Il villaggio-scuola a Rasa di Varese
incontro con Grazia Honegger Fresco
Il Villaggio-Scuola “Sandro Cagnola” a Rasa di Varese, attivo dal 1952 al 1961, nel dialogo tra Rosina Lama – che ne fu protagonista insieme al marito Sergio Rossi – e Grazia Honegger Fresco.
Finalmente ci incontriamo, Rosina Lama Rossi ed io, entrambe ottantenni, con l’aiuto delle nostre figlie, Sonia Rossi e Sara Honegger, per cercare di ricostruire in breve quell’esperienza unica che fu il Villaggio-Scuola a Rasa di Varese dal 1952 al 1961. Io che – per matrimonio – da Roma venni a vivere in Lombardia nel ’60, non feci in tempo a conoscere questa esperienza straordinaria e in certo modo unica, mentre mi era ben nota l’altra parallela: quella del Ceis di Rimini, il Centro Educativo Italo Svizzero fondato da Margherita Zoebeli. Sergio e tu, Rosina, collaboravate molto con lei, ma non ebbi la fortuna di conoscervi allora. Interessante un primo confronto dall’esterno tra il Villaggio diretto da Margherita fin dal ’46 per bambini e bambine tra i tre e i sei anni e il Villaggio“Cagnola”, affidato alla vostra guida, pensato per soli maschi, ragazzini e ragazzi, come voleva la rigida morale del tempo.
In quegli stessi anni da parte laica erano stati avviati, dapprima per gli ex partigiani e i reduci che non avevano potuto studiare o completare la propria formazione, i Convitti Scuola della Rinascita che, a Milano e in altre città, si richiamavano direttamente ai valori della Resistenza. Ben presto però si era avvertita l’esigenza di provvedere anche ai troppi orfani di guerra per aiutarli a ricostruirsi una normalità di vita con nuovi valori. Lo stesso Ceis, dove Margherita, vicina agli ideali socialisti ma neutrale e internazionale da svizzera convinta, manteneva nei rapporti educativi – non diversamente da voi – quell’atteggiamento proprio dell’educazione attiva di non giudizio, di rispetto senza alcuna induzione autoritaria dei comportamenti, con una forte attenzione, lei e voi, al singolo e al gruppo, senza rigide separazioni per età o per capacità.
Quei primi anni dopo il conflitto furono anni durissimi: tu, Rosina, hai vissuto direttamente il profondo malessere di giovani e giovanissimi, come pure di adulti, non solo del disastro collettivo, ma anche il peso della cultura arretrata ed elitaria lasciata dal fascismo.
Certo! Allora era diffusa una mentalità di obbedienza al capo, di compromesso e di finzione assimilata nei vent’anni di dominio fascista, mentre nei gruppi partigiani, ormai disseminati nel paese, si viveva il desiderio di nuovo, di un cambiamento costruttivo fondato sulla presa di coscienza della dignità umana, del pensare con la propria testa ma collaborando con gli altri. Già prima, quando era in corso la guerra, i partigiani, nei tempi “morti” tra un’azione e un’altra, discutevano a fondo di che cosa si sarebbe fatto “dopo” e nel contempo vivevano come nuova e vitale formazione l’esperienza democratica della scuola partigiana, in cui trovavano poco spazio il censo o la cultura teorica e le differenze ideologiche erano messe un po’ da parte di fronte al nemico comune.
Malgrado repressioni anche durissime, analoga esperienza era stata vissuta nelle carceri e nei luoghi di confino, sognando forme di educazione nuova, aperte a tutti, libere da atteggiamenti dogmatici.
Qualcosa del genere aveva guidato a Firenze la ripresa in senso laico e democratico della vita cittadina ad opera di un vasto gruppo di intellettuali laici, socialisti e liberali che avevano partecipato in molti modi alla Resistenza e avevano dato vita al Partito d’Azione. Da questo crogiolo era nata già nel 1945 “Scuola-Città Pestalozzi”, una realtà nel cui governo avevano parte diretta i ragazzi con assemblee, discussioni, ruoli di responsabilità.
Anche noi incontrammo più tardi Ernesto Codignola che di Scuola-Città era stato fondatore e direttore. Anzi, venne a trovarci con i suoi ragazzi!
