Io e il mio doppio. L’impossibilità della rivolta
Ad alcuni capita di trovare nella vita libri con cui entrare in un rapporto di scambio e di comunicazione. Non parlo tanto dei libri belli ed emozionanti che lasciano su di noi una traccia di sé per un certo tempo, quanto dei libri con cui manteniamo un rapporto duraturo che evolve e cambia con il passare degli anni. A me è capitato con alcuni testi.
Per parlare di giovani delinquenti, di comportamenti antisociali in adolescenza, voglio fare riferimento a uno di questi. Il libro è Bambino bruciato, scritto a venticinque anni nel 1948 da Stig Dagerman (Iperborea).
Il protagonista del libro, Bengt, ha vent’anni e le sue riflessioni sulla propria vicenda punteggiano il libro rompendo la narrazione in terza persona con delle lunghe lettere che Bengt scrive a se stesso. Nella lettera di maggio Bengt scrive:
Credo che i genitori abbiano una concezione della purezza diversa da quella dei loro figli. Per loro, almeno sulla base della mia esperienza, la purezza come virtù ha perso ogni parvenza di significato pratico. Ne possono parlare come di un’aspirazione dei giovani “nell’età difficile”, ma loro stessi con il loro comportamento non fanno che negarne addirittura il concetto. I genitori vivono comunque una vita più impura di quella dei loro figli, perché si perdonano tutto. Arrivare a perdonare tutto a se stessi e praticamente niente ai propri figli è il grande vantaggio che “l’esperienza” concede agli uomini. Quello che i genitori chiamano esperienza non è altro che il tentativo, riuscito fino al limite del mero cinismo, di negare tutto quello che avevano sperimentato di più puro, più giusto e più vero in gioventù. Loro stessi non si accorgono dello spaventoso cinismo implicito in questo continuo parlare dell’“esperienza” come del massimo obiettivo della loro vita. Si accorgono soltanto dell’“inesperienza” dei loro figli, cioè di quella mancanza di esperienza che si chiama purezza e onestà, e questo li irrita. E quando sono irritati scaricano la loro irritazione sui figli, e questo lo chiamano “educare”. Perché che cos’è l’educazione, se non il tentativo di genitori irritati di soffocare nei figli quello che riconoscono come la parte migliore che hanno soffocato in se stessi? Se non sono irritati, si atteggiano a superiori, superiori perché con ipocrita fierezza si fanno vanto della loro grande esperienza della vita, come se ci fosse davvero qualche motivo di rispetto e di ammirazione nell’aver distrutto la parte migliore di se stessi.
Dagerman mi offre le parole per provare a ragionare sui comportamenti definiti come antisociali, provando ad aggiungere la mia tessera di mosaico a quelle degli altri che hanno scritto nei numeri passati sui “giovani delinquenti”. L’immagine della tessera per me è importante: ogni tessera è in sé conclusa, ha una forma definita e precisa, ma diventa un’immagine solo nel momento in cui cessa di essere dettaglio per fare parte di un disegno complessivo. Ecco, io porto il mio dettaglio. Lo faccio con la richiesta esplicita di non generalizzare i miei ragionamenti, perché non voglio parlare di un’astrazione. Voglio parlare di alcune ragazze e di alcuni ragazzi, incontrati nelle strade in questi anni di lavoro sul campo, che rappresentano una parte del mondo giovanile. Anche loro sono un dettaglio, una porzione di realtà.
Quello che vorrei sostenere è che per loro misurarsi con la purezza è faticoso, è una pretesa al cui livello è difficile riuscire a stare perché richiede un investimento e un rigore con se stessi difficile da sostenere, soprattutto in adolescenza, un momento di lenta e faticosa costruzione delle proprie competenze e delle proprie identità sociali.
Vorrei sostenere, inoltre, che perdere la propria purezza può condurre a comportamenti e condotte che sono di segno opposto. Comportamenti attraversati dalla violazione del proprio corpo come di quello altrui perché l’atto di vendicarsi, in assenza di una possibile rivolta, può essere vissuto solo volgendolo contro di sé o contro il simile a sé.
Non se ne avrà a male, spero, Karen se utilizzo la sua storia per provare a spiegarmi. Cominciamo da pochi particolari per poterla inquadrare. Karen è una giovane peruviana che vive nei pressi di Bergamo con la madre e la nonna. La madre lavora a Milano come ausiliaria in una residenza per anziani e tutti i giorni porta Karen con sé in macchina. Quando la mamma ha il primo turno, Karen vede l’alba dalla sala d’attesa della residenza per anziani, sonnecchiando stesa alla meno peggio su una delle poltrone, poi saluta la madre per andare a scuola. All’uscita da scuola trova la mamma che la riporta a casa. Se la mamma ha il turno serale Karen resta ad aspettarla facendo avanti e indietro dalla macchinetta del caffè nella sala d’attesa per sgranocchiare qualcosa.
