Impudente un po’ lo sono
incontro con Donata Subbotko
traduzione e note di Carla Pollastrelli
Consideriamo Andrzej Wajda, scomparso il 9 ottobre dello scorso anno, uno dei massimi artisti europei del Novecento, interprete dei grandi dilemmi di una storia che è stata anche nostra. Dal supplemento della “Gazeta Wyborcza” del 5 marzo 2016, che ringraziamo, abbiamo tradotto questa lunga, importante ed esauriente intervista.
…
Non mi resta molto tempo, lei mi capisce.
È quello che lei sente?
Chi ha novant’anni è vecchio per davvero. Per questo motivo ho fretta e penso già al prossimo film. Finché mi reggo ancora in piedi, finché ho energia, forza sufficiente per imporre la mia volontà alla troupe, posso girare. Ma quando non starò più in piedi, quando la mia voce si sentirà a malapena, che razza di film sarà, di chi sarà? Per non parlare del fatto che anche il film si trascinerà lentamente sullo schermo.
È necessario urlare a volte?
Alzare la voce. È un mestiere fatto così. Le persone con cui lavoro devono vedere in me un sostegno, non può essere che io mi appoggi a loro, anche se un po’ lo faccio. Ma ho bisogno di essere sicuro di me. Sicuro di non crollare, di non cominciare ad ammalarmi. Sono questi i problemi che mi trovo davanti. Si approssima una data che mi coglie alla sprovvista, sto per compiere novant’anni.
Non l’aveva previsto?
Quando mai? Quando la guerra volgeva al termine avevo diciannove anni e pensavo a una cosa soltanto: a non morire negli ultimi mesi, nelle ultime settimane. Volevo arrivare vivo fino al momento in cui sarebbe nata l’Accademia di Belle Arti a Cracovia e avrei potuto iscrivermi. Era lo scopo della mia vita.
E oggi qual è?
Fare il prossimo film e non preoccuparmi di quello che succede intorno.
Un altro film dopo After image, su Strzeminski1? Quale?
Ho alcune idee, vedremo.
Ma che cosa vorrebbe fare per lei stesso?
Un film lo faccio anche per me. Non è che io stia a considerare che cosa potrebbe piacere di più, sebbene desideri fare un film che il pubblico possa accogliere con un lieve senso di sorpresa: “Com’è possibile? Abbiamo appena avuto il tempo di pensarci e lui è già riuscito a girarlo”. È una sorta di conversazione che intrattengo con il pubblico e di giustificazione per me stesso, per il fatto che continuo a fare film, che ho ancora qualcosa di interessante da dire.
Quale dei suoi film è stato più motivato da un’esigenza personale?
Dovendo indicare un solo film, allora avrei dovuto smettere dopo Cenere e diamanti. Ma avevo trent’anni e pensavo che davanti a me ci fossero le puntate successive. E poi il cinema è un elemento in cui mi sento bene. Mi ci ritrovo, lavorando con la gente. Eppure ho studiato per tre anni qui a Cracovia, all’Accademia di Belle Arti, e ho abbandonato gli studi proprio perché non volevo lavorare solo per me. Come ha detto giustamente un mio collega, per un pittore il migliore amico è lui stesso, ma non è nel mio carattere. Per questo motivo finché riuscirò a reggermi in piedi, e la mia voce sarà forte, lavorerò. C’è bisogno di nuovi film polacchi. Abbiamo molti film di successo, le nostre produzioni vincono premi ai festival e soprattutto hanno un pubblico più numeroso dei film stranieri. Vuol dire che il pubblico si aspetta film polacchi che parlino di questioni polacche.
Per quanto riguarda le questioni polacche, non c’è un regista più polacco di lei. Adesso hanno bisogno di film patriottici, magari le faranno delle proposte?
I film patriottici li voleva fare soprattutto il generale Moczar2. Lui e i suoi sodali ritenevano che io non facessi film di quel genere e non fossi un patriota. Ma queste vicende le conosco bene dai tempi della Polonia comunista3. Del resto un film patriottico è già stato realizzato: La battaglia di Vienna, la vittoria di Vienna è stata la più grande disfatta della cinematografia polacca. E poi un artista può scegliere: se vuole essere servo della nazione, si accomodi, ma nessuno può imporgli quel ruolo.
Eppure i suoi film sono una parte importante proprio della cultura nazionale. Lei stesso dice scherzando di essere diventato “il Matejko 4 del cinema polacco”.
Solo che Matejko dipingeva le vittorie, io invece ho dovuto filmare le disfatte.
Perché ha dovuto filmare le disfatte?
La grande, vera arte è critica. Non deve essere rivolta all’autocompiacimento. Potrei parlarne a partire dalle esperienze della mia vita: se non avessi tratto le conseguenze dai miei errori non avrei raggiunto quello che ho raggiunto. Ho dovuto giudicare io stesso i miei film a prescindere dalle recensioni. Talvolta le recensioni negative erano ingiuste e talvolta erano ingiuste quelle positive. Ho dovuto fare le mie valutazioni per poter continuare. Capire dove avevo ragione e dove sbagliavo. Lo stesso discorso andrebbe fatto per quanto riguarda la Polonia.
A che proposito non aveva ragione?
Oh, buona domanda, passiamo a quella seguente. Dico sempre così quando voglio sottrarmi. Se si fa qualcosa, si agisce, si lavora in ambito artistico, i successi e le sconfitte si alternano, quindi il fatto che un mio film non sia piaciuto lo chiamerò sconfitta…
Ma la mia domanda non si riferisce solo al cinema, è piuttosto in generale.
Tutta la mia vita si è svolta in modo che potessi fare film. A questo ho subordinato tutto quello che mi capitava, le questioni personali e pubbliche, il comportamento rispetto alle questioni politiche.
Quando si subordina la vita solo alla possibilità di fare film, cosa si perde?
