla divisa. Mi ha portata in camera da letto perché potessi cambiarmi.
Dopo essermi cambiata, sono tornata a sedermi sulla sedia in soggiorno. Poi è entrato nella stanza un agente della sicurezza interna del distretto di Haidian di Pechino; l’avevo già incontrato quando ero stata convocata il 31 dicembre 2019. Mi ha mostrato il mandato e l’ha letto ad alta voce, senza alcuna espressione: “Li Qiaochu, sei convocata a giudizio per sospetto di istigazione alla sovversione del potere statale”. Mentre ascoltavo queste parole, ho cercato di capire cosa avessi potuto fare per essere accusata di un simile reato e cosa sarebbe potuto accadere. Mi sono sentita completamente disorientata e sopraffatta da un’ondata di ansia e di paura per ciò che sarebbe potuto accadere. Poi l’agente della sicurezza interna e altri due agenti hanno iniziato a ispezionare le due camere da letto della casa, mentre a me è stato chiesto di rimanere seduta sulla sedia in soggiorno, ancora ammanettata. Hanno messo tutti gli oggetti che trovavano in dei sacchetti, inclusi telefoni cellulari, chiavette USB, computer portatili e libri. Hanno stilato una lista di tutti gli oggetti confiscati e mi hanno chiesto di firmare. Ad assistere alla scena c’era anche il personale della gestione dell’Aobei Residential Compound. Durante una breve pausa dalla perquisizione, l’agente che aveva letto la convocazione mi ha chiesto: “Ti ricordi di me?” “Sì”, ho risposto. Ha continuato: “Pare che i miei avvertimenti non siano serviti a molto”. Una volta finito di perquisire la casa di Xu Zhiyong, mi hanno informata che sarebbero andati a Tianzuo Guoji Residential Compound, nel distretto di Haidian, per ispezionare anche casa mia. Prima di andare, ho chiesto se avessi potuto portare con me la tartaruga e l’acquario con il pesce (erano i preferiti della figlia di Zhiyong). L’agente di sicurezza che aveva letto il mandato, con una sorta di sorriso, ha detto: “Non potremo certo lasciarti portare una boccia per pesci”.
Dopo circa mezz’ora arrivammo presso la mia abitazione. Sono rimasta ammanettata per tutto il tragitto e non ho osato dire nemmeno una parola, nonostante continuassi a chiedermi quale atroce crimine avessi commesso per meritare un tale trattamento. Poi quattro o cinque agenti sono entrati in casa mia per effettuare una perquisizione. Casa mia non è molto grande e quindi si sono messi a rovistare anche tra gli scaffali, le mensole della cucina, hanno perlustrato ogni centimetro sotto il letto e dentro gli armadi. Hanno trovato un vecchio cellulare, uno scanner, un registratore e anche un timbro che ero solita usare quando inviavo cartoline ai prigionieri di coscienza. Ancora una volta, mi hanno chiesto di firmare la lista degli oggetti confiscati. Come prima, il personale del Tianzuo Guoji Residential Compound era sul posto durante la perquisizione.
Chiesi di poter prendere un antidolorifico, perché mi era venuta l’emicrania. L’agente della sicurezza interna responsabile della perquisizione mi ha versato un bicchiere d’acqua. Prima di andarcene, ho indicato uno sportello dove tenevo i miei antidepressivi, gli ho chiesto se potessi portarne alcuni con me. Dopo un attimo di esitazione, l’agente ha preso tutti i farmaci che erano nell’armadietto e li ha messi nella mia borsa dicendo: “Non ti preoccupare. Se tutta questa faccenda dovesse andare per le lunghe, ti faremo una prescrizione”. Quando ho sentito “se dovesse andare per le lunghe”, il mio cuore ha smesso di battere per un istante: mi resi conto che questa convocazione sarebbe stata ben altro rispetto a quella precedente. Cosa mi sarebbe successo? Per quanto tempo sarei rimasta isolata dal mondo? Tutte queste domande rimanevano senza risposta.
Mezz’ora più tardi ero seduta in un furgone blu, ancora ammanettata. Tenere le manette stava diventando molto doloroso, dopo tutto quel tempo. Ho cercato di raddrizzarmi, ma così facendo ho stretto ancora di più la morsa delle manette. Poi l’auto è arrivata al Centro Investigativo del distretto di Haidian. Anche per la convocazione precedente ero stata trattenuta lì, ma ero stata rilasciata dopo sole 24 ore. Così mi balenò in mente un pensiero: sarei stata rilasciata dopo 24 ore anche questa volta?
Dopo essere stata sottoposta a una serie di procedure di controllo sanitario, tra cui un esame del sangue e delle urine, mi è stato chiesto di sedermi su una sedia di ferro nella stanza delle indagini, ancora ammanettata. Di fronte a me erano seduti due agenti, senza uniforme e senza distintivo di riconoscimento. L’agente più giovane, alto e possente, mi fissava, mentre l’agente più anziano, con la testa china, non mi guardava nemmeno.
A un tratto, l’agente più giovane, con tono aggressivo, mi ha interrogata: “Sai perché sei stato convocata?”
Ho risposto: “No”.
Lui ha alzato la voce, montava di rabbia: “Non hai forse pubblicato online cose che non avresti dovuto pubblicare? E hai anche rilasciato interviste a media stranieri?”
Il suo tono mi terrorizzava profondamente e il mio cuore iniziò a battere velocemente. Eppure non c’era nulla di sbagliato in quello che avevo fatto, così ho cercato di calmarmi un po’ per non lasciare trapelare la mia voce tremula. Ho risposto: “Ho solo postato un resoconto veritiero della mia esperienza di quando sono stata convocata”. Alcuni media se ne sono interessati, mi hanno contattata e io ho semplicemente risposto alle loro domande sulla mia esperienza. C’è qualcosa di sbagliato in questo?”
Ha ignorato la mia domanda e ha continuato a inveire: “Cosa hai fatto di recente? Chi hai incontrato? Lo sai bene perché sei qui!”
Queste parole mi hanno lasciata del tutto disorientata. Dal momento che, a inizio anno, ero stata rilasciata e rimandata a casa e poi costantemente seguita da alcune auto del servizio di sicurezza interna. Perché ora questi agenti, che erano perfettamente al corrente di tutte le mie attività, mi chiedevano chi avessi incontrato e cosa avessi fatto? Ogni mia attività e spostamento erano avvenuti sotto i loro occhi.