Per molto tempo la vita di Karen scorre così: i viaggi in macchina, la scuola, le attese, i fine settimana sempre in famiglia. Poi, succede qualcosa. Karen si stanca. Si stanca del sacrificio, si stanca delle attese, si stanca di sentire sempre la stessa storia da parte della mamma.
Ecco, c’è un problema con la storia che le racconta la mamma. È una storia che suona come una condanna. La mamma ha avuto Karen senza avere un rapporto di coppia, la cresce da ragazza madre sotto la vigilanza severa della propria di madre, negando a se stessa ogni desiderio per il dovere di offrire alla propria figlia la possibilità di un futuro. La mamma di Karen viene in Italia, trova un primo lavoro, si fa raggiungere dalla sua famiglia, fa più lavori contemporaneamente per fare fronte a tutte le spese e mettere da parte i soldi per gli studi della figlia, rinuncia a delle storie d’amore per non fare soffrire Karen. La diremmo una storia esemplare.
Forse il problema è proprio questo, troppo esemplare. Ciò che è esemplare chiede di essere preso a modello, di diventare norma di condotta. La domanda, cruciale a questo punto della storia, è se è sostenibile per una ragazza di diciassette anni una norma di condotta fatta di sacrificio e di umiltà: mettere la propria vita a disposizione di altri, chinare la testa, accettare il peso della giornata, rimandare la soddisfazione.
Per tornare alle parole di Bengt, Karen si trova schiacciata tra il proprio essere inesperta del mondo e, proprio per questo, desiderosa di provare piacere nell’esplorazione della vita e il proprio essere educata per corrispondere alle attese del modello esemplare rappresentato dalla propria storia familiare. La richiesta di sacrificarsi per essere adeguata al sacrificio, di essere fedele alla storia familiare, entra in collisione con il desiderio di essere diversa.
Non c’è possibilità di costruire una narrazione o una memoria condivisa con la propria madre: da una parte una tradizione di dolore e sacrificio che chiede di essere insegnamento morale; dall’altra una saturazione della capacità di ascolto. Durante una delle nostre conversazioni Karen usa un’espressione che mi colpisce; lei dice che in macchina la storia della madre, ripetuta al ritorno con le stesse parole dell’andata, diventa rumore, un fastidioso rumore di fondo. Non c’è più il senso della parola, ma un’ecolalia che trasforma tutto in rumore.
Karen vive lo stesso rapporto critico con il proprio tempo che ho visto in altri ragazzi con una esperienza simile. Sono ragazzi che non riescono a vivere il passato perché la migrazione ha introdotto una discontinuità che non consente loro di recuperare la propria storia all’insegna di una coerenza. Essere giovani in migrazione, una migrazione non scelta ma subita, costringe a vivere una rottura, uno sradicamento che cristallizza la memoria e priva della possibilità di rivivere il proprio passato insieme ai suoi protagonisti. Non possono neanche riconoscersi nel passato dei propri genitori perché non ne sono stati partecipi, non hanno contribuito a determinarlo, ma ne hanno solo subito le conseguenze. Sono ragazzi che non riescono a vivere il presente perché il presente è duro, faticoso, carico della delusione che nasce in chi ha sperato di essere speciale e si trova a essere immigrato, figlio di immigrati. Come si fa a diciassette anni ad accettare di essere in fondo alla scala sociale, di essere additato e trattato come straniero, come invasore? Questi ragazzi leggono i giornali, ascoltano le persone sui mezzi pubblici, loro stessi disprezzano altri stranieri: insomma hanno ben chiara la loro posizione nella società. In ultimo, sono ragazzi che non riescono a vivere il futuro, troppo simile al presente che gli fa schifo, troppo simile al presente dei propri genitori. Come si fa a credere nel futuro quando l’immagine dell’adulto che dovrebbe porsi come loro modello di socializzazione è l’immagine di un perdente della nostra società? Dignitoso, di valore come persona (mettiamoci tutte le delicatezze del caso), ma pur sempre perdente.
Karen è privata del tempo. Una volta rimosso il passato, rifiutato il presente e annichilito il futuro a lei resta la possibilità di vivere di frammenti e di intermittenze. La vita scorre in modo non lineare, ma puntiforme, nella difficoltà di ricostruire una trama, esistenziale e vitale, unitaria.