Ci sono persone che amano la vita, sono felici quando essa li sorprende, vanno incontro a quello che può succedere domani. Io invece sapevo sempre cosa sarebbe successo l’indomani: mi alzo alle sette, perché alle nove devo essere sul set dove mi aspettano centocinquanta persone, che senza di me non possono fare il film.
Non mi ha risposto alla domanda: che cosa ha perso?
Molto, non starò a parlarne. Ma l’importante è che non ho perso l’amicizia di chi mi è prossimo, sebbene non abbia dedicato loro abbastanza tempo.
In quanto artista ha detto quello che voleva dire?
Se guardo dalla prospettiva degli anni, vedo che sono riuscito a fare certi film proprio nel momento in cui era possibile realizzarli. È la mia conquista maggiore. Ho sempre osservato attentamente la realtà. Ero pronto, aspettavo con le sceneggiature pronte; con L’uomo di marmo ho aspettato addirittura tredici anni. Quello che avevo da dire, l’ho detto. Anche in quei film che erano, per così dire, disinteressati, come Le signorine di Wilko. O Il bosco di betulle o Tatarak, per citare i film ispirati dai racconti di Iwaszkiewicz, ma proprio la sua prosa mi offriva le possibilità maggiori per quel genere di cinema.
E come uomo, ha fatto quello che voleva fare?
No, certamente no. Al cinema ho sacrificato tutto. Fare film dipende da talmente tante decisioni, da tante combinazioni, che se si entra in questo campo si tralasciano altri ambiti della vita che magari sarebbero meravigliosi, magari sarebbero straordinari, magari, magari…
Che cosa considererebbe una sua vittoria personale?
Quando nel 1980 sono arrivato ai Cantieri Navali di Danzica, c’era qualcosa di bellissimo e commovente nel fatto che gli operai che erano di guardia ai cancelli pensassero che era ovvio che io andassi da loro. Ecco, quel momento! Poi un operaio dei cantieri, che mi ha accompagnato nella sala dove era in corso l’assemblea, ha detto: “Faccia un film su di noi”. Che film? L’uomo di ferro. E perché? Perché prima aveva visto L’uomo di marmo. Improvvisamente ho sentito che mi trovavo nel posto dove dovevo essere.
Ha fatto in tempo a girare Walesa, ma adesso di lui scriveranno in modo alquanto diverso.
Certo, ma non posso pensare che questa situazione duri all’infinito. Questo governo cambierà e la sua versione della storia non durerà. Ma per quanto riguarda i miei film, forse posso dire che il mondo li conosce e sa che proprio quei film sono portatori della verità su questo paese.
Secondo lei, i dossier di Kiszczak5 non hanno cambiato nulla per quanto riguarda Lech Walesa?
Per me non hanno alcuna importanza. Ho conosciuto Lech Walesa al tempo degli avvenimenti storici, conosco il ruolo che vi ha avuto, mi interessano poco le prove più o meno contraffatte nel passato.
Il suo cinema è un panorama della storia della Polonia, dalle Legioni di Dabrowski6 a Solidarnosc. Ma alcuni ritengono che lei abbia falsato la storia.
Quello che costoro vogliono presentare come verità, non è la verità. È solo quello che vorrebbero. D’altronde non succede mai che di fronte a noi stia la nuda verità e che possiamo mostrarla tutta intera. Forse nei miei film non ho detto tutta la verità, ma non potevo dire tutta la verità perché non vivevamo in un paese libero. La mia interpretazione della storia era l’interpretazione di chi credeva e faceva di tutto perché un certo giorno nascesse Solidarnosc. E pertanto più che incoraggiare la gente a prendere le armi, la incoraggiava a lottare contro il sistema comunista e a cercare di vincere, ma per mezzo dei negoziati. Perché non succedesse come ne I dannati di Varsavia, cioè che provochiamo un’insurrezione, ma le conseguenze non dipendono da noi, perché qualcun altro tira le fila, dall’altra parte della Vistola c’è Stalin e non si muove per portare aiuto.
Non si tratta di eroismo, ma solo di vincere?
Anche di eroismo – che è bello e necessario – ma si tratta di far sì che questo eroismo porti alla vittoria e non alla disfatta, perché la disfatta, comunque la si consideri, è solo una disfatta.
Ritengo che la più grande vittoria della storia polacca sia quello che ho visto nella mia vita: cioè che Solidarnosc sia riuscita a farci attraversare il Mar Rosso e a condurci alla libertà senza spargimento di sangue. Infatti, quando ci siamo seduti alla tavola rotonda delle trattative, volevamo che l’altra parte che disponeva di carri armati, cannoni, aerei, esercito, polizia e di ogni possibile forma di pressione, acconsentisse a indire elezioni libere. Loro si sono assunti questo rischio, ma hanno voluto in cambio la promessa che dopo non sarebbero stati puniti. Questo è il compromesso che Lech Walesa ha portato a buon fine; ritengo che sia stato lui il baluardo principale del buon senso, lui ha aperto la strada verso la libertà senza conflitto armato. Coloro che raccontano che il conflitto sarebbe stato una soluzione migliore, non hanno la minima idea di che cosa avrebbe significato e quale terribile catastrofe avrebbe provocato. L’Unione Sovietica esisterebbe ancora oggi! Il conflitto in Polonia l’avrebbe solo rafforzata, mentre la nostra soluzione pacifica a quella situazione l’ha battuta. Dicono che sia stato un errore. Ma quale errore? Che l’opposizione abbia creato l’occasione perché il comunismo andasse allo sbando e permettesse di governare a coloro che devono governare nel nome della maggioranza della nazione?
Adesso sono loro a parlare in nome della nazione, quasi come nel suo film Danton, in cui Robespierre diceva di potersi arrogare tutti i diritti quando fosse in questione il “bene” della repubblica.
