In Messico, sani e malati

Il 2 maggio scorso un gruppo di “intellettuali” italiani ha pubblicato un appello al Presidente della Repubblica che cominciava citando un grande esempio di bianchezza coloniale latinoamericana, Mario Vargas Llosa, e concludeva con particolare allerta riguardo al rischio che il “modello cinese” divenisse un riferimento politico – come se la sanità pubblica non fosse di per sé una questione politica. Noi non siamo cinesi, suggerivano gli autori: “siamo uomini liberi, italiani, occidentali. E rivendichiamo le nostre libertà e i nostri diritti”.
Simili inquietudini sono state espresse in vari luoghi popolati da “uomini liberi e occidentali”, in particolare in Spagna, dove la destra si preoccupa di una possibile “dittatura costituzionale” e negli Stati Uniti, dove gruppi della alt-right scendono in strada al grido di “il mio corpo è mio e decido io”, “la paura è il vero virus” e “la libertà è la cura”. Bisogna chiarire, fin dall’inizio, che questi uomini (e donne) “liberi e occidentali” non sono affatto i dannati della pandemia, né a livello sanitario né economico. Gettando uno sguardo sulla situazione globale, siamo ormai ben lontani dall’iniziale predizione dei medici di Bergamo che questa sarebbe stata “l’Ebola dei ricchi”. Piuttosto, la pandemia segue il vecchio adagio afroamericano per cui “quando i bianchi si prendono un raffreddore, ai neri viene la polmonite”: negli Stati Uniti come in Inghilterra e in Svezia, la popolazione nera, cittadina e migrante, occupa preoccupanti percentuali di ammalati e di morti, giacché i più impoveriti e marginalizzati sono anche quelli che più soffrono dei fattori di rischio della Covid-19; a Milano come a New York, molti dei lavoratori “essenziali” continuamente esposti al contagio sui mezzi pubblici sono migranti; in India i lavoratori migranti sono stati i più colpiti dall’improvviso lockdown; e in Ecuador i cadaveri degli ammalati più poveri sono stati abbandonati e bruciati in strada. Gli “uomini liberi e occidentali” che rivendicano le loro libertà non sembrano preoccuparsi per coloro che più sono colpiti sia nella propria salute che nella sopravvivenza economica; ma non c’è da stupirsene, perché la difesa dei “valori costituzionali” si appoggia su un discorso di matrice coloniale, per cui diritti e libertà, nella zona euro-atlantica, sono pensati a partire da soggetti bianchi e di classe media, già da sempre coscienti dei loro diritti inviolabili.
Questa “primavera virtuale” mi ha sorpreso in Messico, un paese con migliaia di femminicidi annuali, sparizioni forzate e morti collaterali della guerra al narcotraffico; a un oceano di distanza dai tanti affetti in stato di shock e progressivo isolamento, sentivo che l’Europa stava entrando in una nuova epoca, segnata da una fragilità a noi sconosciuta dal dopoguerra in poi. Che significava pensare quella fragilità da un luogo dove morte e violenza sono esperienze infinitamente più quotidiane? Insieme alle derive fascistoidi poco tematizzate nel caso italiano, mi preoccupava la rottura del tessuto sociale, soprattutto in relazione ai vincoli esperienziali e cerimoniali tra “sani” e “malati” – una categorizzazione che diverrà sempre più centrale sia a livello politico che economico. Certo mi rincuoravano le reti solidali sorte a Napoli, Milano, Barcellona, ma ascoltavo con sospetto chi annunciava che questa rinnovata fragilità avrebbe inaugurato una nuova solidarietà globale. Le sfumature tra carità umanitaria e solidarietà politica sorte con la pandemia hanno un precedente importante nelle migrazioni illegalizzate: da Lesvos a Lampedusa, passando per Ventimiglia e per i Balcani, negli ultimi anni l’umanitario è diventato un terreno di disputa e ambiguità, polarizzato e sospeso tra disobbedienza civile e depoliticizzazione. Il motto pandemico del “Resta a casa, salva vite”, appeso nelle metro di mezzo mondo, da Londra a Città del Messico, non può non ricordarci anni di campagne di ong che ci invitavano a salvare il mondo comodamente seduti a casa nostra.
