Vita di Nico Naldini
Mercoledì 9 settembre, a metà mattinata, mi ha chiamato Ilem, la signora che da un paio d’anni con pazienza e dedizione segue Nico Naldini: “Corri, Nico sta male, gli manca il respiro.” Quando sono giunto a casa sua, dopo dieci minuti, Nico era morto, scivolato via, in un attimo. Sono entrato nella stanza, era lì supino, sotto le lenzuola, la bocca aperta e la testa reclinata. Per un momento, ho avuto la sensazione che si sarebbe scosso dal sonno, si sarebbe schiarito la voce e mi avrebbe rimproverato per essere arrivato tardi.
Avevo conosciuto Nico più di vent’anni fa. Era stato Goffredo Fofi a indirizzarmi da Naldini – stava per uscire l’antologia del Meridiano Mondadori dedicata a Comisso – ne nacque una bella intervista per “Lo straniero” e insieme un’amicizia. Mi telefonava quasi ogni giorno e spesso andavo a trovarlo, lo accompagnavo lungo le vie di Treviso, città amata e odiata che era diventata il suo ultimo rifugio, dopo aver vissuto a Trieste, Milano, Roma. La città di Giovanni Comisso, di cui Nico era stato amico, nonché biografo, curatore delle opere per Longanesi, e fondatore, insieme a Cino Boccazzi, degli Amici di Comisso.
Nico Naldini era nato a Casarsa, nel 1929, cugino di Pier Paolo Pasolini, suo primo maestro, che lo aveva guidato alla conoscenza e alla pratica della poesia durante i terribili anni tra il 1943 e il 1945, quando le due famiglie, quella di Naldini e quella di Pasolini, era sfollate da Casarsa al piccolo borgo di Versuta. L’esperienza era poi continuata, negli successivi alla fine della guerra, nell’appassionante avventura felibrige dell’“Academiuta di lenga furlana”, tra simbolismo europeo ed ermetismo italiano. Nico Naldini dunque nasce poeta, e in fondo, lo resterà sempre.
L’altro maestro fu indubbiamente Giovanni Comisso, che conobbe nel 1950, proprio lo stesso in cui Pasolini parte per Roma. Comisso fu indubbiamente più vicino a lui dal punto di vista emotivo e ideale. incarnando per lui “una polarità di leggerezza psicologica e di solarità, contrapposta a quel modello venerato – ma esigente e talvolta plumbeo – che costituiva Pasolini”, ha scritto Francesco Zambon. In una poesia della maturità, I vevi doj amis (in La curva di San Floreano, Einaudi 1988) si legge: Il prin al era sior / di resultùms / di estàs e di fluns / di fantas ch’a si spojavin / coma anzui ch’a svualin. // L’altri al era puarèt /dur par sé / sensa requie di un dì / sensa amour / al veva un gioldi crepàt / un vivi insumiàt / di frus assasins. (Il primo era ricco di sorgenti/ di estati e di fiumi / di ragazzi che denudavano / come angeli che volano. // L’altro era povero / duro per sé / senza pace di un giorno / senza amore /aveva un godere crepato / un vivere sognato / di fanciulli assassini.) Un duplice ritratto che non ha bisogno di alcun commento.
Grazie a Comisso, Naldini va a lavorare a Milano, alla Longanesi, dove conosce Goffredo Parise, nato nello stesso anno, il 1929, con cui stringerà una duratura amicizia, terminata solo con la morte prematura di Parise, nel 1986, a cui dedica un libro intenso, Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise, (Archinto 1989). Sono anni di sordina letteraria, con poche sporadiche apparizioni, ma intensi in quanto amicizie: oltre a Parise, a Milano Naldini frequenta Eugenio Montale, Vittorio Sereni, Carlo Emilio Gadda. Nei primi anni ‘70, annoiato dalla routine del lavoro editoriale, si sposta a Roma, come direttore di produzione per Federico Fellini e Bernardo Bertolucci. Frequenta Sandro Penna, Elsa Morante, Alberto Moravia. L’assassinio di Pier Paolo Pasolini è un trauma profondo e per Naldini, che si allontana dal cinema e da Roma, inizia una sorta di seconda vita. Si dedica inizialmente alla curatela delle lettere di Giacomo Leopardi, uscite per Garzanti nel 1982, per passare poi alla biografia di Giovanni Comisso (Vita di Giovanni Comisso, Einaudi 1985), un capolavoro per stile e capacità rievocativa. Cura poi le lettere di Pasolini per Einaudi (1986-1988) che gli chiederà di scriverne anche la biografia (Pasolini, una vita, 1989). A metà degli anni ’90, esce un libro autobiografico, Il treno del buon appetito (Guanda 1995), nel quale si ritrovano riuniti le figure degli amici e dei maestri, insieme ai suoi amori omoerotici, quei ragazzi che sono stati da sempre il suo pensiero principale. L’alfabeto degli amici, uscito nel 2004 per L’ancora del mediterraneo, è un affresco in cui si affollano personaggi grandi e piccoli, annotazioni pungenti, rapidi schizzi, ricordi capricciosi osservati attraverso un pertugio, quasi uno sguardo in tralice.
