Immaginario (poco) al potere. I limiti storici della letteratura per l’infanzia

In attesa della prossima edizione della Bologna Children’s Bookfair, che rimane la principale occasione mondiale per analizzare gli sviluppi e le trasformazioni del settore della letteratura per ragazzi, pubblichiamo qui alcuni stralci del volume di Jacqueline Held, Immaginario al potere. Infanzia e letteratura fantastica, pubblicato in Francia nel 1977, prontamente tradotto da Armando Editore nel 1978 e mai più ristampato. La Held, nata nel 1936, è una decana della letteratura per l’infanzia francese, autrice di questo e un altro saggio (L’enfant, le livre et l’écrivain, 1984) e di numerosi albi e libri per bambini a partire dagli anni Settanta fino al primo decennio del nuovo millennio.
All’uscita di questo saggio la letteratura per l’infanzia stava vivendo una stagione di estremo interesse e rinnovamento grazie alla felice congiunzione di una nuova sensibilità e pratica pedagogica, di un diverso orizzonte visivo dell’illustrazione (che si faceva forte della rivoluzione della pop art, della cultura surrealista-psichedelica mediata da Heinz Edelman con il suo Yellow Submarine, delle rivoluzioni grafiche provenienti dagli Stati Uniti con il Push Pin Studio di Milton Glaser e Seymour Chwast), della coraggiosa produzione di alcuni editori (la svizzera Diogenes, la nostra Emme Edizioni, la Harlin Quist che operava tra Francia e America, L’École des Loisirs in Francia, le tedesche Ellerman Verlag e Middelhauve Verlag).
Eppure, pur in un contesto apparentemente così favorevole, Jacqueline Held denuncia in questo volume l’estrema arretratezza dell’immaginario e della scuola francese nel considerare il valore e le possibilità espressive della letteratura per l’infanzia. Il fondamento di partenza è una strenua difesa del fantastico, sempre visto con sospetto e preoccupazione per i turbamenti ipotetici che poteva provocare in giovani lettori e lettrici e per la sua presunta vocazione all’evasione, decisamente meno “educativa” della tradizione realista volta ora al racconto della quotidianità ora a un’introduzione delle problematiche della società contemporanea. Al contrario l’autrice sostiene la piena valenza pedagogica – se non il primato – di una letteratura che con le sue storie costruisce alternative ed educa a una visione relativistica della realtà, allo stesso modo di un approccio comico o di tutte quelle forme che hanno nel gioco e nell’elaborazione di una nuova lingua la loro ragion d’essere.
Veri bersagli dell’accusa di Immaginario al potere diventano tutti quei benpensanti e pedagoghi che, con il pretesto ipocrita di proteggere ed educare l’infanzia, in realtà nascondono due malcelate convinzioni: che i bambini e le bambine non siano in realtà abbastanza “intelligenti” per comprendere e godere di tutto ciò che vive del paradosso, del ribaltamento, dell’allusione, ed è per questo meglio instradarli su una visione normativa del racconto e del reale; che la letteratura per l’infanzia non debba prima di tutto essere opera d’arte, avere cioè fondamento nel suo valore estetico ed espressivo, ma in una funzionalità che facilmente scade nel didascalismo. Sono questioni che purtroppo conservano una grande attualità e si potrebbero riproporre oggi a commentare una produzione editoriale che è cresciuta enormemente sul piano quantitativo ma è forse ancor più condizionata da una cautela inquinata dal politicamente corretto e da un’ossessione per i “temi importanti” della contemporaneità, proposti il più delle volte senza la capacità di immergerli nel simbolo, nel mito, della fiaba, humus autentico delle più grandi storie per l’infanzia. (Emilio Varrà)
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Perché spaventarsi se il bambino sogna e gioca? Prova le sue nuove forze. Esercita l’immaginazione come esercita i muscoli, scopre e costruisce poco a poco i meccanismi logici. Ma, di fronte a questo gioco dell’immaginario, l’adulto è facilmente inquieto, diffidente, sulla difensiva. Ammette taluni processi dell’immaginazione e della fabulazione perché antichi, socializzati, divenuti ormai classici, e costituiscono ora attività sociali riconosciute e catalogate.