Di solito il potere parla in nome della nazione. Vogliono dimostrare che sono loro la voce della società polacca, ma non è vero. Sono la voce di una sua parte soltanto. Comunque la si voglia conteggiare, da anni è il 30%. Ma dov’è il restante 70%? Questa parte ha bisogno di scuotersi dal sonno, ha bisogno di nuovi leader, di indicare la direzione in cui dobbiamo andare. La Polonia ha imboccato la strada della democrazia. Nonostante tutte le difficoltà, tutti gli errori, per noi è l’unica strada. Perché ci siamo liberati dalla dominazione dell’impero sovietico? Perché noi non apparteniamo, non siamo mai appartenuti e non apparterremo mai a quel mondo che scriveva in cirillico. Noi apparteniamo all’Europa, all’Occidente. L’Europa finisce dove si trovano le ultime chiese gotiche.
Ma forse il nostro cuore batte nell’Asia occidentale?
No, no. Certo, quelli che hanno paura cercheranno di bloccare le nostre frontiere, così ce ne staremo qui da soli e penseremo che quello che facciamo noi è il meglio che c’è al mondo. Dicono che la realtà europea non è stabile. E allora sosteniamola affinché sia più stabile. La realtà non è stabile in generale, ma quel mondo non stabilizzato dell’Europa occidentale tende a migliorare. O seguiamo questa direzione oppure rimpiccioliremo per diventare lo zimbello del mondo. Sarebbe la minaccia più grande, se la Polonia iniziasse a separarsi dall’Europa nella convinzione di bastare a se stessa.
Non è così?
No. I Paesi che hanno avuto successo sono quelli che non temono il confronto. La Polonia non deve temere. Chiudersi all’interno delle proprie frontiere vuol dire vivere nella falsità. Ci sono persone che tengono i figli chiusi in casa ripetendo loro quanto siano intelligenti; quei ragazzi poi si ritrovano nel mondo, convinti della propria genialità, ma per loro il confronto con il mondo spesso si rivela tragico.
Lei non è stato viziato?
No. Mio padre e mia madre hanno avuto una vita difficile e sapevano di dover preparare anche noi a una vita simile. Che fosse difficile l’ho constatato ben presto perché è scoppiata la guerra. Mio padre è andato a combattere mentre io e mio fratello siamo rimasti con mia madre. Bisognava lavorare, avere i documenti perché non ci deportassero ai lavori forzati in Germania. Eppure io e mio fratello abbiamo avuto un’infanzia felice, mia madre era un’insegnante ma non lavorava, stava in casa con noi. I miei genitori si amavano molto, mia madre ha aspettato fino a quando è morta, nel 1950, che mio padre tornasse, non credeva che fosse morto. Noi non conoscevamo la verità sul massacro di Katyn, al di là delle informazioni che filtravano fino a noi dalla stampa tedesca. Scrivevano delle fosse comuni scoperte a Katyn, ma c’era sempre la speranza che forse prigionieri di altri campi di internamento si fossero salvati.
Lei ha scritto che non ha visto suo padre piangere, sebbene probabilmente abbia pianto quando nel settembre del ’39 ricevette l’ordine di arrendersi. Lei a volte piange?
Direi di no. Non me lo ricordo, perché dovrei piangere?
Mai?
Quando ero giovane, no; forse dopo, dopo anni. Lasciamo stare questa domanda, lasciamo stare…
Lei è nato prima della guerra; com’era la Polonia che vide allora e com’è quella che vede oggi?
La Polonia di anteguerra proclamava idee simili a quelle che sentiamo adesso: nazionalistiche. Che cosa mi ha guarito da quelle idee? La disfatta vergognosa del 1939. Era chiaro che non c’era alcuna probabilità di vincere contemporaneamente contro i sovietici e contro i tedeschi, ma ho visto con i miei occhi il caos che è successo, ho visto quanto fosse inetta l’amministrazione, quanto fosse falso quello che avevamo imparato a scuola: che Rydz-Smigly7 non avrebbe permesso che ci portassero via nemmeno un bottone della divisa. E all’improvviso Rydz-Smigly è sparito, è stato il primo a fuggire. Ho visto che quello che mi avevano insegnato era falso.
Quell’esperienza mi ha mostrato dove vada a finire l’ideologia nazionalistica quando si dimostra impotente. E noi ci troviamo sulla strada dove eravamo prima della guerra, manca solo Bereza Kartuska8. Quando ci sarà Bereza, il processo sarà compiuto. I libri di testo, il modo di insegnare la storia, il modo di trattare gli avversari politici. Tutto questo l’ho vissuto, l’ho visto. So che non è questo il cammino verso la vittoria. Il cammino verso la vittoria l’ho visto più tardi, lo percorrevano “Solidarnosc”, i lavoratori. Walesa è un prodotto di quella Polonia che voglio vedere. La Polonia di coloro che si prendono la responsabilità per gli altri. Osservo con angoscia quello che succede oggi, ma non posso fare a meno di ricordare quella società che ha dato prova di patriottismo creando Solidarnosc. Si è realizzato quello che è stato il sogno delle generazioni precedenti, all’improvviso intellettuali e artisti stavano al fianco degli operai. È quello che deve ripetersi adesso.
È forse perché abbiamo sprecato la libertà? Come ne Le nozze: “Villano, avevi il corno d’oro”9?
No, questo non possiamo dirlo. È successo semplicemente che ci sono persone al potere che vogliono realizzare un’immagine diversa della nostra patria, ma dall’altra parte abbiamo un numero maggiore di cittadini e sono loro che devono creare nuove forze politiche di sinistra. Non abbiamo avuto un partito che difendesse con sufficiente energia le conquiste della libertà e non abbiamo pensato abbastanza a coloro che hanno pagato il prezzo delle trasformazioni, mentre bisognava fare tutto il possibile. Mi rendo conto che non era semplice. Quando ho realizzato La terra promessa, nei capannoni dove erano in funzione i telai, durante le riprese si è dovuta sospendere la produzione di tessuto per le giacche mimetiche sovietiche e inserire nei telai della stoffa bianca. Tutta l’industria polacca era legata all’economia sovietica e distaccarsene è stato molto difficile. Sono stati compiuti errori, tuttavia anche tra gli attivisti di Solidarnosc ce n’erano alcuni che capivano che, trascurando quanti erano stati trattati ingiustamente nella transizione, ci rendevamo il compito troppo facile.
