Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti
  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti

In una stanza non può accadere

8 Giugno 2013
Luca Mori

Senza pensare ai modelli di scuola e ai vincoli legislativi esistenti, domandiamoci come potremmo accompagnare nel modo migliore un gruppo di venti bambine e bambini, tra gli undici e i quattordici anni, a scoprire – o riscoprire, a seconda dei casi – le relazioni possibili con il mondo, con il tempo, con se stessi e con gli altri esseri umani. Impegnandoci in un simile esercizio del pensiero ipotetico e chiedendoci cosa potremmoe cosa dovremmofare da adulti, un primo motivo di esitazione potrebbe derivarci dal fatto che l’età a cui ci rivolgiamo sembra consegnata ad una nebulosa condizione di transitorietà, tanto vaga nei confini quanto incerta nelle potenzialità: parliamo di bambine e bambini, ma non nello stesso modo in cui ne parleremmo per chi frequenta la scuola primaria; disponiamo del termine più preciso “preadolescenti”, ma esso conferma la nostra difficoltà, in quanto il prefisso su cui è coniato ci segnala che non sappiamo bene con chi abbiamo a che fare, poiché ci riferiamo essenzialmente a un “non ancora” e ad un “non più”, al non essere ancora adolescenti e non più bambini dei nostri interlocutori.

Un formatore dovrebbe però assumersi il compito di rivolgersi al punto in cui i suoi interlocutori, per quanto provvisoriamente, si trovano, alla specificità del loro divenire nello spazio e nel tempo in cui vivono, a maggior ragione perché nel passaggio verso l’adolescenza il ritmo della trasformazione incalza prepotente, sollevando quesiti sui cambiamenti inevitabili, su quelli ancora possibili e su quelli non più possibili. Sono anni in cui a generare possibilità impreviste, aspettativee comportamenti duraturi possono bastare una sola esperienza, un solo esempio, un solo insegnante: di conseguenza la postura del formatore e più in generale l’ambiente di apprendimento incidono molto, aiutando oppure ostacolando nell’espansione del sapere e del poter fare; supportando o complicando la vita a chi, in quegli anni, per la prima volta in modo così intenso, è impegnato in conflitti intrapsichici ed interpersonali che richiedono di essere elaborati quotidianamente in modo generativo; entusiasmando o annoiando chi deve ancora scoprire quanti strumenti e linguaggi possano permettere di costruire ponti di senso più o meno provvisori là dove si incontrino il dubbio e lo smarrimento, i motivi di ansia e quelli di meraviglia.

Nei corridoi delle scuole circolano abitualmente espressioni di perplessità: i “bambini” e i “ragazzi” non sono più quelli di una volta – si dice – ma neppure i genitori, né gli insegnanti. Si tratta, a ben considerare, di truismi, poiché siamo tutti cambiati e continuiamo a cambiare con la storia e, come diceva Arnaldo Momigliano, «la misura dell’inatteso è infinita»; si tratta di truismi, dunque, ma in assenza di condizioni ed opportunità per approfondirli ci si limita a formularli con un tono oscillante tra il disappunto e la rassegnazione. Forse è inevitabile, trovandoci a vivere in un’epoca di mutamenti così rilevanti e diffusi, che la nostra inabilità di fronte a ciò che facciamo si manifesti anzitutto come disorientamento: ma come passare dalla constatazione del nostro non sapere e non poter più fare abbastanza di fronte al cambiamento, all’immaginazione di un sapere e di un poter fare inedito sul piano educativo?

Alcuni aspetti della sfida contemporanea all’immaginazione educativa sono ben noti: abbiamo il compito urgente, per la qualità della democrazia e per la vivibilità del nostro pianeta, di osservarci e di auto-correggerci, sospendendo l’adesione ai rituali e ripensando a fondo i nostri modi di concepire la formazione e l’apprendimento, a partire da ciò che oggi sappiamo circa il nostro essere menti incarnate, contestualizzate ed estese, come scrive Ugo Morelli (Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011). Nell’etimologia stessa di apprendimento – dal latino «ad prehendere», prendere con un movimento di avvicinamento e approssimazione dal punto in cui ci si trova verso un altro punto – è inscritta l’idea che apprendiamo attraverso l’esperienza del movimento, in quanto possiamo sporgerci da un mondo all’altro, esercitando la capacità di stare nei «mondi intermedi» di cui scrive Maurizio Iacono (L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano 2010).

