Inedito Basaglia. Carteggio Il manifesto-Basaglia 1973
Abbiamo chiesto all’Archivio Basaglia di scavare fra i materiali da loro conservati alla ricerca di uno scritto inedito di Franco Basaglia. Ci è stato concesso per la pubblicazione un carteggio fra il gruppo de Il manifesto – una lettera che Rossana Rossanda e Luigi Pintor inviarono a diversi intellettuali per invitarli a ragionare con loro su una delle prime crisi politiche del giornale nel 1973 – e lo stesso Basaglia. Il carteggio doveva essere poi pubblicato come materiale di discussione politico sul giornale. Basaglia inviò le sue riflessioni ma chiese allora di mantenerle private. Le parole di Basaglia sono un monito a noi e a riviste e imprese culturali e politiche come la nostra – siano essi collettivi, reti, soggetti politici in costituzione, gruppi, case editrici, sindacati autonomi, etc. – a non ripiegarci su noi stessi, sui nostri specialismi, identitarismi, e nevrosi che pensiamo politiche. A non innamorarci delle nostre parole, a non sovrastimare i nostri ruoli. Sono le pratiche e i soggetti a cui esse sono rivolte il terreno concreto di ogni verifica politica. (Gli asini)
Roma, 7 aprile, 1973 da “Il manifesto”
Fra qualche settimana “il manifesto” quotidiano avrà due anni. Li compie non proprio in festa. Siamo in serie difficoltà. Dopo aver toccato all’inizio fino a quasi centomila copie di vendita ci siamo stabilizzati nel giro di un anno attorno alle trentamila copie (quarantamila l’anno scorso in questa stagione). Dopo la sconfitta elettorale, e con l’inevitabile aumento del prezzo, siamo andati lentamente scendendo, fino a sotto il limite di livello di guardia per l’autofinanziamento (25.000 copie). Dobbiamo assolutamente risalirlo. Perché fare un giornale se non corrisponde a un bisogno politico, anche minoritario? Puntiamo perciò oggi a un risanamento finanziario e un rilancio.
Ma per questo abbiamo bisogno di una verifica. Il calo delle vendite a che cosa si deve? A una difficoltà politica generale, il riflusso in tutta l’Europa dopo il 1968 dell’istanza rivoluzionaria? E se si, perchè questo riflusso? Quali ne sono le nostre responsabilità soggettive? Che cosa rappresenta oggi, al di là dei militanti, delle avanguardie di scuola e di fabbrica che abbiamo raccolto, un’ipotesi rivoluzionaria che, come la nostra, si è radicalmente separata dal riformismo senza accettare la semplificazione estremistica nel ragionamento, nell’analisi, nella proposta, nell’azione? A quali spinte reali rispondiamo, dove e contro che cosa urtiamo?
Su questo abbiamo bisogno di una prima discussione interna ed esterna al nostro gruppo. Ma un secondo livello di verifica esige specificamente il nostro giornale. Come “è fatto” il nostro quotidiano, rispetto alla sua stessa linea, agli interlocutori che si è scelto, a quelli che inizialmente ci hanno cercato? Noi abbiamo portato avanti, negli ultimi mesi, sostanzialmente due battaglie: quella sullo scontro contrattuale operaio e quella sugli studenti. E non perché fossero quelli che si battevano di più e a noi più vicini, ma perchè si battono in quanto al centro di una crisi, strutturale e sociale che noi abbiamo analizzato su un certo modo e secondo una certa previsione. Siamo stati persuasivi? O scriviamo in modo settoriale, per esperti, per addetti ai lavori e alle lotte? O siamo riduttivi nel modo di intendere un giornale “tutto politico”? Che cosa esce dalle maglie del nostro giornale, che pure è bisogno alternativo della nostra società? Abbiamo seguito poco le idee, i libri, i film, il dibattito fuori delle sedi propriamente politiche? Forse non potevamo all’inizio far diverso, ma che cosa è rimasto fuori dal giornale, che pure è politicamente vivo e non vi si trova espresso? Siamo un giornale poverissimo. Nessuno fuorché gli operai lavora in Italia per salari operai, a pieno tempo, come noi facciamo. Questo riduce l’arco delle collaborazioni. La povertà riduce anche i mezzi di cui un giornale dispone (documenti, libri, possibilità di viaggi e contatti); e questo è grave per chi, come noi, non crede che il movimento di lotta possa chiudersi in se stesso, nella contemplazione del proprio modo di essere, calando una barricata fra se stesso e il mondo in cui opera e che dovrebbe trasformare. Quanto si avverte, leggendo il manifesto quotidiano, questa povertà? Entro quali limiti vi abbiamo fatto fronte? Non c’è dubbio, ad esempio, che con la nostra uscita abbiamo dato uno scossone all’informazione tradizionale della sinistra, obbligandola a tutt’altra attenzione ai grandi fatti internazionali e alle lotte operaie. Ma dopo questa svolta, non ci siamo fermati o impoveriti? Infine abbiamo cercato una soluzione grafica e di scrittura ambedue molto severe, antimanipolatrici, antidemagogiche. Siamo perciò diventati “difficili”, poco comunicativi?