A inizio marzo, alla frontiera turco-greca, gruppi neonazisti incendiavano i locali delle ong e picchiavano i migranti, mentre la polizia li attaccava col gas e, in alcuni casi, gli sparava, uccidendoli. La polarizzazione tra un umanitarismo salvifico – ma del tutto incapace di resistenza politica, giacché le ong evacuavano i propri volontari – e l’aggressiva necropolitica di stato era più forte che mai. Le istituzioni europee rivendicavano la Grecia come “scudo d’Europa” e affermavano che la legittimità di sparare ai migranti “dipende dalle circostanze”. Diversi giornalisti proferivano che l’Europa “moriva” in quella frontiera.
Le fotografie di Belal Khaled, pubblicate su Trt Arabi, ritraevano un gruppo di uomini nudi che mostravano all’obiettivo le loro cicatrici, dopo essere stati percossi, derubati e obbligati dalla polizia greca a tornare a nuoto in Turchia. In verità non mostravano nulla di nuovo sotto il sole, però riportavano ad altre immagini, catturate da Enrico Dagnino nel 2009. Alla vigilia del trattato tra Berlusconi e Ghaddafi, Dagnino fotografò il primo respingimento in mare: un gruppo di uomini africani si spogliavano, mostrando le cicatrici delle torture subite in Libia; uno, inginocchiato, afferrava la mano di un militare della marina, implorandolo di non essere riportato all’inferno libico, da noi direttamente finanziato. Né le immagini del 2009 né quelle del 2020 sono in alcun modo un’aberrazione della storia; sono la vera e propria norma di secoli di subordinazione, saccheggio e violenza coloniale i quali, a loro volta, sono intimamente intrecciati con la storia della filosofia liberale e dello stato di “diritto”.
Le fotografie di Khaled non hanno prodotto stupore in me, ma piuttosto una rabbia e impotenza totalizzanti. Sapevo dapprincipio che le crescenti preoccupazioni per il virus, che allora già occupava le prime pagine di tutti i giornali, riguardavano solo gli “uomini liberi e occidentali”, ovvero i soggetti pensati dalle costituzioni nazionali, e non quei corpi colonizzati e sfigurati. Ciò che piuttosto mi procurava un certo stupore erano quegli articoli del giornalismo migrantofilo che insistevano sulla “morte” o “fine” dell’Europa, un’Europa dei diritti che in realtà non è mai esistita. Negli ultimi vent’anni almeno 40mila persone, se non di più, hanno perso la vita nel Mediterraneo e innumerevoli altre continuano a essere sottoposte a tutte le angherie sociali, legali, economiche, simboliche e fisiche immaginabili.
L’appello degli “intellettuali” italiani è stato pubblicato proprio nel momento in cui si metteva a punto la sanatoria di braccianti agricoli e badanti – un prodotto importante degli scioperi dei primi, ma anche una misura del tutto opportunistica e parziale di fronte ai “porti chiusi” tanto agognati da Salvini che sono ora una realtà incontrastata. Le imbarcazioni che continuano a tentare la traversata sono abbandonate in mare sia dall’Italia che da Malta e le condizioni di vita negli hotspot italiani e greci sono indicibili. L’Asgi pone importantissime critiche strategiche allo stato, chiedendo la regolarizzazione di tutte le persone senza documenti, ma lo fa in nome dell’universalità dei diritti umani e civili garantita dalla nostra Costituzione e questo richiamo conduce a un circolo vizioso. I “valori costituzionali” nascono in seno agli stati-nazione, nel corso di una storia coloniale che è la storia della “razza”. Per ovvie ragioni storiche, questa parola è divenuta un tabu nel continente europeo ma la sua assenza ci impedisce di comprenderne il funzionamento strutturale (per esempio dovremmo riflettere sul fatto che i nomi dei morti nelle recenti rivolte nelle carceri sono quasi tutti di origine straniera). Prima ancora di divenire ideologia, la “razza” è stata una pratica di governo, esercitata dagli assemblaggi di ciò che si considerava “europeo” sugli assemblaggi considerati “non- europei”. Nel primo periodo coloniale determinò la divisione razzializzata del lavoro e della proprietà; più tardi determinò i moderni controlli di frontiera, originati nelle colonie settler che sperimentavano innovative “democrazie liberali” e ne escludevano i coolies provenienti dall’Asia “autoritaria”. Per quanto gli assemblaggi della “razza” cambino attraverso il tempo, continuano a informare la divisione internazionale del lavoro e della libertà di movimento, insieme a tutte le dimensioni della colonialità contemporanea: guerre, dittature, estrattivismo e povertà, ovvero proprio le cause dei movimenti verso l’Europa, gli Stati Uniti e l’Australia che, al di là delle narrazioni eurocentriche, destabilizzano soprattutto il sud del mondo.