Appunto e infatti il nuovo gruppo al potere sostiene che è necessaria una riparazione.
Ma quale riparazione? Pur ammettendo gli errori, la Polonia non si è mai trovata in una situazione economica così buona come adesso che è legata all’Unione Europea. E non è mai stata così sicura. Per non parlare del fatto che sono sorte moltissime nuove strutture per la cultura. Nella mia lunga vita non ne avevo mai viste tante.
Ma forse, così come succedeva ne La terra promessa, abbiamo a che fare con la scomparsa dei valori, della tradizione, della religione, del patriottismo – ed è di questo che la gente sente maggiormente la mancanza?
La politica basata sulla storia non apre nuove possibilità nell’arte che così si nutre del passato e macina temi triti e ritriti. D’altra parte anche nella Polonia comunista sono nate opere “patriottiche”, ma nessuno se ne ricorda più. Perché l’arte autentica si confronta con uno sguardo nuovo sulla realtà, mentre la creazione subordinata a una qualche visione storica non vede la realtà, ma solo la sua rappresentazione oggi.
Invece, come insegnava Strzeminski, l’immagine non sempre e non per ognuno è una sola e identica?
È vero, appunto per questo l’arte ha bisogno di individualità, mentre a coloro che vogliono un’arte nazionale, uniforme, le individualità sono d’intralcio.
Per questo ha girato il film su Strzeminski?
Ho fatto il film sul modo in cui passo dopo passo si distrugge un uomo. Strzeminski è morto nel 1952, il potere ha fatto di tutto per privarlo non solo della possibilità di creare, ma anche di vivere. Non sentivo vicina la sua arte, la sua pittura, a me interessava la sua straordinaria coerenza. Il fatto che un artista ha il diritto di mostrare il mondo da un certo punto di vista piuttosto che da un altro e nessuno può criticarlo perché ha scelto un’ideologia inappropriata. Nel film appare tutto l’apparato di potere, interviene il ministro della cultura dell’epoca e anche lui si richiama all’arte nazionale.
In fin dei conti perché si è occupato tutta la vita della specificità polacca?
Qui, dopo la guerra, eravamo in una situazione in cui la Polonia era governata da Mosca e noi difendevamo la nostra personalità, la nostra individualità, la lingua. Lo ha detto molto bene un giornalista all’incontro al Castello Reale. Una ragazza ha domandato perché i professori Zachwatowicz, Lorentz e Gieysztor non fossero emigrati dalla Polonia e avessero invece sostenuto il sistema. E allora il giornalista ha risposto: “Se persone di questo genere avessero lasciato il paese, forse lei mi farebbe questa domanda in russo”. Ecco, è la risposta giusta. Abbiamo fatto di tutto per non parlare russo, ma polacco. Per essere a casa nostra. Questo era il mio modo di pensare ed è quello che ho mostrato nei miei film, il che ha forse aiutato “Solidarnosc” a trovare il cammino per conquistare la libertà. Che adesso poi mi critichino per questo – ne ho già parlato – conosco queste storie dai tempi della Polonia comunista, anche allora si richiamavano alla nazione, con gli stessi argomenti. È sufficiente leggere le recensioni su “Trybuna Ludu”. Queste critiche le conosco bene.
Ma oggi, nella Polonia libera, forse le fanno più male?
No, i miei film hanno avuto il loro peso. Dite pure quello che vi pare, per me e per i miei film non ha più alcuna importanza.
Di sé che cosa apprezza di più?
La coerenza. Quando mi accingo a un progetto, ne rispondo, anche se non riesce.
Da dove le viene questa forza?
Dal fatto che non ho lavorato da solo, ma con la gente. Da soli è difficile sviluppare in sé la chiarezza espressiva, la forza, ma se siamo costretti a rivolgerci agli altri con chiarezza, a confrontarci con gli altri, allora s’impara. Il senso di responsabilità l’osservavo in mio padre che si alzava alle sei per essere alle sette in caserma; spesso tornava in caserma anche dopo cena per vedere se tutto era in ordine, se i soldati dormivano e se si alzavano la mattina all’ora in cui dovevano alzarsi. Era la mia vita di ogni giorno. Uno dei primi libri che ho letto da ragazzino era il regolamento di fanteria. Grazie a quel libro sapevo come si deve comportare chi lavora con gli altri.
È stato nell’Armia Krajowa, non è stato iscritto al partito, ha raccontato al mondo di “Solidarnosc”, di Katyn, e nonostante tutto questo da alcuni lei non è considerato un patriota.
La sua domanda è come sia possibile? Le rispondo subito: in Polonia è possibile! I polacchi sono così. In questo paese quando qualcuno riesce a realizzare qualcosa, deve fare i conti con il fatto che gli attribuiscono ogni genere di peccato, anche quelli che non ha sulla coscienza.
Non apprezziamo le individualità? A che ci serve un Wajda o un Walesa?
I polacchi si agitano nello spazio stretto tra due muri, perlomeno quelli che non vogliono confrontarsi con l’Europa civilizzata. Il mondo cambia, che lo vogliamo o no, e noi dovremmo girargli le spalle, stare seduti in pantofole davanti al caminetto a leggere Sienkiewicz? Tra un po’ non ci sarà più nemmeno il caminetto, perché tagliamo i boschi e bruciamo tutto quello che c’è da bruciare. La realtà economica ben presto ci farà passare la sbornia. Ci conto. Quando coloro che avvalorano il pensiero aureo nazional-patriottico vedranno i loro guadagni ridursi, allora torneranno in sé rapidamente. Ecco, di politica non vorrei parlare più.
Novant’anni sono tanti o troppo pochi?