Come dovremmo essere? Fin dove siamo andati, dove ci siamo fermati nell’invenzione d’una comunicativa pulita, nel mettere di fronte al lettore, al militante tutte le carte in tavola? Quali sono insomma i nostri pregi (se li abbiamo), i nostri limiti? Che cosa si attende da noi, e come? Che cosa Lei legge con piacere, che cosa scarta, che cosa la irrita, che cosa non trova? Le chiediamo di leggere questa lettera con attenzione. Non sono domande accademiche. Sono, per noi, questioni di vita o di morte. Le rivolgiamo a quaranta fra intellettuali, quadri operai e sindacali, studenti, mentre apriamo un dibattito in tutta la nostra base. Vorremmo avere una risposta – una risposta di verità – senza peli sulla lingua e che pur tenesse conto, per essere efficace, delle condizioni reali in cui siamo costretti a operare; non per giustificare nulla (forse, in queste condizioni, si dovrà concludere che è impossibile fare un quotidiano, almeno che noi non ne siamo capaci) ma per avere una critica o un suggerimento reali, oltre che per capire che cosa significa questa nostra impresa, per chi la vede amichevolmente, ma dal di fuori. O Vorremmo pubblicare, se possibile, la risposta sul giornale. Ci scriva quello che più interessa, usando di questa lettera come un questionario o come un’occasione di riflessione e discorso, rispondendo a tutte o a parte delle domande che avanziamo. Sarà per noi un serio aiuto. Grazie.
Rossanda e Pintor
7 maggio 1973
Cara Rossanda e caro Pintor,
scusate il ritardo con cui vi rispondo, ma non volevo dare una risposta affrettata e mi è stato impossibile farlo prima. Ho letto attentamente – come chiedevate – la vostra lettera cui sarei stato tentato di rispondere subito emotivamente per dichiarare la mia partecipazione alla vostra crisi. Ma una risposta di questo tipo non sarebbe stata utile al dibattito che avete aperto sulla vostra posizione e sulla vostra azione.
Cercherò quindi di fare un’analisi della situazione un po’ più “distaccata”, distaccata quanto mi è possibile, dato che io sono invischiato nelle stesse perplessità che voi esprimete.
Devo innanzitutto premettere che non sono un lettore abituale del Manifesto e che non condivido la posizione del vostro gruppo, come del resto non milito in altri gruppi extra-parlamentari né partecipo alla vita politica istituzionalizzata. Nella mia qualità di tecnico di un settore particolare, ho ritenuto più utile e più proficuo continuare la lotta nel mio terreno specifico dove è necessario rendere praticamente esplicite le contraddizioni sociali che sono mascherate sotto le diverse ideologie scientifiche. E in questo senso reputo politico il nostro lavoro, anche se resta isolato rispetto alla lotta politica vera e propria.
Per noi la verifica dell’azione può avvenire solo sulla pratica quotidiana, tentando insieme un’analisi della realtà su cui si agisce, che porti in una dimensione più allargata i problemi, cioè all’interno della problematica sociale generale. Restano comunque i movimenti legati agli utenti dei servizi – nel nostro caso sottoproletariato e proletariato – che possono agire di controllo sull’uso che i tecnici fanno del potere implicito nel loro ruolo, ed è la costruzione di questa premessa la finalità attuale del nostro lavoro.
Non mi sento, dunque, in grado di formulare giudizi approfonditi su quella che è la vostra attuale verifica, sia per la diversità del settore d’azione, sia per non aver partecipato attivamente al travaglio e alle difficoltà del vostro gruppo. Posso solo prospettare alcune ipotesi che forse varrebbe la pena di dibattere.
Io ritengo che il vostro giornale vada sostenuto come una necessaria voce di dissenso che non vuole essere una semplice contro-informazione, ma vuole costruire e presentare una propria linea d’azione e di interpretazione dei fatti.
Dopo i primi tempi, però, l’informazione del vostro foglio sembra essersi in un certo senso orientata e specializzata in settori particolari, deludendo in parte un’aspettativa che, all’inizio, era molto diffusa e generale.
Mi pare che questo possa essere un punto da analizzare. Il successo giornalistico iniziale rispondeva a un vuoto politico reale. Una voce seria di dissenso poteva raccogliere attorno a sé una situazione di dissenso ancora informe e generico, che però aveva bisogno di organizzarsi e costruirsi secondo linee ben precise. Ora sarebbe da vedere se il giornale abbia veramente risposto al vuoto politico o se invece il successo giornalistico non sia stato interpretato automaticamente come la conferma dell’esistenza di una linea e di un movimento politico, capace di rispondere a delle esigenze concrete?
