Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Immaginare i pirati

Illustrazione di David Marchetti
21 Luglio 2020
Niccolò De Mojana

Se ami, come anch’io ho amato,

le antiche storie di mare, le tempeste, 

le avventure, i calori e i geli, le golette, 

le isole e i marinai abbandonati,

i bucanieri e i tesori sepolti…

allora, non esitare

e vai avanti!

Altrimenti, lascia che,

in compagnia di tutti i miei pirati,

divida la tomba

dove giacciono gli antichi scrittori

insieme ai loro sogni.

(Al lettore indeciso, Robert Louis Stevenson)

Il rischio di morte per i pirati del XVIII secolo non costituiva un deterrente. Tra le poche testimonianze dirette di quell’epoca è nota la frase di Bartholomew Roberts, uno dei più celebri capitani pirata di tutti tempi:

“Cibo scarso, paga bassa e lavoro duro; ma qui da noi c’è abbondanza e sazietà, piacere, libertà e potere; e chi non sceglierebbe di riscuotere il proprio credito da questa parte, quando il rischio che si corre, al peggio, è soltanto lo sguardo incarognito di un paio di persone mentre mi impiccano. No, vita felice e corta, ecco il mio motto”

Il duro lavoro a cui Black Bart Roberts fa riferimento è quello che i marinai erano obbligati a sopportare a bordo dei mercantili militari inglesi, francesi e spagnoli. Una vita di sfruttamento e pericoli, priva di un reale tornaconto economico, alla quale non era possibile ribellarsi se non, appunto, scegliendo l’ammutinamento. Una scelta che quasi sempre conduceva nel giro di pochi anni alla forca o alla fuga eppure, nonostante questo, abbracciata in quegli anni da diverse centinaia di uomini (e si dice anche da due donne).

“Il luogo di lavoro del marinaio, il veliero d’alto mare, era una specie di fabbrica di quei tempi” scrive Marcus Rediker, il più autorevole storico della pirateria contemporaneo – un luogo dove le “maestranze” (cioè coloro che non possedevano beni immobili e dovevano quindi vendere il proprio lavoro per un salario) cooperavano per far funzionare la macchina. Manovrando queste piccole, fragili, navi di legno sui difficili oceani del globo, l’uomo di mare partecipava a una grande esperienza di lavoro collettivo, che richiedeva una cooperazione attentamente sincronizzata con altri operatori marittimi per necessità di sopravvivenza. Di fronte a un capitano dal potere disciplinare quasi illimitato e propenso all’uso frequente del gatto-a-nove-code, il marinaio sviluppava un complesso di resistenze contro tale concentrazione di autorità: diserzione, sospensione del lavoro, ammutinamento e sciopero”.

La ribellione alle autorità, con tutti i rischi che comportava, era l’unica forma di riscatto sociale percorribile. Eppure è necessario sfatare fin da ora una delle tante dicerie sui pirati: pochissimi di loro avevano la possibilità di arricchirsi grazie alle scorribande e alle ruberie. Tanto per cominciare, il bottino doveva essere spartito in maniera equa tra l’equipaggio e veniva speso quasi interamente durante la prima sosta a terra, tra locande malfamate e bordelli. Il frutto delle rapine non costituiva altro che quello di cui la ciurma aveva bisogno per proseguire la propria navigazione: stoffa, legname, munizioni, provviste. Obiettivo degli assalti non era tanto la ricchezza fine a se stessa (dove avrebbero potuto godersela, ricercati com’erano da eserciti di mezzo mondo?), quanto la possibilità di guadagnarsi da vivere al di fuori dalla nave-fabbrica.

