In ricordo di David Graeber

«Ieri la persona migliore del mondo, il mio amico e marito David Graeber, è morto in un ospedale di Venezia». Mentre chiudiamo questo numero degli Asini, le poche, struggenti parole diffuse via Twitter dalla moglie Nika Dubrovsky vengono riprese dai giornali e dai siti internet.
Scrivo qualcosa in fretta per ricordarlo, senza il tempo per riflettere un pochino, con le lacrime agli occhi, anche se non lo conoscevo. Da dove cominciare? Era nato cinquantanove anni fa a New York in una famiglia ebrea della working class, ed era una forza della natura: anarchico, antropologo, allievo e amico del grande Marshall Sahlins, insegnava alla London School of Economics a Londra, negli Stati Uniti era stato uno degli animatori del movimento Occupy Wall Street, era un appassionato sostenitore della causa del Rojava. Era il più inventivo e autorevole pensatore anarchico del nostro tempo, potremmo dire una sorta di Paul Goodman dei nostri giorni, meno travagliato e poetico, più travolgente e vitale, ma con la stessa capacità di travalicare gli ambiti di appartenenza senza in alcun modo rinunciare alla propria radicalità. Era in grado di parlare a chiunque, con il medesimo tono schietto, da una cattedra universitaria o dentro a un megafono: si rivolgeva a tutti. Ha scritto molti libri, ed è stato introdotto in Italia da Elèuthera a partire dal 2006. Alcuni dei suoi ultimi testi hanno avuto una grande risonanza: Bullshit Jobs (la traduzione italiana, da Garzanti, manteneva il titolo in inglese, mentre quella spagnola, Trabajos de mierda, era più esplicita), rapidamente diventato un classico, affrontava in modo assolutamente inusuale per la sinistra il tema del lavoro: inusuale perché scavalcava il tradizionale angolo visuale delle garanzie, dei diritti, dei contratti, ecc… per aggredire frontalmente la totale insensatezza di una enorme parte del lavoro nelle cosiddette società evolute. Il libro mostrava l’inutilità e assurdità strutturale – la controproduttività, avrebbe detto Illich – del lavoro nei settori più cruciali della società contemporanea, demolendo sia la presunta efficienza del mercato e delle corporations (tanto cara ai liberisti) che la supposta utilità della burocrazia statale e pubblica (altrettanto cara alla sinistra tradizionale). E lo faceva da una prospettiva «antropologica», mettendo al centro l’immenso sperpero di esistenze che questo ingranaggio implica, e chiamando a una ribellione. Ma, anche al di là della dimensione del lavoro, la critica della burocratizzazione del mondo è stata uno dei fulcri delle sue riflessioni: Burocrazia (Il Saggiatore, 2016; il titolo originale, The Utopia of Rules, era più efficace, e rimandava immediatamente all’insensatezza di pensare di poter regolare tutto) e Oltre il potere e la burocrazia (Elèuthera, 2013) rappresentano una delle rarissime proposte di presa di coscienza e opposizione all’accanimento burocratico e all’impazzimento normativo fatte a partire da un punto di vista egualitario, solidale e civico, una critica della burocrazia che a sinistra è ancora un tabù.
Ci rimangono i suoi libri, il suo senso dell’umorismo, il suo sorriso buffo, quasi da comico yiddish, in molte fotografie, ma per guardare alle nuove assurdità e ingiustizie del futuro, per capire come ribellarci ad esse, non avremo più la sua intelligenza generosa e pronta, la sua imprevedibile libertà di spirito e neppure la sua capacità di essere allegro nonostante tutto. È morto David Graeber, se n’è andato un fratello carissimo.