La verifica dei fatti farebbe pensare che ci sia stata questa presunzione e forse potrebbe essere utile analizzarne il significato. Del resto, l’accoramento che denunciate in questo momento di verifica mi pare confermi questa interpretazione: che si tratti cioè ancora una volta di una reazione emotiva (che io posso condividere pienamente sul piano personale, dato che esprimete perplessità e disagi che conosco bene) più che di un discorso politico. La forza per continuare una lotta che è ovviamente dura, spesso impossibile, non può che venire dalla capacità di sostenere – nonostante tutti gli errori che si possono commettere – una situazione pratica. A questo proposito mi trovo d’accordo con l’ultima dichiarazione lasciata da (Guido) Viale all’Espresso: più che parlare di crisi, si deve parlare di difficoltà, le difficoltà che qualunque movimento minoritario “rivoluzionario” (parola che ormai tutti usiamo a proposito e a sproposito) incontra e che sono implicite nel tipo di lotta che si è scelto.
Se ci muoviamo su un piano emotivo, la lotta non può che portare nuove indicazioni alla sopravvivenza della logica borghese: perché è la nostra sopravvivenza che reclamiamo, la sopravvivenza del significato che abbiamo dato alla nostra azione, quando non riusciamo a far fronte al fatto di essere stati – anche momentaneamente smentiti. Non credo si possa stabilire di essere “fuori del gioco” per avere un’autonomia d’azione e di giudizio, e poi rammaricarsi di “essere fuori gioco”. Oppure si deve essere consapevoli che questa lotta ha un semplice valore simbolico: testimonianza di una qualità, di una coscienza che manca ai movimenti politici di massa e che agisce come stimolo continuamente presente in una realtà generalmente quantificata. Ma questo significa accettare coscientemente di non essere e di non poter essere un movimento di massa e vivere l’angoscia (intellettuale) di questa separazione.
La realtà da cui si parte è l’istituzionalizzazione del partito comunista che rappresenta un movimento politico quantitativamente forte, troppo ancorato alla realtà e all’ideologia per potersi permettere rischi e “utopie”. Gli elementi utopici dei gruppi isolati possono contribuire a questa trasformazione, ma non possono raccogliere attorno a sè – e questo in certa misura è accaduto per il vostro gruppo – l’adesione dell’anticomunista.
In più esiste l’antagonismo fra i gruppi di sinistra e non può non avere un significato.
Una verità frantumata è una verità debole, che non riesce a presentarsi con un minimo di credibilità, perchè la frantumazione è all’interno della logica che si vuole combattere ed è la nostra logica di origine, di intellettuali borghesi, ognuno dei quali vuole la sua verità. Quello che mi pare necessario puntualizzare è che non possiamo rischiare di cadere nell’impotenza e tantomeno dichiararla pubblicamente e non credo che le perplessità e le angosce di un gruppo di intellettuali che si domandano il perché del loro fallimento, sia un atto politico. Anche se la sincerità e l’onestà di questa posizione è la premessa per un atto politico più reale e significativo (o per la presa di coscienza dei suoi limiti) la verifica non può essere fatta pubblicamente attraverso le risposte di un gruppo di intellettuali.
È ciò che deriva da questa verifica che deve essere reso pubblico, come premessa per un’azione e una presa di posizione diversa, se ci saranno azioni e prese di posizioni diverse, nate dalla crisi.
La sincerità, l’onestà e l’angoscia possono essere – in questo caso – un lusso che non credo sia politico permettersi di pubblicizzare, perchè si traducono in una dichiarazione aperta di debolezza e di impotenza (quando non si riducono a un gioco intellettuale puramente accademico). Non viviamo in un terreno liberato dove critica e autocritica abbiano un unico significato, in una finalità comune già individuata. Siamo ancora alla ricerca di questa finalità e dobbiamo trovare il terreno comune in cui realizzarla.
Non credo che il problema del vostro quotidiano si riduca al problema formale del linguaggio: il linguaggio è espressione di ciò che siamo (e questo vale anche per me, ovviamente) e di quali legami abbiamo con gli utenti del nostro servizio. Il rischio è di essere sempre all’interno della nostra logica di origine, dove i servizi sono organizzati da noi e per noi, e non dagli utenti e per gli utenti. In questo modo resteremmo sempre chiusi nel nostro ruolo di produttori di ideologie, con l’illusione di procedere nella direzione opposta.
Per tutti i motivi finora esposti, vi prego di considerare questa mia risposta strettamente personale, dato che ne ritengo inopportuna la pubblicazione.