Non immaginavo che sarebbero passati così in fretta. Quando guardo indietro, questi avvenimenti, questi film che ho fatto mi appaiono solo come un balenio. Quanto più si invecchia, tanto più velocemente corre il tempo; non è, come mi sembrava una volta, che in vecchiaia il tempo avrebbe smesso di inseguirmi e avrei potuto… già, ma cosa avrei potuto?
Lei ha detto che da vecchio avrebbe dipinto.
Che avrei riparato al tradimento più grande? No, non è così. L’arte non sta ferma. Dopo aver lasciato l’Accademia mi sono chiesto se non avessi commesso un errore, ma sentivo che quello che facevo nell’ambito della pittura non era originale, non era abbastanza espressivo. Ma non ho mai smesso di dipingere per me. Non ho dipinto gran che, ma ho disegnato molto, i miei appunti sono pieni di disegni. Paesaggi, volti, tutta una serie di ritratti di persone che ho incontrato durante la mia lunga vita. Mi si ripresentano, sebbene quelle persone non ci siano più da tanto tempo.
Lei ha sempre disegnato gli animali.
Sì, perché cani e gatti vivono in casa nostra, casa mia e di Krystyna, la loro vita completa la nostra. Se ne vanno a scorrazzare per conto proprio da qualche parte, poi tornano, ci raccontano qualcosa di sé. Si devono avere animali. Purtroppo ora ci ha lasciato Misiek, un grande cane bianco, bastardo. Io e Krysia in casa prendiamo sempre cani bastardi. Quello che conta è avere animali che hanno particolarmente bisogno della nostra compagnia, e quella povera bestia l’abbiamo trovata d’inverno in un luogo disabitato e fino alla fine è sempre stata un po’ impaurita. Gli volevamo molto bene, si è adattata bene nella nostra casa piena di animali, perché anch’essi si intendono tra loro, cani e gatti si accettano a vicenda. Misiek è morto dopo una quindicina d’anni, ma abbiamo una gatta e un altro cane. È triste che gli animali vivano meno a lungo di noi e si separino da noi, d’altra parte ne arrivano altri. Quindi ho sempre avuto cani e gatti, mentre mia figlia Karolina alleva cavalli, si può dire che in un certo senso continui la tradizione militare di famiglia. Ricordo ancora i reggimenti di ulani al tempo della mia infanzia a Suwaki, per questo poi nei miei film c’erano i cavalli… Fermiamoci un istante – mi sto inoltrando nelle considerazioni sulla vita, ma non sto parlando della mia vita personale. E preferirei non parlarne. La considero una mia proprietà. Successi e insuccessi, a chi importa?
Certo, infatti non faccio domande a questo proposito.
Beh, ma può sembrare assurdo che parli degli animali e non parli delle persone che hanno avuto il ruolo più importante nella mia vita.
E allora parliamo magari di quest’ultima persona, di Krystyna Zachwatowicz?
È stata una coincidenza così fortunata che gran parte della mia vita sia legata all’incontro con lei. Siamo sposati da quarant’anni, prima invece – come sono stato stupido… Mi è stata di grande aiuto perché potessi occuparmi della realizzazione dei miei progetti. Abbiamo lavorato insieme a teatro, ha partecipato come attrice ad alcuni miei film, in particolare con la splendida interpretazione di Kazia ne Le signorine di Wilko… Ci siamo sempre capiti, avevamo obiettivi simili, anche adesso che Krysia lavora per il Museo Józef Czapski a Cracovia. Anche il luogo dove ci troviamo adesso, il Museo d’Arte Giapponese “Manggha”10, è nato per nostra iniziativa, di Krystyna e mia, proprio qui a Cracovia che è diventata la nostra casa. Certo, faranno comunque di tutto per farmi lo sgambetto. Dicono: Manggha? Avrebbe potuto costruire qualcosa di polacco di fronte al Wawel, e invece ha costruito un museo giapponese!
Che cos’hanno i giapponesi che noi non abbiamo?
Una civiltà materiale, l’indipendenza e una tradizione di cui non si vantano. L’ikebana, l’origami, la calligrafia, il teatro giapponese – quante manifestazioni della cultura di un paese! E poi anche i bonsai. I giapponesi lasciano crescere i loro alberi e per di più coltivano in casa questi alberelli, da noi invece gli alberi si tagliano.
E hanno pure inventato il sushi. Le piace?
Non tanto, preferisco le cotolette di maiale. Veramente, la cucina giapponese non mi fa impazzire. Ma non ho mai dato grande importanza al cibo. Sono cresciuto in una situazione diversa. Quando c’era la guerra, si mangiava qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Per questo non sono schizzinoso e non mi piace lasciare del cibo avanzato nel piatto. I giapponesi poi coltivano tuttora il loro combattimento con la spada, e questo combattimento è una sorta di balletto. In quel balletto cercano di indovinare il comportamento dell’avversario, e nello stesso tempo tutto è codificato. Che cosa mi piace dell’arte giapponese? Il fatto che sia rigorosa, mentre la nostra vita e la nostra arte sono troppo arbitrarie. Quello che ci manca è appunto la disciplina.
Quando guardiamo il suo amato Kurosawa, più che la disciplina si sente probabilmente qualcosa di folle.
Kurosawa è la follia, ma in questa follia c’è del metodo. Ogni suo film è perfettamente costruito e tuttavia la follia rimane.
Che cosa annota nel suo diario adesso?
Cerco di rispondere alla domanda: che cosa vedo intorno a me nel mio paese e quali probabilità abbiamo che quanto c’è di negativo non prevalga a lungo? Annoto anche avvenimenti della mia vita e idee per i film che forse tenterò ancora di realizzare. Sembra un’affermazione abbastanza impudente, beh è vero, impudente un po’ lo sono.
Sempre cinema e politica? Non ci posso credere.