Vedendo che non rispondevo nulla, l’agente più anziano, con un tono più morbido, mi ha detto: “Devi pur aver lasciato tracce delle tue attività. Altrimenti non ti avremmo convocata. Non devi rispondere subito alle nostre domande. Avremo tutto il tempo per chiacchierare”.
Sentendo queste parole, il mio battito accelerò ancora di più. Volevano farmi sparire! Ho pensato ai 709 avvocati scomparsi dei quali avevo letto online e un brivido mi ha percorso il corpo. Sembrava che l’interrogatorio stesse per finire, così presi coraggio e chiesi: “Come sta Xu Zhiyong? Sta ancora bene?”
L’agente più gentile si è avvicinato a me, mi ha dato una pacca sulla spalla e ha risposto: “Ti posso assicurare che al momento sta bene”.
Una volta terminato l’interrogatorio, mi è stato chiesto di firmare il verbale. L’agente più giovane era visibilmente insoddisfatto delle mie risposte, e mentre controfirmava il verbale dell’interrogatorio ha borbottato qualcosa tipo: “Che c’è da firmare?”. Poi sono stata spostata in una stanza di detenzione temporanea del Centro di Investigazione.
Ero l’unica persona nella stanza. Mi sono seduta su una lastra di ardesia gelida, ancora ammanettata. Continuavo a essere sopraffatta da paura, ansia e preoccupazione. E come se non fosse abbastanza, nella stanza faceva molto freddo. Ero molto stanca, così mi sdraiai su quella lastra di pietra fredda, ma subito il gelo iniziò a penetrare fino alle ossa. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. La mattina presto del giorno dopo, era il 16 febbraio, mi è stato dato da mangiare un baozi alle verdure. Ho chiesto di poter prendere i miei antidepressivi, ma la guardia ha risposto: “Non spetta a noi prendere questa decisione. Dovrai aspettare, a meno che tu non abbia febbre o raffreddore o altro”.
Il tempo trascorso al Centro di Investigazione è stato una tortura. Da un lato continuavo a cercare di ricordare cosa mai avessi fatto per essere sospettata di “istigazione alla sovversione del potere statale”, e allo stesso tempo ero preoccupata per Zhiyong, di cui non avevo notizie ormai da più di dieci ore. A giudicare dalle informazioni che avevo captato durante l’interrogatorio, probabilmente era detenuto. Gli era stata fatta violenza? Gli sono state date protezioni sufficienti per proteggersi dall’epidemia? D’altra parte, non riuscivo a non pensare a tutto il lavoro che era ancora in corso a Wuhan. Erano stati fatti progressi per prevenire la violenza di genere nell’ospedale di Fangcang? La paziente con cui avevo parlato diverse ore fa era stata ricoverata? Il tempo passava mentre ero immersa in questi pensieri.
Il pomeriggio del 16 febbraio venni portata all’ingresso del Centro di Investigazione. Cinque o sei persone, nessuna delle quali indossava un’uniforme della polizia o mostrava un distintivo di riconoscimento, sono scese da un’auto parcheggiata fuori dalla porta. Hanno tirato fuori un cappuccio nero e me l’hanno messo in testa. Non potevo vedere nulla. Non mi era mai capitata una cosa simile. Ero così terrorizzata che le gambe iniziarono a tremarmi e la mia mente si annebbiò. Poi due persone mi hanno trascinata per le braccia e spinta all’interno dell’auto.
Sono rimasta seduta in auto, per tutto il tempo con le manette e il cappuccio nero in testa. Ho perso completamente la cognizione del tempo e non avevo idea di quanto tempo avessimo trascorso in auto né di dove ci stessimo dirigendo.
Quando mi è stato sfilato il cappuccio nero, mi sono ritrovata in una stanza insonorizzata. Nella stanza c’era un letto singolo, una scrivania e due sedie. Intorno a me ci saranno state quattro o cinque guardie donne in uniforme. C’era anche una guardia più anziana che stava proprio di fronte a me. Con voce severa mi ha chiesto di togliermi tutti i vestiti, di sottopormi a un’ispezione e di indossare i vestiti e le ciabatte che erano stati preparati. Poi mi è stato ordinato di sedermi immobile sulla sedia di fronte alla scrivania, con le mani sulle ginocchia. Tre guardie mi hanno circondata, tutte e tre avevano un walkie-talkie. Mi hanno chiamata “il target”. Mi hanno detto: “Non ti è permesso parlare o muoverti senza il nostro permesso fin quando sei qui”.
Mi hanno tolto gli occhiali ordinandomi di non guardarmi intorno. Non ho osato girare la testa; ho strizzato gli occhi fino a socchiuderli, per cercare di esaminare la stanza senza poter essere notata. Con grande stupore, ho visto una piccola finestra all’interno della stanza, grande circa quanto il palmo della mia mano. Mi avrebbe permesso di distinguere il giorno dalla notte, e il solo pensiero mi fece sentire sollevata.
Istintivamente girai la testa verso la finestra, ma immediatamente una guardia urlò: “Target! Stai ferma e guarda avanti! Chi ti ha detto che puoi muoverti?”. Mi spaventai. La giovane donna sulla ventina che stava di fronte a me era priva di espressione e i suoi occhi si riducevano a fessure mentre mi fissava. Era la prima volta che vedevo una persona reale comportarsi come se fosse un robot. Soltanto quando le ho sentite riferire ai walkie-talkie ogni mio movimento e ogni mio cambiamento di espressione facciale, ho potuto constatare che erano effettivamente persone in carne e ossa.
Dopo cena, ancora una volta, mi hanno ordinato di stare seduta immobile. Improvvisamente si è sentito un rumore fuori dalla porta e sono comparse due sagome. Il mio cuore batteva fortissimo. Due uomini senza uniforme sono entrati nella stanza, con in mano dei cartellini del personale. Non riuscivo a leggere i nomi sui cartellini e non ho osato chiedere.
