Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti
  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti

Infanzia e capitalismo

Illustrazione di Elisa Francioli
30 Novembre 2020
Laura Pigozzi

Il nostro capitalismo, che è indubitabilmente aggressivo, è anche un capitalismo bambino. Uno dei passaggi dall’età infantile a quella adulta consiste nel legare la pulsione aggressiva in una formazione che abbia carattere di sublimazione, che possa, cioè, costruire un ponte simbolico tra gli esseri umani, come il pensiero, l’invenzione. Possiamo chiamare il nostro capitalismo infantile anche “capitalismo pulsionale”, dato che la sua pulsionalità appare slegata, indisciplinata e disinvolta nel gioco del libero mercato. Le parole non sono mai innocenti: definire “gioco” il sistema che regge economicamente il mondo è rivelatore. Eppure, persino il gioco dei bambini ha bisogno di regole imposte da un terzo, esterno alla partita. Al contrario, per quanto riguarda gli scambi economici del nostro mondo industrializzato, si è creduto di poterli lasciare senza una disciplina, senza la guida di un terzo che, estraneo al gioco, dettasse le regole. Si è creduto che un gioco auto-amministrato potesse “dar vita di per sé a una società funzionante ed efficiente [dato che] la teoria neoclassica è stata ampiamente collaudata e ha mostrato il suo valore”, come recita uno dei testi di Peter Ferdinand Drucker, ritenuto l’inventore della scienza del management. Drucker è considerato uno dei pensatori di economia sociale e organizzazione aziendale tra i più illuminati e, mentre scriveva “credo fermamente nei liberi mercati”, sosteneva anche che le attività economiche sono il mezzo “per il raggiungimento di fini non economici (cioè umani o sociali), anziché essere fini in quanto tali”. Eppure, egli pensava che “l’organizzazione non può immedesimarsi nella comunità o subordinarsi a essa. Se la cultura di una organizzazione è in conflitto con i valori della sua comunità, prevarrà inevitabilmente la cultura dell’organizzazione”. E aggiungeva: “Tutte le organizzazioni, incluse quelle al servizio del pubblico, devono diventare imprenditoriali per sopravvivere e prosperare in un’economia di libero mercato”.

Pur accostandomi a un campo di studi che non mi è proprio – occupandomi di psicoanalisi – cercherò tuttavia di evidenziare i punti in cui l’economia rivela qualcosa che – per chi studia l’inconscio – può apparire problematico. Come dice Piketty, professore dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, “la questione della distribuzione delle ricchezze è troppo importante per essere lasciata ai soli economisti, sociologi, storici e filosofi”, ma “avrà sempre una dimensione soggettiva e psicologica”.

Il laissez-faire è sembrato un meccanismo magicamente autoregolato: il concetto di “mano invisibile” è una metafora creata dall’economista scozzese Adam Smith, per indicare la provvidenza che regnerebbe sulle transazioni economiche lasciate al libero gioco egoistico dei privati. Una concezione non lontana dalle soluzioni favolistiche dell’economista americano Simon Kuznets, profeta degli anni ottanta e novanta del secolo appena passato, ma ancora seguito, per il quale le disuguaglianze, cresciute nelle prime fasi dell’industrializzazione, tendono spontaneamente a diminuire durante le fasi avanzate dello sviluppo: basta pazientare un po’ e l’alta marea della crescita solleverà tutti i battelli.

Il capitalismo infantile di oggi gioca nel playground di una finanza fantasiosa e irrispettosa dell’idea stessa di lavoro. Sarebbe possibile riorganizzare una tale vita economica pulsionale con una guida più adulta di quella di un gioco magico dei mercati, di cui solo un’élite possiede forse le chiavi e che sembra somigliare al gioco di un prestigiatore che fa sparire le banconote di tutti? La pulsione che domina l’economia contemporanea, e che ha reso più feroce il potere della ricchezza, si rivela come pura pulsione di morte, che viene esercitata senza cura per le conseguenze omicide nei confronti dei livelli più fragili dell’umanità.