Tutti sanno che il bambino attraversa ineluttabilmente un lungo periodo di “gioco simbolico”, e nessuno si meraviglia di vederlo giocare alla bambola, a far da mangiare, al negozio, al cavaliere, alla guerra. Eppure il bambino è in piena fabulazione: parla a un cavallo… che è un manico di scopa e usa, come soldi, i sassi. Henri Wallon ci descrive, a questo proposito, con molta perspicacia, con molto spirito e con precisione il pranzo della bambola e la situazione spirituale che regola e domina il gioco: “Il bambino che gioca al pranzo… sa bene che è in piena finzione, ed è la finzione che lo fa saltare di gioia quando l’adulto accetta di entrare nel gioco e di prendere per un pezzo di crostata il pezzo di carta che gli viene offerto”. Effettivamente l’adulto, a meno che occupazioni e preoccupazioni non glielo vietino, volentieri si lascia coinvolgere…
Perché non ci si meraviglia e non ci si adonta? Perché tali giochi sono classici, “riconosciuti”, perciò integrati nella società, ossia legalizzati e resi redditizi dalla costruzione di giocattoli adeguati, ma anche perché sono integrati, con funzione di preparazione a un ruolo effettivo e pratico. L’adulto s’intenerisce perché il gioco del pranzo fa parte di un repertorio, è utile e perciò rassicurante.
Vedere invece il bambino sognare “gratuitamente”, fuori delle norme, per puro piacere, è sempre per molti adulti più “disturbante”, anche se non sanno l’origine della loro inquietudine. Il sognatore che si allontana dai sentieri battuti, che diserta i sogni autorizzati per imboccare strade diverse, non è e non sarà un individuo redditizio. Si avrà difficoltà a farne un adulto serio. Peggio, non è prevedibile, non è definibile e perciò stesso rappresenta per la società un pericolo in potenza. Riteniamo che questo sia uno dei motivi fondamentali della diffidenza nei confronti del racconto, del dispiacere che taluni provano nel vedere il bambino prolungare la sua fase sognante e fantasticamente creativa. Capiterà per esempio – e parliamo per esperienza – di incontrare un educatore che, davanti a uno scritto di bambino zeppo di stramberie e di invenzioni, dica ingenuamente ai genitori: “L’immaginazione, sapete, è pericolosa!”. Pericolosa per chi? Sogni pure, si dice, il bambino, ma il suo sogno sia controllabile e normalizzabile.
Ritorneremo su questo problema. L’immaginazione, come d’altronde l’intelligenza o la sensibilità, o si coltiva o si atrofizza. Pensiamo che l’immaginazione del bambino debba essere nutrita, che debba esistere – senza cadere in ricette – una pedagogia dell’immaginazione, che, anzi, una tale pedagogia si vada già delineando (molte reazioni e testi di bambini comunicatici da molti nostri amici insegnanti, e che noi qui citiamo, lo testimoniano). Bisognerebbe solamente incrementarla. (…)
Come il neonato, che in un primo momento grida per bisogno, scopre ben presto che la sua voce è un mezzo di pressione sull’ambiente, così il bambino che dapprima ha animato la natura e fantasticato ingenuamente, scopre molto presto, in maniera del tutto intuitiva, che tale attitudine gli permette di distrarsi, di costruirsi una piccola cittadella, o di punzecchiarci.
Così il bambino talvolta inventa “contro noi” e con la volontà di ingannarci. La colpa è nostra, spesso. Se noi partecipiamo al gioco “selvaggio” con la stessa naturalezza con cui partecipiamo al gioco del pranzo, egli non ci chiede di meglio che renderci complici. Ci dimostra in mille modi che gioca e sa di giocare.
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La diffidenza tenace che incontra spesso il fantastico, in molti educatori soprattutto, deriva dal suo dualismo: il racconto ha avuto in ogni tempo (lo sottolinea Tolkien) il compito di rispondere al desiderio fondamentale dell’uomo. Espressione e prolungamento del desiderio umano, risposta a questo desiderio, il racconto fantastico presenta incontestabilmente un aspetto compensativo. È una valvola di sicurezza. Quando l’uomo soffre troppo, evade, sogna. Si sarebbe allora tentati di non vedere che un solo aspetto possibile del racconto: la soddisfazione simbolica dei nostri desideri impedirebbe all’uomo di agire, di cercare oltre, di lottare, di inventare l’avvenire. Opposizione classica, tanto spesso sviluppata da Alain, tra desiderio che sogna e volontà che trasforma. Si avrebbe così il “racconto-oppio”…
Osserviamo tuttavia e in primo luogo che l’evasione facile non è certo appannaggio del fantastico. Tutt’altro. Nell’epoca attuale, i racconti sentimentali per “bambino-fiore-fragile”, i romanzi pseudo-realisti con leggera tinta erotica abilmente dosata, certo tipo di foto-romanzo che termina sempre col matrimonio del principale con la dattilografa, adempiono molto bene al ruolo di valvola di scarico se ci riferiamo agli adulti. La stessa cosa avviene nel campo infantile con talune serie in cui trionfa la convenzione di un mondo asettico e di bambini stile “super-man”. Non ci troviamo, in tutti questi casi, di fronte a opere che abbiano a che fare col fantastico, ma piuttosto, ripetiamolo, di fronte a opere bassamente e falsamente realistiche.