L’uomo più alto mi ha detto che erano i responsabili dell’indagine preliminare del mio caso e mi ha ordinato di chiamarlo “ufficiale Li”. Ha aggiunto di essere stato stato l’investigatore principale nel “New Citizens’ Case” di Ding Jiaxi nel 2013. L’ufficiale Li ha tirato fuori un pezzo di carta e ha iniziato a leggerlo. Era il mio avviso per la “sorveglianza residenziale in un luogo designato” con l’accusa di “istigazione alla sovversione del potere statale”. Mentre riflettevo sulle parole “istigazione alla sovversione del potere statale”, mi ha guardato e ha detto a bassa voce: “La pena massima prevista per l’accusa di istigamento alla sovversione del potere statale è la pena di morte. D’ora in poi sarai controllata come se fossi condannata a morte! Non sapevi di essere sotto sorveglianza?!”
Sentire le parole “condannata a morte” mi ha fatto andare nel panico. A stento riuscivo a respirare, e la mia mente si era completamente svuotata. Mentre un attimo prima stavo riflettendo sull’“istigazione alla sovversione del potere statale”, ora non riuscivo a pensare a nulla. Non ho idea di cosa abbiano detto dopo, anche se li ho sentiti chiedermi se avessi bisogno di qualcosa.
Ho fatto un respiro profondo nel tentativo di calmarmi un po’ e di nascondere il mio sentimento di paralisi e la mia ansia, mentre me ne stavo seduta in una stanza minuscola ed ermetica. Ho detto: “Soffro di depressione abbastanza grave e prendo antidepressivi da molto tempo. Chiedo che mi sia permesso di prenderli il prima possibile. Chiedo anche che i miei genitori siano informati della mia attuale condizione”.
Quando firmai il verbale dell’interrogatorio, notai che il centro di detenzione si chiamava “Beijing Municipal Tongda Asset Management Ltd. Reception Centre”. Ah, quindi questa stanzetta completamente ermetica e strettamente sorvegliata veniva chiamata “Reception Centre”!
Il secondo interrogatorio ha avuto luogo la sera del 17 febbraio. L’ufficiale Li mi ha detto che mio padre era stato informato per iscritto della mia situazione, ma che per quanto riguardava la mia richiesta di antidepressivi al momento non potevano fornirli, poiché l’ambulatorio dell’ospedale Xiehe dove ero stata curata in precedenza non riusciva a trovare la mia cartella clinica.
Tuttavia, fu solo dopo il mio ritorno a casa, il 19 giugno, che venni a sapere che dal 16 febbraio, ovvero da quando ero in isolamento, mio padre aveva contattato prima la stazione di polizia di Dongxiaokou, la stazione locale della la zona in cui abitava Xu Zhiyong, e poi la stazione di polizia di Beixiaguan, la stazione locale della zona in cui abitavo io. Ma in nessuna delle due stazioni di polizia riuscì a ottenere informazioni sul mio caso. Dopodichè chiamò l’Ufficio locale per la Pubblica Sicurezza, dove tuttavia, dopo aver ricevuto due telefonate da mio padre, smisero di rispondere al telefono. Dopo circa un giorno a mio padre venne detto, senza alcuna formalità legale, di andare alla stazione di polizia di Yuqiao nel distretto di Tongzhou. Lì incontrò gli agenti della sicurezza interna dell’ufficio municipale di Pechino e del distretto di Tongzhou. Senza nessun preambolo gli agenti della sicurezza interna mostrarono a mio padre uno degli articoli scritto da Xu Zhiyong e gli chiesero che cosa ne pensasse. Mio padre era perplesso: “È mia figlia che è stata arrestata. Perché mi state chiedendo di leggere l’articolo di Xu Zhiyong? Mia figlia non è stata forse arrestata per gli articoli che lei stessa ha scritto?”
Gli agenti della sicurezza interna chiesero poi a mio padre di firmare un documento, ma non appena finì di firmare glielo tolsero di mano. Mio padre, sotto una tale pressione, non fece nemmeno in tempo a leggere il documento che stava firmando.
In seguito i miei genitori vennero interrogati da un agente della sicurezza interna dell’ufficio municipale di Pechino di nome Sun, e solo allora hanno appreso che ero sospettata di “istigazione alla sovversione del potere statale”. Mia madre chiese: “Cosa ha mai fatto mia figlia per essere sospettata di istigazione alla sovversione del potere statale?” Sun rifiutò di rispondere in nome del “segreto di stato”. Mia madre proseguì: “È lo stesso metodo secondo cui noi insegnanti correggiamo le domande aperte di un esame? Ovvero se pensiamo che vadano bene allora le valutiamo come corrette, se pensiamo che non vadano bene allora le valutiamo come sbagliate?” Sun rispose: “Se vuole intenderla così faccia pure… Noi abbiamo solo gestito questo caso in conformità con la legge”.
Ora posso dire che questa “sparizione secondo la legge” è una delle esperienze più assurde in cui ci si possa ritrovare.
Nella minuscola stanza di “sorveglianza residenziale in un luogo designato”, la luce bianca abbagliante sopra di me era tenuta costantemente accesa. Per il primo mese e mezzo dovetti stare ferma per quattro ore di fila la mattina e quattro ore il pomeriggio. Le mie uniche occasioni per sgranchirmi un po’ erano durante i pasti o durante il tragitto verso i bagni. A volte chiedevo l’acqua solo per avere la possibilità di cambiare postura. Stare immobile per otto ore al giorno rendeva tutto il mio corpo rigido, come se il sangue nel mio corpo non circolasse più.
E per quanto riguarda le tre guardie-robot, le tre donne che stavano accanto a me, il loro ruolo di “sorvegliare un prigioniero condannato a morte” come poteva in qualche modo avere senso? Quando mi osservavano mentre dormivo, facevo la doccia o andavo in bagno, a cosa pensavano realmente?
Nei due mesi e mezzo successivi le guardie-robot vennero ridotte da tre a due.
Per ogni due ore che stavo immobile, mi veniva concesso di muovermi per 20 minuti. (Durante il mio interrogatorio con il servizio di sicurezza interno del 9 settembre, l’ufficiale Li ha sottolineato: “Sono io che mi sono assicurato che tu avessi la possibilità di alzarti e muoverti. Come puoi parlare solo della tua sofferenza durante la tua detenzione? Che dire delle volte in cui ti abbiamo trattato bene? Non è importante per le persone rette avere la coscienza pulita?”).