Sebbene si fosse stabilito a Treviso a partire dagli anni ‘80, per molti mesi all’anno si rifugiava in un piccolo paese vicino a Tunisi, inseguendo i fantasmi del desiderio, quei giovani magrebini che popolano le sue ultime produzioni poetiche. Una stagione feconda, quest’ultima, infatti, perché riprende a scrivere in versi, in una ritrovata felicità di scrittura: Occasionalmente altro (Manni, 1999), Piccolo romanzo magrebino (Manni 2002), I confini del paradiso. Racconto in versi (L’ancora del mediterraneo) sono alcuni dei titoli comparsi in quegli anni.
L’ultimo libro di Naldini è uscito l’anno scorso, Quando il tempo si ingorga, per la cura di Francesco Zambon con una nota di Franco Zabagli (2019, Ronzani editore), e raccoglie prose e ricordi, confermando il ruolo di testimone di un Novecento oramai divenuto passato remoto, e insieme restituisce il brivido dell’Eros che ha attraversato, prima ancora che le pagine la vita stessa. Uno sguardo, come scrive Franco Zabagli, “che affonda negli incorporei fenomeno del passato, e ogni tanto se ne distoglie per considerare il presente con ilare, severa, anarchica autorevolezza.”
Nico era uno stupendo affabulatore, brillante e malizioso, arguto quando l’argomento gli stava a cuore, mai lezioso, a volte tagliente, a tratti tranchant: durante le nostre camminate, gli piaceva raccontarmi delle esperienze nel mondo del cinema, specie con Federico Fellini, amava meno parlare del mondo della poesia, troppe le invidie e le maldicenze, ma se gli chiedevo di Eugenio Montale, allora si illuminava e si abbandonava a una serie di aneddoti sapidi e spassosi. Mi sembrava di partecipare anch’io, quasi, a quel mondo. La sua vena narrativa aveva sempre bisogno di un pubblico attento – fosse anche una sola persona -, guai a distrarsi, guai a interromperlo. Perfino Abel Ferrara era rimasto soggiogato ascoltandolo parlare di Pasolini, quel giorno in Vineria a Treviso, con Nico che, tra un bicchiere e l’altro, declamava la bontà dei vini al regista statunitense che stava disintossicandosi dall’alcol e beveva solo acqua minerale. Pasolini, l’amatissimo cugino ma anche presenza ingombrante, col cui fantasma Nico non ha mai smesso di fare i conti, ma anche di difenderlo da ogni appropriazione indebita, da ogni manovra meschina (e lo ha fatto nel modo più consono: scrivendo libri bellissimi).
Era un uomo privo di mezze misure, o amava o odiava, non nascondeva le sue antipatie, che erano istintive. A volte poteva essere insofferente, umorale, bizzoso, diventare ossessivo: allora chiamava al telefono anche dieci volte di seguito, finché le sue ansie non si placavano in qualche modo. Ma alla fine, gli si perdonava tutto: quando Nico era in vena, era l’uomo più affabile si potesse immaginare e la sua generosità ti conquistava. Ho conosciuto pochi uomini altrettanto liberi, e innamorati della bellezza, che identificava con la gioventù: i corpi dei giovani, mi confidava, erano tutto per lui, erano la vita nelle sue manifestazioni più belle, l’eleganza, la destrezza, il guizzare dei muscoli sotto la maglietta di un ragazzo. Subire l’orrida vecchiaia, vedere il corpo consumarsi giorno dopo giorno è stato un perfido contrappasso. Detestava le fedi religiose e la credenza in un dio giudice che promette castighi e premi. L’umanità è così disgraziata di suo, mi diceva, che bisogno c’è di un dio castigatore?