Secondo Keynes, pulsione di morte e denaro sono associati nell’accumulatore che dirotta la prima sul possesso del capitale, sperando, così, di placare la propria angoscia. C’è un rapporto tra angoscia, pulsione di morte e tasso d’interesse: l’unico meccanismo che può indurre la pulsione di morte a separarsi dal denaro, dice Keynes, è il tasso di interesse quale segno della rinuncia al “desiderio morboso di liquidità” e quale prezzo del distacco (temporaneo) dalle sue braccia rassicuranti. Se tutti fossero accumulatori, nessuno investirebbe e l’economia cadrebbe nella trappola della liquidità. Secondo Freud, il denaro canalizza le pulsioni sadiche; Keynes, suo ammiratore, è d’accordo con lui nel pensare al denaro come capro espiatorio. Già Spinoza, nell’Etica, rilevava che gli uomini che delirano sono affetti da un oggetto non presente. Ora, anche l’avaro non pensa ad altro che al denaro o l’ambizioso alla gloria – oggetti assenti – e non si ritiene che delirino. Tuttavia, secondo Spinoza, l’avarizia e l’ambizione sono una specie di delirio, nonostante non siano enumerate tra le malattie. In Keynes e Freud, come rilevano Gilles Dostaler e Bernard Maris, “troviamo una concezione simile del denaro, ovvero non si tratta, come ritiene la maggior parte degli economisti, di uno strumento neutro inventato per facilitare gli scambi, ma di una realtà che rimanda a pulsioni profondamente nascoste nell’inconscio, all’erotismo animale, alla morte, come illustra il mito di Mida a cui fanno spesso riferimento gli scritti di entrambi”. Come dire meglio che la psicoanalisi ha a che fare con ciò che concerne l’uomo e le sue costruzioni, economia compresa?

Nella conferenza del 1930 dal titolo Prospettive economiche per i nostri nipoti, Keynes afferma che “l’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali”. Keynes immagina che, un giorno, la corsa al denaro possa cessare e crede anche che gli uomini, sempre un giorno – che non è ancora arrivato –, possano imparare a dedicarsi all’arte della vita. Se avesse creduto possibile mettere a tacere la pulsione di morte, avrebbe commesso un errore comune a tutti gli idealizzatori e a tutti gli utopisti (senza i quali, però, non si avrebbero idee e visioni future per l’umanità). La pulsione di morte non si neutralizza, dato che è il fondo dell’animo umano. La si può, però, legare, cioè utilizzare per distruggere al fine di costruire.

Vale la pena di riportare la conclusione di quella conferenza dedicata ai nipoti, cioè all’umanità a venire, perché, con una metafora spiritosa ed efficace, Keynes mette l’economia nel posto modesto che non ha ancora, ma che dovrebbe avere un domani: “Guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso”. Keynes era forse un sognatore, ma di quella razza di visionari che indicano una direzione, una via d’uscita, se non proprio una soluzione. Aveva i piedi ben piantati a terra quando scriveva qualcosa che suona come un monito: “Ben pochi di noi si rendono conto appieno del carattere fortemente insolito, instabile, complicato, incerto, temporaneo dell’organizzazione economica con cui l’Europa occidentale è vissuta nell’ultimo mezzo secolo. Consideriamo naturali, permanenti, sicuri alcuni dei più singolari e temporanei nostri vantaggi recenti, e ci regoliamo nei nostri piani di conseguenza”. Un pensiero folgorante, soprattutto oggi, nell’incertezza del post Covid-19, nel momento in cui molte persone credono, al di là delle loro manifestazioni pubbliche di pensiero più articolate e prudenti, di poter tornare alla vita di prima, agli stessi intoccabili traffici. Secondo Thomas Piketty, “quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito – come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche”.