Inversamente, il mito del “fantastico-oppio” può essere ribaltato: come il dio Giano, come il desiderio che l’ha generato, il mito ha due facce. “L’umanità, scriveva Karl Marx, non si pone mai che i problemi che può risolvere”. Questi problemi l’umanità se li pone dapprima mediante il sogno. È un primo passo necessario. Non sorprende che molte invenzioni scientifiche e tecniche del nostro tempo abbiano in un primo momento rivestito, come abbiamo rilevato esaminando il rapporto tra il fantastico e la fantascienza, la forma mitica delle leggende. “Così le forme più moderne della conoscenza, osservano Jacqueline e Raoul Dubois, raggiungono le forme più primitive (…) perché (…) il racconto testimonia della ricerca ostinata della felicità, della gioia profonda di essere, di vivere, di combattere, di lottare contro tutti gli ostacoli, di conquistarsi la propria vita, di vincere le potenze delle tenebre”. A forza di sognare, tanto si desidera che si inventa. Il desiderio, non dimentichiamolo, è uno dei fattori del progresso. Parimenti i miti che ne derivano. L’uomo inventa, crea, scopre, precisamente perché è insoddisfatto e sogna. Ciò che faceva dire a Paul Valéry: “I miti sono l’anima delle nostre azioni (…). Non possiamo agire se non movendoci verso un fantasma”. Sogno, motore costante del reale…
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È un problema pedagogico cruciale quello di una definizione valida, soddisfacente, dell’“efficacia”. Perché viviamo in seno a una società dominata non solo dalla nozione di “rendimento”, ma di un rendimento a breve termine, di un rendimento immediatamente tangibile e valutabile… È difficile evitare che la mentalità di molti insegnanti non venga più o meno contaminata da questo tipo di idea dominante. Ogni educatore vive attualmente in un clima ove è fortemente sollecitato da ogni parte a ottenere risultati rapidi e visibili.
Una tale situazione tanto più è gravida di conseguenze quanto più i dati attuali della psicologia del bambino, l’osservazione concreta e personale che ognuno di noi può fare, e la riflessione filosofica e sociologica ci dimostrano fino a qual punto la formazione umana e culturale del bambino avvenga per processi di maturazione lenti, sotterranei, apparentemente capricciosi, che non danno pienamente i loro frutti se non a lunga scadenza. Tale situazione arreca pregiudizio a quel vasto campo della letteratura costituito dalla poesia e dal fantastico.
Siccome tutto deve essere in ogni momento controllabile e misurabile, molti insegnanti si sforzeranno in tutta buona fede di formare “l’alunno modello”, ingranaggio ben oleato di un certo sistema, elemento colato nello stampo, il tradizionale “forte in tema” – anche se il “tema” in questione, inteso nel senso più vasto e simbolico, s’è trovato leggermente e superficialmente modernizzato –, il soggetto (o l’oggetto?) atto a dare soddisfazione agli esami e nelle prove cui la società lo sottopone. Il ragazzo o l’adolescente sarà capace di restituire al momento voluto un insieme di conoscenze e di regole, sarà adatto alla ginnastica intellettuale a comando che da lui ci si aspetta. Le conoscenze “misurate” in occasione delle prove scolastiche saranno fissate intelligentemente e durevolmente? Ci sarà stata vera interiorizzazione e avvio d’una riflessione critica e personale, un aprirsi globale di tutta la personalità? Questo è un altro discorso. È peraltro sempre più evidente che acquisizioni avvenute senza vero interesse da parte del bambino, senza che egli si sia sentito implicato appassionatamente, non lasciano tracce durature.
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In una prospettiva di rendimento immediato e di stretto utilitarismo si ammette, in realtà, che accanto al manuale scolastico “serio” trovi posto il documentario. Perché “il documentario, almeno, apporta “vere” conoscenze, sia che si tratti di storia che di geografia, di scienze fisiche o naturali, di tecnologia”… Delle conoscenze “misurabili”. Si ammette anche, a rigore, che si introduca in classe il romanzo detto realista. Ciò per molte ragioni convergenti.