Non possiamo apprendere senza decentrarci rispetto alla posizione in cui siamo. Se gli anni sessanta in Italia sono stati caratterizzati dalle riforme relative ai diritti di accesso all’istruzione, se da più di un secolo ci si interroga sulle condizioni migliori per i processi di apprendimento, il compito odierno è quello di interrogarsi sul fallimento delle promesse di emancipazioneaffidate all’educazione, ripensando sia la sostanza dei diritti di fronte alle crescenti diseguaglianze, sia la struttura delle condizioni e degli ambienti di apprendimento di fronte alla crescente diffusione di tecniche e tecnologie ambigue, che possono favorire tanto l’interazione quanto la frammentazione e la distrazione, tanto la condivisione quanto l’isolamento, tanto la partecipazione quanto la passivizzazione.

Tornando all’esperimento di pensiero proposto in apertura, facendo riferimento a condizioni ideali sottratte ai vincoli esistenti, nell’affrontarlo ci troveremmo probabilmente ad immaginare relazioni e contesti educativi molto differenti da quelli esistenti. Chiediamoci: “quanto differenti? quanto resterebbe, in particolare, dell’attuale scuola secondaria di primo grado, di quella che siamo abituati a chiamare ‘scuola media’?”. Se restasse poco o nulla di ciò che effettivamente esiste, dovremmo intraprendere un ragionamento serio sul senso di ciò che quotidianamente fanno bambine e bambini tra gli undici e i quattordici anni in Italia.

Certo, l’esperimento mentale permette una libertà d’immaginazione che il senso di realtà induce a restringere. Sul piano della fattualità ci imbattiamo in variabili vincolanti forti: semplificando, bambine e bambini tra gli undici e i quattordici anni passano circa i due terzi dell’anno, almeno cinque ore ogni giorno, all’interno di una stanza di alcuni metri quadrati e lì, all’interno di quella stanza, sono chiamati ad interessarsi agli argomenti più diversi e ad imparare. Dopo li aspettano, sempre più spesso, altri ambienti chiusi, contesti di gioco strutturati e controllati dagli adulti (gli “sport” fatti a pagamento), schermi. Come dovrebbe essere una scatola di alcuni metri quadrati per permettere ai venti bambini che la occupano di provare meraviglia, di farsi curiosità differenti rispetto a quelle indotte e solleticate dalla pubblicità e dalle mode, di esplorare le proprie molteplici possibilità, di esprimere ed elaborare in modo non distruttivo i conflitti che li investono, di scoprire strumenti e linguaggi che li mettano in condizione di attraversare mondi e di costruire senso anche in condizioni di smarrimento, incertezza, ansia e solitudine?

Con una considerazione ricavabile dall’epistemologia della complessità dobbiamo ricordare che non tutto è possibile: non tutti i contesti permettono tutto. Un particolare contesto rende possibili alcune azioni ed interazioni, ma ne ostacola altri. Sotto questo aspetto e da molti punti di vista la scuola media è un luogo simbolicamente e praticamente rappresentativo di un’epistemologia dominante e di occasioni spesso mancate. Premettendo che parlare della scuola media in generale espone ad equivoci e ad errori categoriali, poiché ci sono dirigenti ed insegnanti che, all’interno dei forti vincoli esistenti, sono capaci di attività diversissime, con tutti i limiti della generalizzazione i punti su cui riflettere sono i seguenti: la scuola media introduce per prima la divisione disciplinare, per quanto oggi a livello teorico e di programmazione si tenti di superarne le rigidità; introduce per prima la moltiplicazione degli insegnamenti e degli insegnanti, unita anche ad una loro transitorietà, per l’alto livello del turnover; di conseguenza propone allo studente la diversificazione degli stili di insegnamento, dei linguaggi e dei codici, ma generalmente conferma l’organizzazione dello spazio e del tempo di apprendimento in una definizione rigida, in cui il movimento ed il corpo risultano di fatto secondari, come il ritmo dei processi cognitivi: prevalgono la logica delle file di banchi orientate alla cattedra e alla lavagna, l’immobilizzazione del corpo contenuto in uno spazio circoscritto, la scansione delle attività in periodi standardizzati contrassegnati dalla campanella.