Una cosa è certa per tutti: non si può continuare sulla stessa strada. L’esperienza del Covid-19 ci può mettere in condizione di uscire dalla stagnazione, non solo economica ma soprattutto psichica, quella che non ci permetteva di sperare in nuove soluzioni. Cominciare a immaginare un capitalismo del legame, o un mercato della solidarietà, potrà diventare obbligatorio, oltretutto dal momento che siamo entrati nell’epoca in cui distruggere e inquinare, dopo aver reso moltissimo nel passato, comincia a non essere più una scelta economica. I liberisti stessi quanto poco comprendono che il libero mercato è una trappola per tutti, anche per loro? Ma esistono delle eccezioni. Una “capitalista” a capo di un’azienda – con un fatturato di 18 milioni nel 2019 e 120 dipendenti –, nonché insegnante di Filantropia strategica all’Università di Bergamo, parla di “filantropia come asset di sviluppo economico-sociale” e di “donazioni che diventano investimenti”. Si chiama Francesca Masiero, e dichiara apertamente: “Abbiamo un capitalismo malato”. È laureata in Filosofia, dirige l’azienda creata dal padre, figlio di un fattore: pensiero e lavoro manuale, gli ingredienti più interessanti per fare invenzione. Vedremmo subito uno dei vantaggi della limitazione del libero mercato, già nelle famiglie: i nostri figli non sarebbero più costretti a scegliere il ciclo di studi universitari sulla base di “ciò che chiede il mercato”, anche quando questa scelta deraglia dalle loro legittime aspirazioni.

Keynes fu un critico severo del pensiero di Adam Smith sul puro laissez-faire, non credeva alla competenza del mercato lasciato a se stesso – come non dargli ragione, soprattutto oggi? – e riteneva necessario che in talune circostanze fosse lo Stato a stimolare la domanda. L’economista Mariana Mazzuccato della University College London, rileva che “è dagli anni ottanta che lo Stato si sente dire che deve mettersi sul sedile posteriore e lasciare il volante alle imprese, lasciarle libere di creare ricchezza, intervenendo solo per risolvere i problemi quando emergono”. Peccato che, come si è capito, al volante ci stava un bambino spericolato, senza patente. Persino il liberista Drucker, personaggio sfaccettato, contraddittorio, e perciò interessante, dice che “l’assenza di un fine sociale di base per la società industriale è il nostro vero problema”, e aggiunge: “Bisogna sviluppare un concetto etico di base della vita sociale, un concetto che attinge alla filosofia o alla metafisica”.

Economia orfana

Dopo l’esperienza Covid-19 risulta chiaro che l’economia, non soltanto senza una direzione politica, ma anche senza una direzione che soltanto le scienze dell’uomo possono offrire, non ha più alcuna possibilità di legare la pulsione di morte che la domina. La psicoanalisi è la scienza umana che, più di tutte, ha un allenamento ai mimetismi di Thanatos, è lei che smaschera le coazioni a ripetere dei soggetti e dei collettivi umani, che riconosce la pulsione di morte quando si ricicla nell’ebrezza sadica dell’uomo, nei sotterranei godimenti al dominio, come nel piacere alla sottomissione delle masse. A questo proposito, Freud, rileggendo Gustave Le Bon, scrive che “la massa ha sete di sottomissione” perché il capo, con cui si identifica, ne eredita le fantasie narcisistiche infantili di onnipotenza, dando l’impressione di una maggiore “libertà libidica”. Fantasie antiche a cui l’uomo non smette di ricorrere e che la società ha il compito di legare a una costruzione collettiva civile. È solo con il ricorso alla condizione di sottomissione infantile, e alla sua analisi, che possiamo rendere ragione di una cosa tanto sgradevole per il pensiero quanto la sete di obbedienza di cui parla Le Bon. Il quale, pur scrivendo questo testo nel 1895, rivela qualcosa di ancora valido, e cioè che unicamente un capo può riuscire a ottenere “dalle folle una docilità molto più completa di quella mai ottenuta dai governi”. Ma la docilità non è una qualità del cittadino, lo è delle mandrie. Prima di Freud, Le Bon si rese conto di quanto l’anima delle masse fosse dominata da forze occulte e irrazionali. Seppure delle sue trattazioni psicologiche non tutto sia da ritenere – e infatti sono state aggiornate e corrette da Freud – il valore fondamentale del suo lavoro resta l’osservazione del comportamento inconscio delle folle.