Non sorprende quindi, leggendo i verbali dei processi dell’epoca, scoprire che i prigionieri sceglievano spesso e volentieri di unirsi agli equipaggi dei loro stessi assalitori. Leggiamo così che il capitano Samuel Bellamy (noto come “il Principe dei pirati” per la sua generosità nei confronti dei prigionieri, morì a 29 anni ma fece in tempo a impadronirsi di oltre cinquanta navi) “non forzava alcuno ad andare con loro, e diceva che non avrebbe preso alcuno contro la sua volontà”. In tribunale, un testimone affermò addirittura che “era costume tra i pirati non forzare i prigionieri, ma quelli che rimanevano con loro erano volontari”.

Comunità galleggianti

Dal momento che subire un arrembaggio poteva trasformarsi in un’occasione di liberazione (sia per i marinai che per gli schiavi sottocoperta, i quali non aspettavano altro che essere sciolti dai ceppi), è facile intuire la rapidità con cui si diffuse la rivolta. Le comunità di ammutinati, all’inizio annidate tra le isole dei Caraibi, si estesero fino alle coste dell’Africa occidentale. Come ha raccontato bene lo storico anarchico Hakim Bey, il teorico delle Taz – Zone temporaneamente autonome – nel XVII secolo si sviluppò nei pressi dell’attuale Rabat, in Marocco, la Repubblica corsara di Salé, probabilmente la forma politica più evoluta di congregazione fuorilegge degli ultimi secoli, composta da europei che si convertivano all’Islam e da pirati musulmani provenienti dal Nord Africa.

Oltre a Bey, chiunque oggi abbia intenzione di capire come si strutturava la vita dei nomadi del mare non potrà fare a meno di leggere i libri e gli studi dedicati all’argomento da Marcus Rediker. Professore americano, teorico di uno sguardo che ricostruisce dal basso le condizioni di vita dei lavoratori tra le coste dell’Atlantico all’epoca della nascita del sistema capitalista globale, Rediker ha ricostruito con grande precisione storica e sociologica le vicende di queste bande di anarchici armati provenienti in gran parte da Inghilterra e Francia, animati da una profonda vocazione cosmopolita. “Nel cucire la loro bandiera nera, simbolo anti-nazionale di una banda di fuorilegge proletari” scrive Rediker “dichiaravano Guerra a tutto il Mondo. Quando incrociavano un’altra nave, i pirati, che erano di origine multinazionale, in genere rispondevano ai saluti dicendo che venivano ‘al mare’, non da uno specifico Paese”.

Rediker è autore di numerosi saggi e ricerche storiche che hanno il merito di offrire una prospettiva radicale inedita sulla nascita del sistema di scambi commerciali che ha dato origine al capitalismo moderno. Ci limitiamo a citare qui I ribelli dell’Atlantico. Storia perduta di un’utopia libertaria (Feltrinelli 2004) scritto insieme al collega Peter Linebaugh, approfondito excursus storico dedicato alla nascita dei movimenti che animarono la lotta di classe tra le due sponde dell’Oceano tra Cinquecento e Settecento; Canaglie di tutto il mondo, pubblicato di recente in una nuova edizione da elèuthera, esposizione dettagliata dello stile di vita dei più celebri pirati e della loro capacità di sovvertire i dogmi sociali riguardanti la razza, il sesso, la classe e la nazionalità; e il suo ultimo lavoro dedicato alla singolarissima figura di Benjamin Lay, quacchero antinomiano vissuto nel XVIII secolo in Gran Bretagna, tra i primi in assoluto a condurre una grande battaglia culturale contro lo schiavismo.

Tra i tanti studi nati grazie alle ricerche di Rediker, non si può non menzionare La vita all’ombra del Jolly Roger di Gabriel Khun (elèuthera 2015), dove l’analisi storica radicale si accompagna a uno sguardo filosofico filtrato attraverso Nietzsche, Foucault e Deleuze e la pirateria viene considerata una delle prime forme di società clandestine a sperimentare forme di democrazia diretta ed egualitaria.