I diritti costituzionali cui si appellano i cittadini “liberi e occidentali” sono proprio quelli da sempre sistematicamente violati per quanto riguarda la maggior parte della popolazione mondiale e, in particolare, i migranti illegalizzati che si affacciano alle soglie delle “democrazie liberali”. All’inizio della pandemia era surreale osservare le preoccupazioni internazionali per i turisti bloccati a Cuba o in Perù, ripescati con aerei di stato quando i paesi ospiti avevano completamente bloccato le proprie frontiere, mentre i migranti in transito attraverso il Messico o la Turchia subivano una repressione sempre più violenta; quelli già residenti ma privi di documenti sono sistematicamente esclusi sia dalle politiche di salute pubblica che da quelle di mitigazione economica; per di più, sia dagli Stati Uniti che del Messico sono continuate le deportazioni verso l’America Centrale, nel completo disprezzo dell’estensione geografica del contagio.
La nuova fragilità degli uomini bianchi, liberi e occidentali non sembra dunque aver prodotto maggior empatia o solidarietà; piuttosto rafforza la cecità strutturale riguardo l’eguaglianza esistenziale e utopisticamente legale tra cittadini di prima, seconda e terza classe, tra cittadini e migranti, e tra turisti e migranti. E queste asimmetrie non interessano solo le divisioni nord/sud in termini di nazionalità, ma sono del tutto presenti negli stessi territori nazionali, stratificati in base a razza e classe, come ben dimostra la gestione della pandemia a Città del Messico, che adopera misure performative del tutto distinte nei quartieri ricchi e in quelli poveri, nelle grandi urbe e nelle comunità rurali indigene. Nella capitale il virus ha colpito soprattutto i quartieri più periferici, popolati da persone tutt’altro che bianche; la narrazione statale, giornalistica e benpensante li colpevolizza, come se il contagio fosse causato dalla loro “ignoranza” e riluttanza all’obbedienza, anziché dalla disparità strutturale che li obbliga a scegliere fra sopravvivenza fisica ed economica. Né la detenzione dei migranti in Chiapas al confine con il Guatemala, né le lotte indigene contro i megaprogetti in Yucatan sono rientrate nel piano di protezione del governo; a loro soltanto è stata riservata la militarizzazione nascosta agli occhi dei cittadini di classe media e alle loro rivendicazioni progressiste, tra cui le manifestazioni femministe.
Paradossalmente, quando la pandemia sembrava ancora un problema italiano – perché gli italiani riscuotevano una simpatia globale mai riservata a cinesi e iraniani – io ricevevo infiniti messaggi di solidarietà e preoccupazione proprio da persone che hanno molto sofferto gli effetti della colonialità globale: amici cubani mi scrivevano che se non fossi riuscita a rientrare in Italia alla scadenza del mio visto messicano, potevo contare su una casa a Cuba; conoscenti messicani mi chiedevano se avevo bisogno di cibo o medicine, giacché la pandemia avrebbe ulteriormente complicato la mia ricerca di lavoro; un compagno nigerino di Lampedusa in Hamburg lanciava un appello ai tedeschi affinché solidarizzassero con gli italiani abbandonati dalle istituzioni europee; infine vecchi amici afghani e palestinesi si preoccupavano per la salute dei miei genitori. Stavo effettivamente attraversando la soglia della “migrazione”, sospesa nell’incognita di quando avrei potuto riabbracciare la mia famiglia. Quelli che mi più mi hanno sostenuta emotivamente sono amici che non vedono le loro famiglie da anni, schiacciati sotto un regime di frontiera che spezza i legami affettivi e rende impossibile poter assistere le malattie e le morti dei propri cari. Alcuni di loro sono passati per esperienze molto peggiori di questa pandemia, nella migrazione oppure in una vita stanziale ma marginalizzata, ma in nessun momento gli è passato per la testa di deridere le mie inquietudini.