Verrebbe da dire, no grazie. Il fatto è che questi ragazzi non si possono permettere l’inglese compito di Bartleby. Non possono rispondere con la formula agrammaticale “I would prefer not to”, capace di creare un’area di indeterminatezza che sostituisce la volontà di nulla con l’“avanzare di nulla di volontà”, secondo la lettura che Deleuze diede dello scrivano di Melville. Sono arrabbiati e disorientati, hanno un’urgenza espressiva di ben altro tenore. Non possono semplicemente ritirarsi e dichiararsi renitenti a una battaglia quotidiana in cui non si riconoscono. Ma non possono neanche rivoltarsi. Non possono anche perché è loro sottratta la possibilità stessa di rivolta.
Come può Karen rivoltarsi contro la propria madre, come fa a ribellarsi a una storia esemplare, come può rivendicare per sé una tensione morale che possa contrapporsi a quella della madre? Contro un esempio non ci si può scagliare. Allo stesso modo Karen non può rivoltarsi contro la società o contro la condizione umana. Può dire no, certo che può farlo, ma è priva di ogni possibilità di azione creatrice. Il suo è il no del rifiuto, non della rivolta perché non è in condizione di parlare la lingua del progetto, della tensione al cambiamento: è priva del tempo futuro (io farò, io sarò), è priva di una dimensione collettiva (noi possiamo), è priva della possibilità di affermazione (io sono). Altri riescono a mantenere una propria voce, ma per ragazze e ragazzi come Karen è più difficile. Prima occorre che siano ripristinate le condizioni minime di affermazione di sé. Prima occorre che sia nuovamente sostenibile misurarsi con la dimensione dell’aspirazione a sognare e pensare un mondo possibile di cui essere cittadini.
La rivolta, chiama in causa il conflitto, la contrapposizione di un diverso ordine morale all’ordine dominante, di un diverso progetto di società alla società attuale. Se al conflitto tolgo la tensione morale e l’idea di progetto resta solo la violenza.
Karen entra in una banda, subisce riti di ingresso all’insegna della violenza, subisce punizioni per supposte violazioni delle regole. Come Karen, Juan fa lo stesso, anzi di più. Juan incide il proprio corpo, lo tatua, lo ferisce coltivando le proprie cicatrici, è protagonista di molti scontri in strada, per due volte si avvicina pericolosamente a uccidere.
Non mi interessa, in questo momento, fare il sociologo dei gruppi di strada dei giovani latinoamericani. Qui, voglio sottolineare un aspetto. Negli ultimi anni a Milano la maggior parte degli episodi che hanno visto protagonisti ragazzi appartenenti ai gruppi di strada riguarda aggressioni tra pari: giovani che aggrediscono altri giovani che vivono la loro stessa e identica condizione sociale ed esistenziale. Sono rapine, risse, tentativi di omicidio, omicidi, stupri che hanno in gioco non un valore economico o uno status (almeno, non in modo prevalente), ma una questione ben più complicata da affrontare.
Karen e Juan fanno la stessa cosa: colpiscono se stessi, colpiscono altri ragazzi in tutto identici a loro. Aggrediscono l’uguale a sé. Se ci pensiamo, anche questa è una differenza cruciale dalla rivolta: non esercito il conflitto contro colui o ciò che reputo parte di una irriducibile alterità (il padrone, lo stato, i fascisti) ma aggredisco ciò che sono io. L’identità dell’aggressore, quella per cui indosso la maschera del cattivo per indossare una identità sociale che mi dichiari costitutivamente diverso dalla società, è sostituita dall’aggressione all’identità, intesa come medesimità: l’aggressione al mio doppio.
Il ragionamento di Karen è tutto qui: non posso rivoltarmi contro mia madre, non posso rivoltarmi contro la mia storia familiare, non sono in condizione di cambiare la mia vita. Ciò che posso fare è colpire me e il mio doppio. Tutto ciò che ho a disposizione è vendicarmi della perdita della mia purezza colpendo l’unica che ho: me stessa.
Karen si è fermata in tempo. Ha chiesto aiuto e ha trovato la forza di assumersi la responsabilità di quello che sta succedendo. In questo momento sta lavorando seriamente per non perdere l’anno scolastico e ricostruire il rapporto con la propria famiglia. Lei ha trovato una strada. Altri, come lei, ci sono riusciti.
Altri ancora non ce l’hanno fatta e stanno vivendo fino in fondo le conseguenze della propria guerra personale. Juan è tra questi. Quello che non cessa di colpirmi è quanto in questi ragazzi sia presente l’idea della propria morte: l’idea di essere dei morti che camminano e che la vita sia solo attesa della fine. Una disperazione di sé che priva del futuro e che nasce dall’idea di essere definitivamente sporchi, impuri.