Stando seduta immobile per lunghi periodi di tempo, i muscoli dei polpacci avevano incominciato ad atrofizzarsi, tanto che dopo il mio rilascio non riuscii più a camminare normalmente. Ogni sera, quando mi mettevo a letto, mi ritrovavo la luce bianca accecante direttamente in faccia. Soffrivo di insonnia e agitazione, per questo inizialmente non riuscivo nemmeno ad addormentarmi. Appena mi coprivo gli occhi con la mano le guardie mi rimproveravano, e a volte addirittura mi abbassavano il braccio con violenza. Così capii che al Centro di Detenzione c’era anche una posizione specifica nella quale dormire. Dovevo sdraiarmi sul dorso, con le mani, le spalle, il collo e il viso scoperti e visibili, fuori dalla coperta. Anche quando mi capitava di cambiare posizione dopo essermi addormentata, venivo svegliata dalle guardie-robot.
Gradualmente ho imparato le “regole” da rispettare in un “Centro di Sorveglianza Residenziale”: obbedire sempre agli ordini dati dalle guardie; alzare la mano per segnalare qualsiasi problema così che le guardie di sicurezza possano riferire ai superiori tramite walkie-talkie; si può fare qualcosa solo se viene dato il permesso; parlare alle guardie è proibito; non è permesso guardarsi intorno quando qualcuno entra nella stanza; quando si cammina all’interno della stanza, muoversi sempre lentamente e mantenere una certa distanza dalla finestra e dalle pareti; tenere i propri effetti personali ordinati; farsi sorvegliare dalle guardie anche quando si va in bagno o si fa la doccia. Se non segui le regole vieni rimproverato dalle guardie e dagli agenti, che ti minacciano di ridurre ulteriormente il tuo tempo per l’attività fisica giornaliera, già assai ridotto.
Sono stata privata di tutto. Chiunque si trovasse davanti a me poteva rimproverarmi, minacciarmi e farmi la predica. Il sistema penitenziario si arroga un potere illimitato in nome della “sicurezza nazionale” ed esercita indiscusso il suo potere. È un sistema penitenziario che prosciuga la vitalità e tenta di trasformare le persone sotto sorveglianza in “macchine obbedienti”. Vivere significa solo essere incessantemente interrogati.
Dov’era questo posto? Qual era il suo scopo? Seduta nella mia stanzetta ermetica non ne avevo assolutamente idea. Ma il mio udito e la mia memoria erano diventati insolitamente vigili durante questo periodo: ogni giorno riuscivo a sentire il rombo degli aerei che decollavano o atterravano a varie ore, e ogni sera sentivo le grida delle esercitazioni militari e degli slogan militari. Dalla porta, che dava alle mie spalle, gli investigatori arrivavano fino alla sedia sulla quale ero seduta in circa cinque o sei passi. Dalla sedia vicino alla porta fino alla toilette, sul lato destro della stanza, erano circa otto passi, e da lì alla letto erano meno di dieci passi. Non potevo avvicinarmi alla finestra accanto al letto, bloccata da tende pesanti.
Sono arrivata a comprendere il bisogno umano di luce naturale e aria fresca. Ho capito come calcolare lo scorrere del tempo seguendo degli schemi – le guardie-robot si davano il cambio ogni due ore; ogni mezz’ora il personale mi portava un bicchiere d’acqua – e capire queste dinamiche mi permetteva di concedermi una piccola pausa durante tutte quelle giornate durante le quali ero costretta a stare seduta immobile ininterrottamente.
Trovavo l’esercizio quotidiano della camminata piuttosto deprimente: una guardia-robot dietro di me ricalcava il mio passo e tre guardie mi osservavano. Nel breve lasso di tempo in cui potevo muovermi ero schiacciata tra due guardie, una davanti a me e una dietro, a circa dieci piccoli passi di distanza. Dovevo fare passi lenti e piccoli, la guardia dietro di me seguiva fedelmente ogni mio passo. Mi calpestava le ciabatte da quanto mi seguiva da vicino.
Soffrivo di depressione e ansia. Circa cinque giorni prima del mio arresto, la somministrazione delle mie medicine per la depressione era stata sospesa e, di conseguenza, avevo iniziato ad avere palpitazioni, ansia, insonnia, mal di testa e altre reazioni fisiche e psicologiche piuttosto gravi. Più tardi, gli agenti della sicurezza interna si recarono presso l’ospedale Xiehe, dove ero stata in precedenza, e recuperarono tutte le mie cartelle cliniche. I miei genitori andavano regolarmente in ospedale per richiedere le mie prescrizioni, così riuscii a continuare la mia cura di antidepressivi. Ogni mattina, due persone in camice bianco che si definivano “dottori”, venivano a fare il giro di visite e mi chiedevano come stessi. Prima di questo periodo, avevo sempre pensato che i medici fossero “angeli in bianco”, ma in un ambiente infernale come quello in cui stavo vivendo, potevano davvero esistere degli angeli?
Le loro visite giornaliere erano fredde e meccaniche:
“Dottore, soffro di insonnia, palpitazioni e mal di testa”.
“Non c’è niente da fare. L’ambiente qui dentro è quello che è. Non si può cambiare. Se proprio non riesci a dormire, ti daremo delle medicine”.
“Dottore, sono stata costipata per tre o quattro giorni”.
“Possiamo darti qualcosa per questo, e aumentare la medicina per la stitichezza a quattro pillole al giorno”.
“Se ne prendo così tante, mi vengono i crampi. Sto troppo male”.
“Non c’è nulla che possiamo fare a riguardo, altrimenti dovrai fare un clistere di glicerina una volta ogni tre giorni”.
Dopo circa due mesi di detenzione, l’ambiente circostante aggravava sempre di più lo stato della mia depressione e della mia ansia; gli agenti mi hanno detto di aver richiesto un consulto di uno psicologo perché mi visitasse e potesse aggiustare il dosaggio delle mie medicine.