Dopo il ’45 i Convitti-Scuola della Rinascita avevano rappresentato il nuovo in assoluto. Voluti in partenza dall’Anpi, negli anni seguenti offrirono a giovani reduci e agli ex partigiani, molto capaci nella lotta antifascista ma privi di altre conoscenze per studi interrotti o mai cominciati, la possibilità di completarli, maturando al tempo stesso un modo nuovo di pensare, di risolvere i problemi e quindi di assumersi responsabilmente ruoli democratici.
Urgeva però provvedere anche ai più piccoli ed è per questo che nel ’48 il Comitato Milanese per l’Infanzia, promosso dal vicesindaco comunista Piero Montagnani in accordo con il sindaco socialista Antonio Greppi, decise di destinare a una comunità di ragazzi una serie di baracche di legno già servite in città per gli sfollati, da spostare e riedificare in un terreno donato nel ’38 al Comune di Milano dalla famiglia Cagnola in memoria di un loro giovane congiunto di nome Sandro: in pratica un’intera collina presso il paesino detto Rasa, a pochi chilometri da Varese città.
La prima direttrice, con una trentina di ragazzi in tutto, fu un’infermiera svizzera, Elena Dreher, che conosceva esperienze di villaggi internazionali destinati all’infanzia e alla preadolescenza. Ben presto i locali non bastarono più, sia come alloggi che come luoghi di lavoro. Montagnani nel ‘50 ebbe aiuto insperato dalla Centrale Sanitaria Svizzera che commissionò nuove strutture in muratura all’architetto Fischli di Zurigo, quello stesso che aveva realizzato il Villaggio internazionale “Pestalozzi” a Trogen nella Svizzera tedesca. La Css, di orientamento comunista, nacque nel 1936 come organismo di sostegno in campo sanitario e di solidarietà antifascista negli anni della guerra di Spagna. Nel dicembre del 2002 la Css si è unita ad altre organizzazioni e ha assunto il nome di “Medico International Svizzera”; porta aiuti a vittime di guerra o di conflitti locali
La zona intorno a Rasa tra campi e boschi era un posto bellissimo e di vasto respiro dal punto di vista naturale: il bel cortometraggio in bianco e nero Verso la vita che Dino Risi girò nel ’47 per far conoscere l’iniziativa e trovare aiuti economici, mostra molto efficacemente quanto fosse un posto ideale per accogliere ragazzi che avevano alle spalle storie di abbandono e di morte. Genitori persi nei bombardamenti o nelle lotte di mafia, ragazzi diventati difficili per i loro vissuti tragici, alcuni già avviati in esperienze di furto, fumo, alcool, privi di ogni regola…
Voi arrivaste lì fin dal principio?
Dopo la Dreher si avvicendarono altri direttori – anche una coppia – che forse non avevano idee chiare; pensavano che bastasse far sperimentare ai ragazzi le regole del governo democratico per attuare la democrazia. Forse assumevano modi paternalistici nella relazione con loro o li spingevano alla competizione restando ancorati al continuo giudizio. In sostanza non si fidavano dei ragazzi e mostravano un pericoloso scollamento tra teoria e pratica, tra la retorica dell’autogoverno assoluto e l’abbandono a se stessi dei giovani ospiti. All’inizio del 1952, quando la Css chiese a Sergio e a me di assumerne la direzione, la cosa si prospettò come una grande sfida. Accettammo con entusiasmo e nel luglio ci trasferimmo a Rasa.
I Convitti della Rinascita furono in tutto undici, se consideriamo anche il nostro Villaggio.
È sempre bello conoscere la storia iniziale di una coppia che ha costruito tanto insieme: come vi eravate incontrati?
Allora prima ti dico di me, Rosina Lama nata a Rodi Fiesso in Ticino nel ‘27.