Lo spazio e il tempo dell’apprendimento sono sacrificati ad esigenze pratiche e, per così dire, di economia organizzativa di massa. Difficile dire cosa dovrebbe accadere in una stanza del genere affinché bambine e bambini possano scoprire se stessi ed il mondo, espandendo le proprie possibilità anziché ridurle o perderle per sempre. Nella routine di ogni giorno si corre il rischio della ritualità scipita, delle potenzialità non vissute, dei conflitti male elaborati. Si dirà che è da secoli che si apprende stando seduti in qualche stanza. La nostra capacità di simulare e di fare riferimento all’assenza tramite sostituti, in effetti, ci aiuta ad essere anche altrove mentre siamo seduti: aprendo un libro di storia, di letteratura o di arte, con un buon insegnante, in un ambiente adeguato, lo spazio ed il tempo dell’aula possono trasfigurarsi e diventare altro. Una stanza rimane tuttavia un vincolo molto forte e può diventare un ostacolo o quantomeno un freno ai processi di apprendimento, mentre le cose che vi si insegnano possono facilmente assumere l’aspetto di sequenze di informazioni.

La cosa più grave che può capitare in quegli anni è però la seguente: arrivare inconsapevolmente a pensare e a convincersi che tutto sommato, forse, non c’è poi così tanto da scoprire e di cui meravigliarsi; figurarsi che nelle possibilità del mondo adulto non ci sia poi tanto che valga la pena conoscere e per cui valga la pena impegnarsi. Sono le credenze suscitate implicitamente – quali che siano le dichiarazioni di principio esplicite – da una scuola divenuta, nel senso di Fofi, “zona grigia” (G. Fofi, Contro il ceto pedagogico, in Id., Zone grigie. Conformismo e viltà nell’Italia d’oggi, Donzelli 2011, pp. 141-146), sottoposta durante il ventennio berlusconiano a «una sorta di decadenza obbligata», dove anche i dirigenti e gli insegnanti migliori hanno spesso perso la voce, avviliti e frustrati, tra la maggioranza degli ignavi. Come scrive lo stesso Fofi, restano tuttavia «disagi, sensibilità, istanze che possono produrre qualche novità, o meglio: che possono contribuire alla resistenza e all’attacco». Nell’uno e nell’altro caso, le quattro mura di una stanza sono un vincolo troppo stretto, in modo particolare per l’età che stiamo considerando.

Si sta diffondendo l’idea che l’introduzione di schermi (dalle lavagne multimediale ai tablet) possa cambiare le dinamiche aprendo le pareti al mondo: certo, le dinamiche cambiano, inevitabilmente; ma solo l’illusione prospettica riconducibile ad un determinismo tecnologico di fondo può far credere che l’innovazione decisiva si giochi su questo piano. Per quanta informazione ci metta a disposizione uno schermo, la realtà può restare terribilmente distante e non vissuta. Il punto critico non è l’introduzione della nuova tecnologia nella scuola, ma l’innovazione relativa all’insieme dei contenuti e dei metodi: la nuova tecnologia da sola non rinnova la scuola; tuttavia, la sua introduzione può costituire un’occasione per ripensare complessivamente gli ambienti di apprendimento, i contenuti ed i metodi, la postura del formatore in aula e la non sostituibilità delle esperienze fuori dall’aula e senza schermi. È su questo terreno che si giocano le possibilità di reale innovazione nella scuola – una falsa innovazione che non sia di fatto conservativa, come spesso accade – ed è su tali aspetti che oggi c’è bisogno di individuare pratiche creative, a partire da minoranze disponibili alla fatica degli apripista, ruolo che espone a fare i conti con la viltà e l’ignavia denunciate da Goffredo Fofi, oltre che a difficoltà teoriche, metodologiche, organizzative e, non da ultimo, emotive. Non ci sono molte alternative. Soltanto a partire da minoranze capaci di autonomia ed immaginazione educativa si potrà, forse, smentire la sentenza di Nietzsche, secondo cui «[n]ei grandi Stati la pubblica istruzione sarà sempre tutt’al più mediocre, per la stessa ragione per cui nelle cucine grandi si cucina nel miglior caso mediocremente” (Umano troppo umano, I, Adelphi 1998, § 467).

info@gliasini.it

Centro di Documentazione di Pistoia

p.iva 01271720474 | codice destinatario KRRH6B9

Privacy Policy – Cookie Policy - Powered by botiq.it