Un pomeriggio, lo psicologo è entrato nella mia stanza accompagnato da un altro medico. Ha chiesto alla guardia-robot che stava accanto a me di lasciare temporaneamente la stanza, sostenendo che questo avrebbe creato un ambiente un po’ più rilassato e facilitato la mia diagnosi. Nell’ora in cui la guardia non era nella stanza, lo psicologo mi ha chiesto informazioni sul mio stato emotivo, ha osservato attentamente la struttura della mia stanza, si è informato sulla mia storia clinica e sulle mie esperienze pregresse di malattia. Dato il sistema di “gestione-meccanica” a cui ero stata sottoposta per così tanto tempo, mi fece incredibilmente piacere avere a che fare con un po’ di umanità, così tanto che ho voluto continuare a parlare con lo psicologo anche successivamente, al punto da illudermi di essere tornata nella sala terapeutica dell’ospedale Xiehe.
L’ora passò velocemente e lo psicologo si raccomandò di prendere gli stabilizzatori dell’umore due volte al giorno, invece di prenderli irregolarmente solo quando ne avevo urgente bisogno, come mi avevano costretta a fare fino a quel momento (l’uso a lungo termine degli stabilizzatori dell’umore può facilmente causare problemi di memoria e dipendenza).
Nei due mesi successivi, oltre alle medicine, scoprii che vomitare dopo i pasti alleviava la mia paura, il mio dolore. Ogni giorno, dopo colazione e cena, alzavo la mano e chiedevo di andare in bagno. Mi accovacciavo esasperata di fronte al water, sentendo lo stomaco in subbuglio, e potevo così scaricare la rabbia e la pressione che non potevo rilasciare altrimenti; era una forma di abuso che imponevo a me stessa. E poi sentivo una guardia parlare con qualcuno attraverso il walkie-talkie: “Ha vomitato la medicina che ha appena preso. Manda un’altra dose”. “Dite al dottore di darle un antiemetico”. Pochi minuti dopo, il dottore entrava a grandi passi nella stanza e mi dava una pillola.
Le guardie del centro di detenzione erano infastidite da questa mia abitudine. Dopo aver vomitato, tornavo a sedermi sulla mia sedia. Una volta un agente entrò nella stanza gridando furioso: “Ti abbiamo trattato troppo bene! Ti abbiamo dato della frutta di tanto in tanto, ti abbiamo lasciato del tempo libero, abbiamo ridotto il numero di guardie a due. E tu cosa fai? Ci causi sempre più problemi! Se continui così tornerà tutto com’era. Stare seduta immobile su una sedia tutto il giorno ti fa forse sentire bene? Ti piace forse avere tre guardie che ti circondano?” Mi sentii fragile e sopraffatta. Mi sorpresi a pensare che il metodo di auto-tortura che avevo adottato per sfogare le mie emozioni potesse aver effettivamente dato fastidio a qualcuno; ho abbassato la testa e mi sono scusata. L’agente ha continuato: “Se provi ad ucciderti in un posto come questo, ti assicuro che la tua vita sarà peggiore della morte”.
Non solo ho rinunciato ai diritti che mi spettavano, ma addirittura mi identificavo con il sistema di valori che considerava i diritti come benefici speciali o ricompense, concessi come carità. Per sopravvivere un po’ più comodamente lì dentro, avrei dovuto collaborare e obbedire. A volte mi sentivo appagata soltanto perché potevo mangiare un po’ più di carne, o perché avevo del tempo extra per l’attività fisica, o la possibilità di fare il bagno un po’ più a lungo. Sognavo di sentire le guardie o gli agenti dire frasi come: “Ti sei comportata bene ultimamente, ti lasceremo fare più attività fisica” oppure “Il tuo comportamento è migliorato, possiamo darti un po’ di carne” o ancora “Sei stata più collaborativa, puoi fare un bagno”. Questo sistema distorto schiacciava e alienava i principi secondo i quali avevo vissuto la mia vita fino a quel momento, e mi spogliava della mia dignità umana.
Nel frattempo, soffrivo di mal di testa, palpitazioni, costipazione, problemi di stomaco, infezioni del tratto urinario e altri problemi, continuamente, uno dopo l’altro. Nei momenti in cui il mio corpo e la mia mente hanno raggiunto lo stato peggiore, arrivavo a prendere fino a una dozzina di farmaci per “sintomi secondari” in un solo giorno. Un interrogatore preprocessuale una volta mi disse, come se stesse facendo una battuta: “È perché ormai hai un’ossessione per le tue medicine. Non è che ti abbiamo costretto noi a prenderle”.
Dopo la mia scarcerazione, chiesi il rilascio di informazioni presso l’Ufficio di Pubblica Sicurezza del distretto di Haidian, richiedendo le qualifiche dei medici che mi avevano curata, facendo visite giornaliere e prescrivendo medicine durante la mia detenzione, le loro unità, le cartelle sul mio consumo di farmaci, e così via…
Durante una discussione sul mio rilascio in libertà vigilata, l’ufficiale Li, che si occupava del mio caso, mi disse: “All’inizio, avevamo centinaia di ragioni per non darti le tue medicine. Abbiamo corso un rischio enorme lasciandoti lottare per il tuo diritto di continuare a prendere gli antidepressivi, e poi non li hai presi correttamente e hai dato la colpa a noi. Non hai una coscienza? Che cos’hai da dire a riguardo?”.
Non ho mai avuto la possibilità di parlare con le guardie-robot nella mia piccola stanza. Un pomeriggio ricordo che ero seduta come richiesto sulla mia sedia, quando una delle guardie accanto a me è svenuta. Senza nemmeno riflettere, mi sono alzata per aiutarla e le ho chiesto se stesse bene. La sua compagna in piedi di fronte a me ha ruggito: “Target! Chi ti ha detto che puoi muoverti? Siediti con la bocca chiusa!” Ho spiegato: “È svenuta, sto solo cercando di aiutarla”. “Siediti e basta! Non mi rivolgere la parola!” Solo dopo avermi rimproverata ha aiutato la sua compagna frastornata a sedersi, e ha usato il suo walkie-talkie per chiedere a uno del personale di entrare e sostituirla per un po’.