Khun è perfettamente consapevole dei rischi che l’estetizzazione romantica della pirateria porta con sé, a cominciare dall’idealizzazione di un passato “mitico” trasformato dal mercato in un prodotto dell’immaginario con il solo scopo di fornire “una valvola di sfogo alle pressioni poste sugli individui dalle imposizioni della morale borghese”. Nonostante questi rischi, la tesi dell’autore è che tutto sommato vale la pena chiedersi cosa quella storia può insegnarci oggi da un punto di vista politico, chiedendosi quali spunti gli attivisti contemporanei possano trarre dall’esperienza della pirateria, con l’auspicio di aprire una strada a nuove esperienze di comunità non autoritarie ed egualitarie.

Quando il sistema capitalista globale prende forma, è la tesi dei nostri storici, grazie all’apertura del commercio atlantico con le colonie (quel punto di svolta di cui parla Carl Schmitt nell’illuminante “Terra e Mare”, 1942), con esso nasce anche – per reazione – un sentimento di rivolta da parte delle grandi masse popolari dei porti inglesi, francesi, portoghesi, olandesi. Ed è proprio la sconfitta del capitano Roberts e il conseguente sradicamento della pirateria dalla costa africana a rappresentare una svolta per la tratta degli schiavi e, a un livello più ampio, per la storia del capitalismo. Solo dopo la soppressione della pirateria, la Gran Bretagna potrà consolidare il proprio dominio in Africa e diventare la principale nazione schiavista del mondo atlantico, posizione che ha mantenuto fino al diciannovesimo secolo.

La storia di questo ammutinamento di massa è fulminea e straordinariamente intensa. I periodi che costituiscono la cosiddetta “epoca d’oro della pirateria” sono essenzialmente tre durante i quali, scrive Rediker, si succedono tre generazioni distinte di ribelli del mare:

“I bucanieri degli anni 1650-80, per lo più protestanti, provenienti da Inghilterra, Francia settentrionale e Olanda, che cacciavano la selvaggina sulle isole deserte e attaccavano le navi della Spagna cattolica, ben esemplificati dal temibile Henry Morgan; i pirati degli anni Novanta, la generazione di Henry Avery e William Kidd, che si erano spostati nell’Oceano Indiano stabilendo le loro basi in Madagascar; e infine i pirati degli anni 1716-1726, che sono stati i più numerosi e quelli che hanno riscosso il maggior numero di successi. Rappresentati da personaggi come Edward Teach e Bartholomew Roberts, attaccavano le navi di tutte le nazionalità riuscendo a mettere in crisi il lucrativo sistema commerciale atlantico. Sono loro che hanno dato origine alla maggior parte delle immagini di pirati che continuano a vivere nella cultura popolare”.

Storia generale dei pirati

Esistono innumerevoli storie e leggende sui pirati, molte di esse nacquero durante lo stesso periodo in cui i più importanti capitani erano ancora in circolazione. La fonte primaria di tutti gli storici è ancora oggi un formidabile libro intitolato A General History of the Robberies and Murders of the Most Notorious Pyrates (in italiano tradotto come Storia generale dei pirati), pubblicato nel 1724 a Londra e firmato da un certo Capitano Johnson (si dice che dietro lo pseudonimo dell’autore si nasconda niente meno che Daniel Defoe, ma questa ipotesi non è mai stato provata). L’almanacco di Johnson-Defoe racconta nei minimi dettagli la vita, le vittorie e le sconfitte di venti tra i principali capitani del diciassettesimo secolo.

Per esempio racconta di Henry Avery, noto come il “Re dei Pirati”: navigando con la sua nave bene armata nell’Oceano Indiano, Avery nel 1695 si impadronì del più grande carico d’oro mai ottenuto da un pirata. Grazie a un po’ di fortuna e tanto sprezzo del pericolo, prese d’assalto niente meno che la nave del Gran Mogol, sottraendo tutto il carico e portando con sé anche la figlia del sovrano (poi sposata sulle coste del Madagascar, dove i bucanieri trovavano rifugio). Accusato il colpo, il Gran Mogol se la prese direttamente con il governo inglese, minacciando immediatamente di sequestrare tutti beni della Compagnia delle Indie per rifarsi delle perdite. Londra si rese conto in quel momento che i pirati erano diventati un problema serio e mise una taglia altissima su Avery, il quale però non fu mai scovato.