Per quanta verità ci sia nell’affermazione diffusa che questa pandemia comporta nuove opportunità di relazione con la fragilità, la morte, la malattia e la separazione, non prendiamoci in giro: questa è una “novità” solo per quella piccola porzione della popolazione mondiale che viveva nell’illusione dell’immortalità e della sicurezza. La mortalità è sempre stata fin troppo presente per la stragrande maggioranza delle persone che abitano questo pianeta, a volte anche “occidentali”: per i migranti illegalizzati come per le donne trans, per i tossicodipendenti e i detenuti, per gli immunodepressi e le lavoratrici sessuali, per le famiglie dei desaparecidos e delle vittime di femminicidio, per gli attivisti ambientali indigeni e gli abitanti delle zone più inquinate industrialmente, per tutte le popolazioni più decimate dalle guerre e per i milioni di morti annuali a causa di infezioni batteriche o virali altrove curabilissime. Quest’inganno, quest’universalizzazione della fragilità e della mancanza di libertà di alcuni è magistralmente esposto in un testo recentemente pubblicato dal filosofo queer Paul B. Preciado, il quale scrive che ora “il corpo, il tuo corpo” è il nuovo oggetto della biopolitica e che “la nuova Lampedusa è la tua pelle”. Questi riferimenti danno per scontato che i lettori non siano effettivamente passati per le tante Lampedusa di questo pianeta, incomparabili all’esperienza dell’isolamento in casa. Lampedusa e Lesbos si riconfermano come territori astratti, abitati da masse anziché singoli corpi racchiusi in quel “tu”.
Dobbiamo diffidare più che mai dell’umanitarizzazione di questa politica della fragilità, narrata attraverso le immagini emotive dei camion militari che portano via da Bergamo i corpi da cremare, o dei prigionieri che scavano le fosse comuni di Hart Island nel Bronx. Le battaglie dei migranti ci insegnano che l’umanitarismo copre la violenza coloniale e in questo caso rischia di coprire il fascismo preventivo e quello che ne resterà, attraverso il ricatto della crisi e la retorica del presentismo per cui “non è il momento di pensare”. Per anni lo spettacolo di frontiera non ci ha permesso di pensare, perché il pensiero era schiacciato dalla pressione del “che ne facciamo dei migranti che arrivano?” La stessa pressione avvolge oggi la gestione dei malati e dei morti, mentre ci arrendiamo incondizionatamente alla triade “Dio, Patria e Famiglia”, sostituendo Dio con la medicina istituzionale, la sola affidataria di cura e lutto, come se la fragilità dei corpi fosse una questione meramente tecnocratica, anziché di dialogo e assunzione di rischi all’interno di relazioni di amore, cura e solidarietà. È ovvio che ricorriamo allo stato strategicamente ma non dovremmo fidarci mai, neanche per un solo momento, di quello stato migranticida, femminicida, estrattivista, sfruttatore e coloniale che fino a ieri denunciavamo. Mentre aspettiamo che la pandemia sparisca in un soffio, così come è arrivata, si acuiscono le fratture politiche; altri legami, però, si tessono, condividendo rabbia, paura, tenerezza. Nei mesi a venire mi sembra più importante che mai afferrarci a questi legami, essere “balsamo per tante ferite” come scriveva Etty Hillesum in altri tempi bui, ma farlo a partire da un orizzonte politico capace di pensare una volta per tutte i tanti assemblaggi e stratificazioni che rendono gli uni degni di tenerezza e solidarietà e gli altri no.