In queste stanze sigillate e strettamente sorvegliate nelle quali vengono tenute le persone, persino ogni minima relazione interpersonale è proibita. Sono costellate di rigidi controlli comportamentali e di rimproveri infondati. In un tale ambiente, conversare e instaurare relazioni con i miei investigatori era la mia unica opportunità di parlare e comunicare con qualcuno. In questo modo, le frasi “Sei autorizzata a parlare solo con noi”, “Durante questo colloquio puoi sederti in modo più rilassato o alzare e sgranchirti” o “Ti abbiamo portato degli snack”, consolidarono in me, detenuta, un senso di dipendenza psicologica nei confronti dei miei investigatori, al punto che i diritti che avrei dovuto avere si trasformavano in favori e ricompense. Per un processo a me impercettibile sono diventata affetta dalla Sindrome di Stoccolma. Un giorno, come se fossi un automa, ho scritto: “La polizia mi ha pazientemente istruita. Non mi hanno torturata. Mi hanno dato l’opportunità di ottenere le mie medicine e di fare attività fisica. Mi pento profondamente delle affermazioni insolenti che ho rivolto a loro su Twitter”. Quella notte in sogno ho visto il mio corpo senza vita.
Dal 16 febbraio alla fine di aprile, a eccezione di un viaggio per un’udienza preliminare, venivo interrogata per almeno due ore ogni sera. Mi hanno detto che ero sospettata di “istigazione alla sovversione del potere statale” con il reato di aver pubblicato su Internet l’articolo “provocatorio” di Xu Zhiyong. In seguito, mi hanno portato decine di articoli stampati di Xu Zhiyong, uno dopo l’altro, e me li hanno fatti leggere, pagina per pagina, e una volta finito venivo costretta a criticarli.
Quella sensazione di umiliazione mi ha perseguitata per molto tempo. Era come se mi mordessi la lingua per suicidarmi, ma senza riuscirci, e poi dovessi usare il pezzo di lingua che mi rimaneva per riprodurre il loro linguaggio.
Mi è stato detto di scrivere una “dichiarazione di pentimento” per il mio “crimine”. Mi hanno spinta a scrivere forzatamente, ancora e ancora. Non capivo cosa significasse, così mi hanno detto: “Devi scrivere qualcosa sul fatto che hai rivalutato e criticato il pensiero di Xu. Ti rendi conto che aiutandolo a pubblicare il suo articolo su Internet hai consegnato un’arma alle potenze straniere che vogliono attaccare il governo cinese? Vuoi fare ammenda per la tua condotta o no? Vuoi tracciare una linea netta fra te e il pensiero sovversivo e le potenze straniere?”
Fino a che punto la mia “dichiarazione di pentimento” avrebbe confermato le accuse penali contro di me? Avevo dei dubbi. Ma gli investigatori e gli agenti della sicurezza hanno preteso di ricontrollare più e più volte la mia “dichiarazione di pentimento” e, così facendo, hanno assunto pieno controllo del mio corpo e del mio spirito.
Dagli atti di ribellione alla coscienza di ribellione, dalla capacità di pensare con la propria testa all’aspirazione a pensare con la propria testa, tutto ciò ha fatto sì che l’obbedienza, la collaborazione e la sottomissione fossero frutto della mia stessa mente, così che l’umiliazione andasse di pari passo alla soppressione del mio carattere.
Sia che mi arrestassero sia che mi interrogassero, sia che mi sorvegliassero sia che preservassero il mio equilibrio psico-fisico, il fatto stesso che loro esistessero faceva sì che non potessi mai sfuggire al dramma di essere “prigioniera”. “Sono troppo debole e arrendevole”, ho scritto nella mia “dichiarazione di pentimento”, “merito di essere umiliata”. Anche dopo il mio rilascio, ho continuato a tormentarmi e censurarmi: “Non hai forse ammesso la tua colpa per atti illeciti e mostrato pentimento? Non hai detto che volevi tracciare una linea netta nel tuo pensiero? Coloro che avevano limitato la mia libertà e mi avevano costretta a uno stato di totale isolamento mi parlavano di “impegno” e “moralità”. Hanno usato la “dichiarazione di pentimento” per umiliarmi, interrogatorio dopo interrogatorio, così che ho continuato a provare un senso di vergogna e di paura anche dopo aver lasciato il centro di detenzione.
Durante il mio processo, hanno tentato di convincermi a persuadere Xu Zhiyong a confessare la sua colpa. Allo stesso tempo, mi hanno chiesto se Xu Zhiyong avesse qualche debolezza nella suo carattere. Dopo non aver ricevuto risposta, hanno detto fra loro: “Xu Zhiyong ogni giorno chiede notizie sull’epidemia negli Stati Uniti, ed è estremamente preoccupato per la salute di sua figlia. Possiamo dargli questa come via d’uscita: se è disposto a confessare la sua colpa, possiamo assicurarci che sua figlia sia sana e salva”.
In una dimensione in cui ero soggetta al sorveglianza video 24 ore su 24 e a costanti rapporti in tempo reale fatti dalle guardie, anche le mie espressioni facciali appartenevano all’apparato statale. Non osavo ridere. Non osavo aggrottare le sopracciglia. A volte piangevo in silenzio, quando venivo presa dal mio malessere all’improvviso; allora una guardia-robot, senza alcuna espressione, mi passava un fazzoletto. L’interrogatorio, quelle sere, aveva un tono di conforto per cercare di analizzare la mia crisi di pianto.
Ricordo che un giorno un investigatore, che mi aveva già interrogato diverse volte, entrò nella mia stanza per parlarmi. Appena è entrato mi ha guardata e ha detto: “Perché hai un’espressione così stupida? Sei diventata idiota? Il tuo cervello ha smesso di funzionare?”
In quanto donna e detenuta, andare in bagno, lavarsi e cambiarsi i vestiti doveva essere fatto davanti a guardie donne, oltre che a telecamere di sorveglianza. Privacy personale? Un senso di pudore? Chiaramente non si ha diritto di parlare di queste cose lì dentro. Non mi era permesso legarmi i capelli all’indietro e mi sentivo così in imbarazzo pensando a che aspetto trasandato dovevo avere con quei capelli scompigliati. Verso la fine della mia custodia sono riuscita a ottenere un elastico nero per legarmi i capelli. Non mi era permesso indossare biancheria intima, e ogni volta che mi trovavo di fronte agli investigatori uomini istintivamente mi assicuravo sempre che i miei vestiti non fossero aderenti al mio corpo.
L’ufficiale Li ogni tanto diceva cose sessualmente denigranti. Una volta stavano per assentarsi per qualche giorno, così sono venuti a dirmi che non ci sarebbero stati spostamenti al tribunale per un po’. L’ufficiale Li mi disse, quasi con scherno: “Anche se sarà solo per pochi giorni, sono triste all’idea di dovermi separare da te”.