Sicuramente è il mio punto debole. Non mi propongo come il miglior esempio da imitare, non do lezioni a nessuno. Sono pieno di ammirazione per chi guarda il fiume che scorre, basta a se stesso e riesce così a riempire la propria vita. Eppure a me sembrava che fosse meglio occuparsi di qualcos’altro oltre che di se stessi, in un certo senso ho preferito vivere la vita dei miei protagonisti piuttosto che la mia. Ero preso dalla vita di altri. Si può ritenere che sia un errore. D’altra parte ho sempre girato film e a teatro ho messo in scena testi in cui la vita dei personaggi che raccontavo era in consonanza con la mia realtà.
Perché non ha voluto occuparsi di sé?
Ritenevo che potesse portare a una sorta di schizofrenia. Ma se sia giusto, o se invece l’artista non debba occuparsi di se stesso e la sua arte non debba essere solo il risultato di quell’occuparsi di se stesso, non lo so. Avevo tredici anni quando la guerra è iniziata e diciannove quando è finita. È un periodo importante nella vita, e io lavoravo come artigiano qui a Cracovia. Ho fatto il fabbro, ho fatto il bottaio. A noi polacchi il Terzo Reich destinava solo lavori fisici del genere. Quindi, quando la guerra è finita volevo riprendere il destino in mano, per me ogni giorno era prezioso, non volevo sprecarne nemmeno uno. Quando ancora andavo al ginnasio, subito dopo la guerra, nel 1945, abbiamo creato a Radom un teatro studentesco, abbiamo messo in scena Antigone, per quello spettacolo ho fatto la scenografia. Avevo entusiasmo, progetti, ambizioni. Ricordo che persino un banale viaggio in treno era importante, era la libertà. La prima cosa che volevo fare dopo la guerra era viaggiare, in qualunque posto – andare a Stettino, a Wroclaw, a Zielona Góra, a Danzica…
Quali sono i suoi punti deboli, a parte il cinema?
Ho avuto tutti i possibili punti deboli, ma ho cercato di vincerli, di aggirarli. Per esempio, non ho imparato le lingue straniere, e ne avrei avuto bisogno, per pigrizia non ho colto l’opportunità. A causa della guerra ho sprecato il tempo che avrebbe dovuto essere destinato allo studio. Nel 1939 sono entrato in prima ginnasio. Se avessi portato a termine il ginnasio normalmente, sarei stato un uomo diverso da quello che nel 1945 entrò in terza ginnasio, fece due anni in uno, diede gli esami di maturità del corso abbreviato e così di fatto concluse la sua educazione. Avevo fretta di iscrivermi all’Accademia. Mi sembrava che la vita mi sfuggisse.
Se cerca di vedersi quando era giovane, che cosa le viene in mente?
Una cosa è certa: non sono andato indietro, ma avanti. Non mi sono bloccato sulle esperienze della guerra, ma mi sono confrontato con quello che è successo dopo, vi ho preso parte. Era fantastico come, dopo la guerra, soprattutto fino alla unificazione del partito nel 1948, tutti si buttassero a capofitto nel lavoro affinché la Polonia potesse esistere di nuovo. Perché ho potuto iscrivermi all’Accademia? Perché cominciò a funzionare già nel 1946, le università polacche si attivarono immediatamente; i professori che erano stati espulsi da Leopoli insegnavano a Wroclaw e non avevano alcun dubbio, né la sensazione di dover star fermi ad aspettare che succedesse qualcosa per cui la Polonia non sarebbe stata sotto il dominio sovietico, che quella situazione sarebbe cambiata. Oggi è facile pensare che si dovesse aspettare che succedesse qualcosa. Sapevamo che non sarebbe successo nulla, non poteva succedere nulla! Bisognava fare quello che era nostro dovere fare, il mio dovere era finire il ginnasio al più presto e iniziare gli studi all’Accademia. Cercare il mio posto nella vita e nell’arte.
Quando è stato al cinema la prima volta?
Ancora prima della guerra, a Suwaki, ho visto il film Biancaneve e i sette nani di Disney. Mia madre accompagnò me e mio fratello. È l’unico film che ricordo dell’infanzia. Mia madre – oltre a essere una grande lettrice – era anche fanatica del cinema. La sera andava spesso al cinema con mio padre. Abitavamo in periferia, quindi c’era una carrozzella mandata apposta dal reggimento di mio padre che veniva per portarli al cinema in centro. Ma non ho idea di quale fosse la programmazione a Suwaki prima della guerra, quali film i miei genitori andassero a vedere. In tempo di guerra non ho visto nessun film, perché “solo i porci vanno al cinema”11. Mentre, subito dopo la guerra sono riuscito a vedere, qui a Cracovia, Quarto potere di Orson Welles. Ed è strano, nemmeno io saprei rispondere come sia stato possibile allora che quel film sia apparso sugli schermi in Polonia. Mi ha stupito, non immaginavo che esistessero film di quel genere.
Qualche follia della giovinezza?
No, no. Perché la vera follia era sopravvivere alla guerra. Dopo quella follia sono diventato un giovane molto assennato. Ho investito nell’educazione, nel futuro, ero attivo nel gruppo di Andrzej Wróblewski12, andavo alle mostre, al cinema, seguivo il teatro di Tadeusz Kantor. Quell’inesauribile entusiasmo giovanile si è trasferito poi nella vita, nel mio lavoro.
Direbbe anche oggi di essere entusiasta della vita?
Lo sono tuttora, sebbene di questa vita non me ne sia rimasta granché. Beh, che altro dovrei dire? Magari domani, o dopodomani, non avrò più niente da dire.
Ha avuto un posto tra gli immortali all’Accademia di Belle Arti francese.
Sono soprattutto orgoglioso di occupare il seggio appartenuto a Fellini.
Vorrebbe essere immortale?