Se la storia si svolge in un’altra epoca o in un altro paese, il bambino, “senza accorgersene”, e per vie traverse, immagazzinerà dati storici e geografici: beneficio ineffabile dell’olio di ricino mescolato con la marmellata.
Non sarà inoltre necessario cercare troppo per riconoscere al romanzo realista delle virtù “morali”: insegnerà ad amare e a comprendere meglio l’uomo e il bambino di altri luoghi e di altri tempi. Non ci si inganni: non si tratta qui di negare o di rigettare questo tipo di possibile arricchimento. Notiamo semplicemente, di passaggio, che l’antirazzismo di una storia fantastica, di un racconto filosofico o- di una poesia, soprattutto se assume forma umoristica o di gioco linguistico, sarà generalmente molto meno avvertito, magari ignorato, da molti educatori.
Ci sono ancora biblioteche in cui si invita il lettore che non sceglie che opere di “immaginazione”, perciò dette di “divertimento”, a prendere anche un’opera documentaristica. Ma nessuno, per quanto noi ne sappiamo, ha visto lo stesso adulto consigliare a un bambino confuso dai libri di documentazione di scegliere anche una raccolta di poesie o di racconti. Si risponderà che esistono, come d’altronde tutti sanno, miriadi di romanzi di serie che rispondono a degli imperativi puramente commerciali e che nulla di positivo apportano al bambino. Va bene. Ciò nondimeno usare la regola stabilita in maniera puramente unilaterale sembra sottintendere la seguente affermazione. “Ci sono dei libri di “fantasia” buoni o cattivi, ma i documentari sono tutti buoni”. Tipo di postulato che chiaramente rivela che la preoccupazione di informare, di istruire nel senso scolastico del termine è molto maggiore di quella di nutrire la sensibilità e l’immaginazione del bambino.
Ora è molto importante ripetere che il fantastico autentico, poiché si radica sempre in un certo reale, in una esperienza umana particolare senza la quale nessuna creazione sarebbe possibile, documenta il bambino nel senso più pieno e più vasto del termine, gli apporta degli elementi, degli spunti per la riflessione personale. Già riflettendo sullo sviluppo di un atteggiamento critico nel bambino ci siamo sforzati di dimostrare che razionalità ed elaborazione fantastica non sono antinomici, almeno quanto non sono veramente opposti e distinti “immaginario” e “reale”. (…) Così come è poco riconosciuto il valore eminentemente formativo di questa forma di distacco che è lo humour. Disconoscimento che, nell’uno e nell’altro caso, si fonda su uno stesso fatto, un disprezzo larvato del bambino, quand’anche tale disprezzo resti incosciente e si accompagni al bisogno di una vernice di pseudo-sollecitudine.
Se la distinzione “libro serio” “libro divertente”, pur essendo in un certo modo sempre esistita, nella nostra epoca, come osserva Anthony Parker White, s’è trovata rinforzata in seguito a un processo di commercializzazione, è in ogni caso certo che una tale distinzione avviene, più che altrove, nel campo del libro per ragazzi, e ciò con delle conseguenze del tutto disastrose.
È di fatti correntemente ammesso che bisogna chinarsi sul bambino per “edificarlo” ed “istruirlo”. “Edificare” ed “istruire” essendo utilizzati nel senso più stretto e limitativo, ne discende che il discorso morale o “intellettuale” è comunque pensato come quello che debba essere immediatamente accessibile e chiaro, perciò “primario” nel senso peggiore del termine, essendo lo sventurato bambino “troppo rozzo” per capire tutte le forme di allusione, tutte le forme di critica sottile o qualunque tipo di discorso che si svolga “al secondo grado”. Questo “pedagogismo” elementare – deformazione della vera pedagogia come lo scientismo è una deformazione del vero atteggiamento dello scienziato – è carico di conseguenze: spinge prestissimo l’insegnante a privilegiare una pseudoletteratura semplicista e moralizzante, a fare del libro per ragazzi un “paramanuale”, il che può anche trascinarsi dietro qualche forma di pressione sull’autore affinché scriva in questo tipo di registro. Ora trattare cosi il bambino come un sottosviluppato è un atteggiamento perfettamente incompatibile con la rivendicazione alla letteratura giovanile dello statuto di letteratura autentica allo stesso titolo.