Quando abbiamo discusso della mia relazione con Xu Zhiyong, mi ha ripetutamente sminuita e umiliata: “Hai sentito dire che i vivi vengono sepolti con i morti? Ti senti importante? Non sei altro che un oggetto di sepoltura per Xu Zhiyong. Non avrai davvero intenzione di aspettare che Xu esca per poter vivere insieme felici e contenti, vero? Non vuoi avere dei figli tuoi? Vedi, lui è molto vecchio, ma tu sei ancora giovane”. “Pensi che Xu sia un uomo duro? Anche se non ho idea se sia duro anche a letto o no”. Non riesco a ricordare la mia espressione o la mia reazione in quel momento, ma ricordo queste parole molto chiaramente. Attraverso l’umiliazione sessuale hanno cercato di farmi sentire come se avessi “ricevuto questo trattamento solo per aver erroneamente rifiutato un complimento”.
Durante la mia detenzione, i miei investigatori cercavano costantemente di far leva sul mio senso di solitudine dicendo cose come: “Sei già stata dimenticata dal mondo là fuori” e “A parte i tuoi genitori, a nessuno importa della tua condizione.” Durante quel periodo mi sono spesso ritrovata a pensare: “Se scavassero un buco e mi ci gettassero dentro, nessuno se ne accorgerebbe”.
Un pomeriggio l’ufficiale Li mi ha portato una lettera scritta da mia madre e l’ha aperta davanti a me; ho riconosciuto la grafia. Diceva: “Devi collaborare con i compagni poliziotti. Qualsiasi cosa tu faccia, sarai sempre la bambina di Mamma e Papà”. Ho provato una fitta al cuore, come se fosse diventato un cuscinetto per aghi. Ero totalmente sopraffatta dai sensi di colpa perché i miei genitori stavano soffrendo a causa mia. Ho abbassato la testa senza dire nulla. L’ufficiale Li ha detto: “Ora i tuoi genitori passano ogni giorno a casa piangendo. Non vorresti scrivere una lettera per dire loro che stai bene? Le preoccupazioni dei tuoi genitori potrebbero essere basate sul fatto che sono stati ingannati da potenze straniere. Devi avvertire loro nella tua lettera di non intrattenere rapporti con esterni”. Ero davvero combattuta: se non avessi scritto la lettera come richiesto, i miei genitori non avrebbero mai ricevuto mie notizie, avrebbero continuato a preoccuparsi della mia salute e della mia sicurezza e avrebbero continuato a darsi da fare per me. Mandargli una lettera scritta con la mia grafia avrebbe alleviato le loro preoccupazioni? Così, ho scritto una lettera ai miei genitori come richiesto. “Papà, mamma, mi dispiace molto di avervi fatto preoccupare. Qui va tutto bene, i miei diritti sono tutelati e non sono stata maltrattata. Evitate ogni contatto con il mondo esterno e per favore aspettate che io torni a casa”.
Dopo essere stata rilasciata in libertà vigilata a giugno, ho appreso che i miei genitori avendo letto la lettera si erano sentiti sollevati circa la mia condizione di detenzione. Dato il mio avvertimento si convinsero di non dover avere rapporti con l’esterno. Non hanno avuto contatti con nessuno, se non con un avvocato che voleva che firmassero un accordo della procura e che ha mantenuto i contatti con gli uffici della sicurezza interna della prefettura e municipale. Con il permesso della sicurezza interna, hanno preparato vestiti e libri per me, ringraziandoli profusamente per questa concessione.
I miei interrogatori continuarono fino alla fine di aprile. Dopodichè, gli investigatori mi hanno destinata all’ufficiale Guo del distretto di Haidian per “aiutarmi a tornare a una vita normale” e per rimanere in contatto con me dopo la scarcerazione ed essere informato qualora avessi avuto problemi in seguito alle misure detentive a cui ero stata sottoposta.
Un giorno, all’inizio di maggio, l’ufficiale Li è entrato nella mia stanza portando alcuni documenti e mi ha chiesto con tono inquisitorio: “Hai firmato una lettera della procura per un avvocato prima di febbraio?” Ero perplessa così ho alzato lo sguardo e ho chiesto: “Mi state dicendo che non ho il diritto di ingaggiare un avvocato? Vi ricordo che la legge dice che posso ingaggiare un avvocato per mio conto, e che il mio avvocato può chiedere di farmi visita”. L’ufficiale Li ha risposto: “Pensi che davvero ti convenga chiedere un avvocato nella tua situazione? Non puoi incontrarlo”. Poi ha spinto le carte davanti a me, e indicandole ha detto: “Qualcuno, in qualità di tuo avvocato, ha diffuso falsità su Internet, dicendo che sei scomparsa e che non sanno se tu sia viva o morta, approfittando del tuo caso per attaccare il governo cinese. Ora devi scrivere qualcosa per riabilitare il tuo nome e chiarire se sei collusa o no con gli avvocati per i diritti umani e le potenze straniere. Saresti stata scagionata tra pochi giorni. Se devi incolpare qualcuno, incolpa le persone là fuori che fanno appelli a tuo favore. Se sospettiamo che la gente si appigli al tuo caso dopo il tuo rilascio, ti riporteremo in custodia protettiva per un po’”. Ero senza parole, eppure per la prima volta nei tre mesi in cui sono stata rinchiusa apprendevo che c’erano persone là fuori che prestavano attenzione al mio caso e mi stavano cercando. Ho capito di non essere stata dimenticata e questo mi ha dato la spinta a voler sopravvivere e uscire da quel posto, per poter avere la possibilità di parlare.
Per sopravvivere in un centro di detenzione, ho dovuto trovare dei diversivi per riempire i lunghi periodi passati seduta sulla mia sedia: ho imparato a meditare sui film, le poesie e i romanzi che avevo visto e letto. Quei preziosi ricordi mi permettevano di filtrare e rifiutare le distorsioni del lavaggio del cervello a cui venivo sottoposta, di preservare la mia vitalità e di evitare di trasformarmi nella macchina disciplinata che loro volevano che io fossi. Questo esercizio richiedeva tutta l’energia di cui disponevo.