L’immortalità è possibile solo attraverso quello che l’uomo lascia alla sua morte. Se quello che lascio dopo di me – i miei film, i lavori, le varie attività – ha qualche valore, resisterà; se non ne ha, sparirà. E succederà a prescindere da me. Non so in che misura il futuro si occuperà del passato, ma ho fatto quello che ho fatto. Non sempre quello che volevo, ma quello che ho potuto fare in un momento dato.
Vorrebbe ricominciare?
No. Perché non credo che una possibilità del genere esista.
Ma se esistesse?
No, perché cos’è che dovrei fare se dovessi ricominciare? La stessa cosa di nuovo? A che scopo?
Posso dire soltanto che nella vita ho avuto fortuna. E che le sono andato incontro. Non è accaduto che me ne stavo rinchiuso, mentre la fortuna mi passava accanto, no. Io la scorgevo ovunque mi desse la possibilità di fare qualcosa, di incontrare qualcuno. Se uno ha fortuna, ce l’ha, e se non ce l’ha allora la vita diventa difficile.
Il momento in cui è stato più felice?
Ho sempre pensato che fosse davanti a me. Mi sembrava sempre che tutto fosse davanti a me: il film che devo fare e che sarà – per così dire – qualcosa di straordinario o che magari a teatro riuscirò a creare qualcosa di mai visto. A questo legavo le mie speranze.
E che cosa ci aspetta?
Ci aspetta la morte, è chiaro. Essa si avvicina inesorabilmente e questo fatto va preso in considerazione.
Quando è stato il suo primo contatto con la morte?
Durante l’occupazione. A Radom, camminavo lungo via Zeromski e all’improvviso è fuggito un prigioniero che stavano portando alla Gestapo, allora il tedesco che camminava vicino a me ha imbracciato il fucile che aveva in spalla e lo ha ucciso sotto i miei occhi. Con un colpo solo. Quella facilità della morte è l’esperienza che ha impresso la traccia più forte nella mia vita.
La morte di Malczewski13 è uno dei dipinti su cui lei torna. Nel quadro è una giovane di bell’aspetto con un fiore tra i capelli.
Ma è la morte nella giovinezza. Come scriveva Iwaszkiewicz, la morte più ingiusta è quella in primavera. Certo, grazie ai miei film mi sono avvicinato alla morte. L’ho rappresentata così come la immaginavo. Ma se si vivesse solo di questo, se si pensasse solo a questo nel timore che succeda… Succederà, perché deve succedere.
Lei ha paura?
Sì.
Già nel 1950, a ventiquattro anni, ha scattato un autoritratto nella vetrina di un falegname costruttore di bare.
Ne sono stupito anch’io. Ho ritirato fuori quella foto recentemente. C’era un tratto un po’ eccentrico nel fatto di vedermi così, ma è un’eccezione.
Non c’è niente al di là?
Tutto quello che doveva succedere è successo qui. Ancora in tempo di guerra sono riuscito a leggere L’origine delle specie di Darwin e sono diventato darwiniano.
Ha capito che discendiamo tutti da una scimmia?
Sì, da quando avevo quindici anni. Quel libro ha fatto sì che comprendessi come siamo arrivati su questo mondo e da dove discendiamo. Questa conoscenza è stata sempre illuminante per me.
Ci sono quelli che per consolarsi sono capaci di immaginarsi che solo dopo ci sarà una vera vita, adesso è solo una prova e l’importante è rendersi meritevoli. Io non condivido questa idea. A questo proposito vorrei proporre una citazione tratta da Andrzej Wróblewski: “Di una cosa sono certo: dopo la morte non c’è nulla”.
Wróblewski le scrisse che il mondo è ripugnante – anche in questo caso concorda con lui?
Era malato senza speranza di guarigione, non vorrei dilungarmi su questo punto, non ne ho il diritto; era consapevole del fatto che la malattia non lo avrebbe abbandonato e pertanto il suo sguardo sulla vita era pessimista, io invece ero ottimista. Comunque Wróblewski ha esercitato su di me un’influenza decisiva, sebbene fossimo coetanei. Aveva una maggiore esperienza, era riuscito a terminare gli studi di storia dell’arte. Non lavorava, aveva il tempo per pensare e per dipingere. È morto velocemente, ha dipinto solo per dieci anni. Incredibile come si possano creare tante opere in così breve tempo. Quando ho visto la sua Fucilazione ho capito che lui aveva realizzato quello che anch’io avrei voluto realizzare. I miei album – dopo aver lasciato l’Accademia – erano pieni di immagini di pittura astratta e di prove di pittura figurativa. Per dirla in breve: non riuscivo a trovare la mia strada.
E nel cinema le capitava di essere colto da dubbi?
Grazie ai dubbi ero in grado di valutare i miei film. Ce ne sono alcuni che io apprezzo e il pubblico non ama particolarmente.
Per esempio?
Pilato e gli altri. Quel film non ha incontrato il favore del pubblico come avrei voluto; eppure, a mio parere, è uno dei miei film più originali ed espressivi.
Era molto moderno, univa lo sfondo storico alla contemporaneità. Dopo anni anche Derek Jarman ha girato con modalità simili ed è diventato una rivelazione.
È vero. Pilato invece è apparso sugli schermi solo fugacemente, non ha trovato conferma né in Germania, dove è stato prodotto, né in Polonia. Ma non è un film tedesco, tutti gli attori che recitano in quel film sono polacchi.
Pszoniak interpreta Cristo, Kreczmar – Pilato, Olbrychski – Matteo e Zelnik – Giuda…
Gli unici attori tedeschi interpretano i ladroni crocifissi ai lati di Gesù. Tutti gli altri parlano polacco, sono stati doppiati in tedesco.
Nella scena di apertura del film lei intervista un montone che guida le pecore al macello. Gli domanda se sia morale.
Mi sembrava che rappresentasse una situazione politica. La questione per me era che è meglio essere una delle pecore piuttosto che il montone che le porta al macello, perché è il suo mestiere. In questo film c’è molto di personale. Probabilmente in misura persino maggiore rispetto agli altri film. È vero che il racconto è tratto da Il Maestro e Margherita di Bulgakov, ma le immagini, le relazioni tra i personaggi, la contemporaneità sono ricreate da me; ho scritto io la sceneggiatura, mentre di solito lo sceneggiatore dei miei film era qualcun altro.