Leggendo Johnson-Defoe veniamo a conoscenza di una delle figure più nobili e democratiche dell’epoca, il capitano Edward England, il quale – racconta il misterioso autore – propose di attaccare con la sua nave il centro portoghese di Goa, sulla costa occidentale dell’India, ma “i suoi uomini, riunito il consiglio, non riuscendo a trovare un accordo, continuarono in direzione sud”. Viene così messa nero su bianco una delle regole base della pirateria: il potere decisionale del consiglio dell’equipaggio era maggiore di quello dello stesso capitano. Le scelte strategiche più importanti, come attaccare o meno una nave, venivano sempre discusse e messe ai voti. E se la maggioranza optava per una decisione diversa da quella del capitano, quest’ultimo doveva adeguarsi oppure farsi da parte!

Ma la storia più affascinante del libro è certamente quella del Capitano Oliver Misson e della leggendaria comunità anarchica chiamata Libertalia (ripresa e citata per secoli, nel Novecento la ritroviamo in Schmitt e in un meraviglioso racconto lisergico di William Burroughs: La febbre del ragno rosso). Misson, di origini francesi e altolocate, dopo aver compiuto gli studi ed essersi imbarcato come ufficiale, decise di issare la bandiera nera con un gruppo di sodali al largo nell’Oceano Atlantico. Dopo diversi assalti, trovò rifugio in una baia all’estremità settentrionale del Madagascar, dove costruì una fortezza insieme ad altre centinaia di persone, tra marinai disertori e schiavi liberati. Lì, al fianco del capitano inglese Thomas Tew, formulò una serie di articoli pacifici e democratici per regolare la vita della colonia, principi che anticipavano di decenni quelli poi sostenuti dalla rivoluzione francese e americana: abolizione della pena capitale, della schiavitù e della prigionia per debiti, piena tolleranza verso qualunque credo religioso e costume sessuale, nessuna discriminazione razziale. La storia non ha però un lieto fine. Secondo Johnson-Defoe, gli indigeni malgasci approfittarono di un momento in cui l’enclave era poco difesa e attaccarono, uccidendo uomini, donne e bambini. Tuttavia, Misson e Tew riuscirono a fuggire con altri pirati portando con sé oro e diamanti e decisi a far rotta verso le Bahamas. “Tuttavia non ci riuscirono. La loro barca fece naufragio durante una grande tempesta e tutti gli uomini andarono dispersi”.

Con il passare del tempo, dopo l’uscita del volume di Johnson, la figura di Libertalia ha assunto i contorni della leggenda. Eppure, anche volendo ammettere la sua inconsistenza storica, è necessario rendere merito alle conseguenze che questa storia ebbe nei decenni successivi. Scrive Rediker: “Libertalia era un’espressione fittizia di tradizioni, pratiche e sogni viventi di una classe lavoratrice atlantica, molti dei quali osservati, sintetizzati e tradotti in un discorso dall’autore di Storia generale dei pirati. Libertalia aveva basi oggettive nei fatti storici: era un mosaico assemblato a partire dalle specifiche pratiche utopiche della nave pirata dei primi del diciottesimo secolo”.

Dalla forca al mondo delle fiabe

Oggi, ovvero trecento anni dopo la morte in battaglia del Capitano Roberts, la storia della pirateria costituisce, come sappiamo, un fenomeno di costume di interesse folcloristico e nella maggior parte dei casi un oggetto di consumo totalmente depotenziato della sua originaria carica sovversiva. La figura del “pirata” rappresenta una sorta di etichetta da apporre a prodotti in scatola o a film di avventura per il grande pubblico.