La grande forza che mi sorreggeva era la consapevolezza che quei mesi passati in prigione mi permettevano di essere fisicamente vicina a Xu Zhiyong come mai lo sarei stata negli anni a venire. Desideravo avere qualche tipo di capacità speciale, come la telepatia, per poter parlare con lui. Un investigatore mi ha mostrato una foto di noi due insieme sul mio computer. Ho fatto di tutto per imprimere quella foto nella mia mente. Pensavo costantemente alla quotidianità che avevamo condiviso, così tanto da sognarlo anche la notte.
La mattina del 19 giugno, quando un agente della sicurezza interna mi ha letto il mio “Notifica di rilascio in libertà vigilata”, sono rimasta seduta sulla mia sedia intorpidita, incapace di provare gioia all’idea aver riconquistato la mia libertà. Per di più ero confusa e non sapevo come sarei riuscita ad andare avanti da sola, una volta uscita.
Il secondo giorno dopo il mio rilascio, ho cercato di riordinare internamente le mie esperienze, ma non avevo memoria di alcuni dei momenti più difficili. L’opinione pubblica enfatizza sempre la dedizione e i punti di forza di una persona, la sua audacia nell’affrontare tribolazioni, perciò è sconsigliato mostrare le proprie debolezze in pubblico. Un’attenzione e copertura mediatica ancora più intense sono poi riservate a personaggi eroici o intellettuali, mentre il trauma psicologico viene ignorato o stigmatizzato da tanti.
Nei giorni immediatamente successivi al mio rilascio avevo attacchi di panico, incubi, insonnia, ero incapace di concentrarmi ed ero ipervigile, avevo flashback traumatici, mi tremavano le braccia e le gambe. Vivevo nell’ombra, quando mi incontravo con gli amici parlavamo sottovoce e ci guardavamo intorno guardinghi. Nel frattempo, i miei genitori si preoccupavano della mia incolumità quasi a un livello nevrotico. Conducevano degli esami su di me. Si preoccupavano ogni volta che uscivo di casa, si preoccupavano che parlassi troppo, che ci fossero informatori intorno a me e persino che la sicurezza interna si facesse una cattiva impressione di me. Mi sentivo come se tutta la mia famiglia soffrisse di una sorta di “mania investigativa”.
Spesso sogno le circostanze in cui ho scritto la mia dichiarazione di pentimento. I sentimenti di colpa e di umiliazione non smettono mai di tormentarmi e non riesco a non incolparmi: perché sono rimasta lì sottomessa, guardandoli rovistare tra le mie cose e lasciando che mi mettessero le manette e mi coprissero la testa con un cappuccio nero? Perché ho diligentemente obbedito all’ordine di sedermi solo su metà della mia sedia? C’era qualche momento a cui potevo ripensare senza sentirmi così?
L’isolamento, l’impotenza, la costrizione della mia tenacia e l’inibizione della mia determinazione mi hanno schiacciata. Veniamo schiacciati dal sistema. Ognuno di noi contribuisce in modi diversi alla formazione di questo sistema e alla fine manca persino la capacità di impegnarsi in una resistenza passiva. La nostra sottomissione permette a coloro che lavorano attivamente per il sistema di fare quello che vogliono, lasciando spazio a una realtà distorta. Come possiamo liberarcene?
Ovviamente, gli agenti della sicurezza interna sapevano come esacerbare le mie paure. Più grande era la mia paura, più facile era controllarmi. Se decidevo di non dire nulla, loro condividevano le mie paure con ancora più persone. Registrare i singoli dettagli delle mie esperienze durante la detenzione è ora il mio modo di resistere a quelle paure. La rabbia e l’indignazione si dissolvono facilmente con il passare del tempo, ma la verità permane. Anche se tutti se ne dimenticano, essa è il nostro testimone e non importa quanto viene soppressa o alterata, non importa se il bianco e il nero vengono confusi, non potrà mai essere nascosta o messa a tacere.
Anche se il prezzo per parlare potrebbe essere venir privata di nuovo della mia libertà, non mi pento di aver scritto della mia vicenda, perché so che nel momento in cui ho trovato il coraggio di dire la verità, i sentimenti di umiliazione e di paura che gli agenti della sicurezza interna hanno cercato di imprimere in me, vengono così finalmente eradicati. Se non si è in grado di parlare con coraggio, allora non si può agire liberamente. Dobbiamo parlare in maniera diretta e senza aver paura dei problemi nei quali potremmo imbatterci. Dobbiamo parlare dei dettagli, dei nostri traumi e delle nostre debolezze.
È proprio questo atteggiamento che spaventa quelle persone che invece non riescono a parlare liberamente e che contribuiscono a tenere la verità nascosta.
Li Qiaochu ha continuato a parlare degli agli abusi subiti durante la detenzione e a denunciare l’accanimento delle autorità di Pechino nei confronti degli attivisti cinesi.
Nel dicembre 2020, a nome di Xu Zhiyong – tuttora detenuto – ha ritirato il premio PEN/Barbey Freedom to Write Award, dedicato agli attivisti imprigionati per essersi espressi liberamente. Nonostante le intimidazioni da parte della polizia a non rendere pubblica la propria vicenda e quella del suo compagno, Li Qiaochu, a inizio febbraio 2021, su Twitter ha riportato l’attenzione sulle torture subite da Xu Zhiying e Ding Jiaxi durante la loro detenzione. Il 6 febbraio 2021, a un anno dalla data del suo primo arresto, ha ricevuto una chiamata dalla polizia dello Shandong, invitandola a uscire dalla propria abitazione per un incontro. Quel giorno, Li Qiaochu è stata arrestata e trasferita da Pechino a Linyi, dove anche Xu era detenuto e dove è recluso anche oggi. Nonostante sia stato impedito all’avvocato di Li di farle visita, è stato reso noto che l’attivista fosse detenuta in ospedale per problemi legati alla tiroide e al cuore, oltre a crisi depressive. L’accusa ufficiale di “istigazione alla sovversione” del potere statale nei confronti di Li Qiaochu è stata emanata ufficialmente il 15 marzo 2021, dalla polizia cinese. Li Qiaochu è tuttora detenuta, non si hanno notizie continue e certe sul suo stato psico-fisico.
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