Perché si è confrontato con il tema di Dio?
Per parte mia, non mi azzarderei a mostrare il racconto evangelico, ma l’opera letteraria di Bulgakov mi dava questo diritto. Il suo romanzo è una rivisitazione del Vangelo, e il Vangelo lo conosciamo tutti, è parte del nostro patrimonio comune. Per me è semplicemente un film sugli esseri umani – sono quelli che sono, a prescindere dall’epoca, dalla realtà spirituale.
Oggi, che cosa le piace guardare, quand’è che batte più forte il cuore del vecchio regista?
Può succedere per motivi diversi. Quando guardo delle immagini, leggo qualcosa oppure sento un racconto di vita e allora penso: ecco, potrebbe essere un inizio magnifico per un film. Non sono mai disinteressato. Purtroppo. Tutto quello che leggo, che vedo, che succede intorno a me, in qualche modo mi serve come materiale per pensare a nuovi progetti, non solo cinematografici o teatrali.
Ci sono molti progetti che non sono riuscito a realizzare durante la mia vita e che sentivo come un dovere. Tra me li chiamavo “doveri rimandati”. A Lodz volevo dare vita a un parco con le sculture di Katarzyna Kobro14; le sculture, ingrandite, avrebbero costituito un confronto magnifico tra cultura e natura, tuttavia non ho trovato appoggi sufficienti. A Gdynia, volevo far emergere dal mare l’aquila di Solidarnosc, che si sarebbe potuta ammirare dalla passeggiata panoramica. Sarebbe rimasta per sempre il simbolo di Gdynia, tutti avrebbero voluto farsi una foto col cellulare con l’aquila sullo sfondo. Ma nemmeno questo progetto è andato in porto: troppo caro, ed è un argomento che capisco. Ho alcune cose del genere…
“Doveri rimandati”– bello, Milosz aveva i “doveri privati”.
Rimandati, però non posso aspettare ancora. Ma sono felice di non dover dimostrare più niente. Felice che sia successo quello che è successo. Magari, va bene così per finire. Ma sì, vorrei avere un bel finale.
Note
1 Riferimento a Powidoki (Immagini residue), l’ultimo film girato da Wajda (uscito nell’ottobre del 2016) su Wladyslaw Strzeminski (1893-1952), pittore e teorico polacco dell’avanguardia.
2 Mieczyslaw Moczar (1913-1986), dirigente comunista polacco, conosciuto per le sue posizioni ultranazionaliste, xenofobe e antisemite.
3 Wajda, qui e più avanti, utilizza l’acronimo della denominazione ufficiale: Prl, Repubblica Popolare Polacca.
4 Jan Matejko (1838-1893), pittore polacco, famoso per i dipinti raffiguranti personaggi storici e scene di battaglia.
5 Czeslaw Kiszczak (1925-2015), politico e militare polacco, capo dei servizi segreti e Ministro degli Interni tra il 1981 e il 1990.
6 “Legione polacca” è stato il nome di diverse formazioni militari create dal XVIII al XX secolo. Queste legioni vennero create principalmente all’estero da volontari polacchi e il loro compito era soprattutto di aiutare la liberazione della Polonia, all’epoca sotto dominazione straniera.
7 Edward Rydz-Smigly (1886-1941), politico, militare polacco. Maresciallo di Polonia dal 1936 e Comandante in Capo delle forze armate dal 1939.
8 Bereza Kartuska, campo di “Isolamento”, istituito dal presidente polacco Ignacy Moscicki tra il 1934 e il 1939 per la detenzione di coloro che erano considerati una “minaccia per la sicurezza, la pace e l’ordine sociale” del governo nazionalista.
9 Citazione tratta da Le nozze (diretto da Wajda nel 1972), trasposizione cinematografica dell’omonimo dramma in versi di Stanislaw Wyspianski (pubblicato nel 1901). Si riferisce a una scena altamente simbolica: il corno d’oro che il giovane contadino avrebbe dovuto suonare doveva incitare il popolo polacco all’insurrezione contro l’Impero austroungarico che occupava all’epoca la Galizia. Ma, attardandosi a raccogliere il suo berretto piumato, il contadinello si dimentica di suonarlo.
10 Museo dell’arte e della tecnologia giapponese “Manggha”. Nel 1920 il critico, scrittore e collezionista d’arte Feliks Jasienski donò la propria collezione di oggetti d’arte giapponese al Museo Nazionale di Cracovia. La sua collezione, per motivi di spazio, non fu mai esposta, se non in un’unica occasione, nel 1944, quando i tedeschi ne organizzarono l’esposizione. Il giovane Andrzej Wajda fu uno degli spettatori e, rimastone affascinato per tutta la vita, dopo aver ricevuto un riconoscimento a Kyoto decise di finanziare la costruzione di un edificio atto a ospitare le opere d’arte. Il nuovo edificio, disegnato da Arata Isozaki e inaugurato il 30 novembre 1994, ospita sia mostre temporanee che un’esposizione permanente.
11 Durante l’occupazione nazista della Polonia, nei cinema funzionanti si davano praticamente solo film tedeschi che esaltavano il popolo e le conquiste della Germania; pertanto con questa frase si stigmatizzavano quelle persone che, nonostante la situazione, andavano comunque al cinema.
12 Andrzej Wróblewski (1927-1957), pittore, storico e critico d’arte polacco. Più avanti Wajda fa riferimento al suo straordinario ciclo di dipinti dal titolo Fucilazioni (1948-1949).
13 Jacek Malczewski (1854-1929), uno dei più celebri pittori del simbolismo polacco.
14 Katarzyna Kobro (1898-1951), scultrice polacca legata all’avanguardia. È stata la moglie di Strzeminski.