Elias Canetti, nel suo Massa e potere, non cita mai Le Bon anche se le aperture dei due testi sono identiche: entrambi credono che il comportamento della massa contraddica quello del singolo. Le Bon lo dichiara nella prefazione: “L’azione inconscia delle folle, sostituendosi all’attività cosciente degli individui, rappresenta una delle caratteristiche del nostro tempo”. Anche di quello attuale, purtroppo, e non a caso il libro di Le Bon è la Bibbia dei populisti che lo hanno letto e lo leggono con l’intento opposto a quello del suo autore, cioè non per denunciare ma per rafforzare la dipendenza delle folle. L’incipit di Canetti, molto citato nei giornali in epoca Covid-19, è: “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto”. E qualche riga dopo: “Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato”. Nella massa l’altro è l’uguale, non il diverso, o meglio la differenza si è stemperata attraverso quel patto che ci riconosce uguali su base elementare, come il sangue, la terra o l’odio, il quale, come si sa, lega più dell’amore.

Per la psicoanalisi, al contrario di quanto pensano Le Bon e Canetti, non c’è frattura tra singolo e massa perché quest’ultima porta alla superficie, nell’azione, ciò che nel singolo resta inconscio. La pulsione di distruzione funziona, sempre a livello inconscio, anche nelle società. Le motivazioni razionali o pseudorazionali sono orpelli superficiali messi lì a adombrare le pulsioni elementari. Gli eventi storici e politici non sono mai solo il risultato delle motivazioni coscienti degli uomini. Freud, nel 1929, cioè in un altro momento critico della storia, oggi molto citato per le analogie economiche con il nostro tempo, scrive Il disagio della civiltà, che così si conclude: “Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini”. Poi, nel 1931, quando gli eventi andavano prendendo una piega minacciosa, aggiunse: “E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”.

Neanche noi sappiamo come andrà a finire. Il nostro compito è di attivare le forze erotiche vitali che sono nella disponibilità di ciascuno. Non sapere come andrà a finire non giustifica l’abbandono della lotta: combattere è già un modo per legare, a un fine civile, l’energia della pulsione aggressiva. Ognuno come può, con un libro, un film, un articolo, un’opera d’arte, una lezione a scuola: perché l’Eros è passione per la polis. Eros non è solo la sessualità fondatrice di un soggetto, ma è anche il desiderio di vita in circolo, l’umanità di ognuno. Secondo la lettura “politica” che propongo di Eros, la pulsione di vita sostiene il legame collettivo e viceversa: Eros si situa come ciò che limita lo scivolamento nel sonno dell’inciviltà. Il confine tra Eros e Thanatos è sempre fragile, poroso, incerto, da riconsolidare e da reinventare ogni volta, perché Thanatos è più originario e più forte. In questo senso, penso a Eros come al principale fondatore della città, di una civiltà in cui il legame e il desiderio circolano per ostacolarne un destino di decadenza e morte Ciò che può restare ai nipoti, per riprendere il titolo della conferenza di Keynes, è la testimonianza del fatto che non ci siamo sottomessi, senza cercare alternative, alle forze autodistruttive. Ecco perché oggi è necessario sostenere una funzione di guida che non abbia necessità della massa e della sottomissione per sancire la sua esistenza. E pervertire la nostra.

Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.

info@gliasini.it

Centro di Documentazione di Pistoia

p.iva 01271720474 | codice destinatario KRRH6B9

Privacy Policy – Cookie Policy - Powered by botiq.it