Si potrebbe datare l’inizio della trasformazione romantica della figura del pirata a partire dal 1883, anno in cui viene pubblicato il capolavoro di Robert Louis Stevenson L’isola del tesoro. Da quel momento in avanti, la figura del bucaniere inizia ad assumere i tratti di un archetipo narrativo, idealizzato successivamente da J.M. Barrie con la saga di Peter Pan (1902) e in Italia dal nostro Salgari. Ci ha pensato poi Hollywood a fissare lo stereotipo che conosciamo oggi, prima con i film di Errol Flynn e poco dopo con l’animazione disneyana.

Che questa deriva commerciale oggi non stupisca nessuno, è assolutamente comprensibile. Come racconta bene Mark Fisher, l’industria del consumo culturale è in grado di trasformare qualunque fenomeno di ribellione e protesta in atteggiamenti e mode cool da esibire all’interno del mercato dell’intrattenimento: la rivolta è parte integrante del sistema, lo sostiene come sua reazione naturale.

Ciò che oggi meriterebbe una riflessione approfondita non sono allora le reali vicende della pirateria (per quanto presentino aspetti sorprendenti e romanzeschi degni di interesse) quanto le modalità attraverso le quali la più clamorosa rivolta contro il nascente sistema capitalista globale, ovvero la prima vera opposizione armata allo sfruttamento e allo schiavismo, sia stata sconfitta. Capire perché il rischio di morte non costituisse un deterrente per coloro che si ribellavano, ma era al contrario preferibile a una vita di sfruttamento e miseria, potrebbe gettare una luce sul nostro senso di impotenza e aprire a uno sguardo genealogico destabilizzante.

Oggi, direbbe Furio Jesi, agisce una “macchina mitologica” in grado di trasfigurare in senso romantico un ideale di ribellione e asservirlo a una logica puramente spettacolare. Ma è ancora possibile attuare uno decostruzione politica che non sia solo nozionismo erudito? Vale la pena ricordare che dobbiamo ai marinai inglesi la nascita delle pratiche di sciopero: furono loro, a Londra nel 1768, durante una disputa salariale, ad andare di nave in nave abbassando (“striking”, nel gergo nautico inglese) le vele come mezzo di pressione sui proprietari dei mercantili al fine di ottenere soddisfazione alle proprie richieste. Tornare a comprendere le motivazioni che spingevano quegli uomini a rivoltarsi si pone allora non come un futile passatempo storicistico ma come un’occasione di discussione sul nostro presente, in un tempo in cui sfruttamento e disuguaglianze non sono certo state debellate. Di fronte ai tanti pericoli che dovettero affrontare in quel tempo, dalla scarsità di cibo al rigido sistema di gerarchie, i marinai impararono l’importanza dell’uguaglianza e le loro dure esperienze offrirono l’occasione per capire che la distribuzione delle ricchezze e delle fatiche avrebbe migliorato le condizioni di vita di ognuno.

Il capitano Charles Bellamy una volta disse a un capitano fatto prigioniero: “Dannazione a voi, non siete che un vile cucciolo di cane, e così sono tutti quelli che accettano di essere governati dalle Leggi che i Ricchi hanno fatto per la loro propria Sicurezza. Ci trattano da delinquenti, le Carogne, quando non c’è che una differenza, loro rubano ai Poveri con la copertura della Legge, sissignore, e noi prendiamo ai Ricchi con la protezione del nostro Coraggio”.

Vista da questa prospettiva, la storia della pirateria del Settecento diventa così la storia di uomini e donne in grado di dare un esempio pratico di costruzione di un’alternativa, nonostante condizioni tremendamente avverse. È una storia di violenza e soprusi, certo, e anche per questo è una storia che termina con una sconfitta. È necessario oggi confrontarsi con questo mito moderno, tramandato sotto forma di fiaba romantica ai margini della Storia ufficiale, e svelarne i tratti di falsificazione storica e sociale. Perché se è vero che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, forse l’unica possibilità che abbiamo è quella di vedere il mondo da un’altra prospettiva, e immaginarci pirati.

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