Ah, io sono del ‘29, una differenza minima tra noi, eppure ha significato molto in quei frangenti dopo la guerra…
È vero, quando andammo a Rasa avevo già 25 anni. Lama è un cognome friulano. Nonno Giovanni, nato ad Aviano, era venuto in Svizzera come minatore per la costruzione della galleria del Gottardo. Qui poi rimase come casellante. Dei suoi otto figli che emigrarono in Francia a lavorare come operai o muratori, tornarono in Svizzera solo tre, tra cui mio padre con forti ideali anarchici. Infatti non si sposò in chiesa, né ebbe un funerale religioso quando morì nel ‘29. Io avevo appena due anni. Mia mamma, una sarta bravissima, incontrò comunque tante difficoltà: mio fratello entrò in un collegio, mentre io fui accolta da uno zio materno, convinto liberale anticlericale, la cui moglie era molto religiosa: un ambiente affettuoso dove ebbero molta cura di me e che mi aprì la mente. Più tardi avrei voluto studiare medicina, ma la guerra bloccò molti sogni. Andai presso famiglie per imparare prima il tedesco, poi il francese, al ritorno feci la commessa. Intanto nel ’44, tramite il Partito socialista ticinese, conobbi i “Falchi Rossi”, un movimento laico internazionale per i più giovani. Facevamo passeggiate in montagna, varie attività culturali ed educative, giochi, campeggi, teatro. Nel ’47 fuitra le fondatricidelle Donne Socialiste Ticinesi. Nel ’49 conobbi Margherita Zoebeli che mi suggerì di partecipare a Milano nella sede della Società Umanitaria a un corso di formazione per educatori sostenuto dalla Svizzera. Fu molto interessante. E l’inizio di tutto. Tra i maestri, con altri eminenti specialisti italiani e stranieri, c’era anche Musatti che all’epoca veniva nel Convitto per aiutare i giovani reduci nella scelta di studi e di esperienze più consoni alla loro personalità. Qui l’incontro con Sergio si avvicina perché la sede del corso era il Convitto della Rinascita …
Sergio era nato a Mantova nel 1921 da una famiglia alto-borghese. Aveva studiato musica – piano e violino – e nel ’42 si era diplomato maestro elementare. Nello stesso anno richiamato in guerra, fu inviato in Jugoslavia, ma nel ‘43 riuscì a tornare in Italia per raggiungere i genitori in Valsesia. Restò con loro poco tempo perché entrò nelle formazioni partigiane della zona come combattente nel battaglione Rocco e partecipò così alla liberazione di Milano il 25 aprile del ‘45. L’anno seguente entrò al Convitto della Rinascita e si iscrisse a Brera, diplomandosi con Carpi. Con un gruppo di convittori romani – tra cui i geniali Albe Steiner e Max Huber – fu tra i fondatori a Roma della Scuola di Grafica e diPubblicità diretta da Ugo Blaetter.
Siamo nel ’48: il nuovo già preoccupa il governo e la restaurazione comincia. La Scuola di Roma, pericolosamente moderna, viene chiusa, si dice, per mancanza di fondi. Sergio torna a Milano per ricominciare all’interno del Convitto milanese la stessa esperienza. Insegnano con lui, oltre a Steiner e a Huber, Luigi Veronesi, Remo Muratore, Gabriele Mucchi, tutti grafici eccellenti e innovatori. La Scuola è trasformata in Cooperativa Grafici e Sergio, nello stesso periodo, insegna disegno ai ragazzi della scuola media interna al Convitto di Milano.
Nel frattempo segue anche il filone della pittura che lo appassionerà sempre e per il quale avrà non pochi riconoscimenti con esposizioni, premi, partecipazioni a mostre, legandosi affettuosamente ad altri artisti più noti.
Intanto, finito il corso, anch’io ero rimasta nel Convitto per gestire il doposcuola degli stessi ragazzi ospiti. Ecco, è allora che ci siamo incontrati, nel ’51 ci siamo sposati, continuando a vivere lì nel Convitto, ben presto anche con la piccola Sonia, la nostra prima figlia nata da poco, e i nostri ideali comunisti e socialisti per un mondo meno ingiusto.
Guardo tutti i documenti fotografici e gli scritti in corso d’opera che mi hai mostrato e vedo Sergio che con i ragazzi suona ora la fisarmonica, ora la chitarra, Sergio che li conduce alla mostra di Picasso, che insegna loro i segreti della grafica nei manifesti, nei fondali del palcoscenico, nel giornale, che affresca questa o quella parete… Quanto al teatro forse c’è anche il tuo zampino, Rosina, viste le tue esperienze con i Falchi Rossi.
È vero, abbiamo portato nel Villaggio tutte le competenze che avevamo, Sergio soprattutto, così straordinariamente creativo, ma non c’era solo quello: c’era la scuola della fatica, si doveva anche produrre, dato che avevamo tanti adolescenti in cerca di uno sbocco nella società. Così istituimmo un laboratorio di meccanica e uno di falegnameria dove, costruendo sedie e librerie da vendere, i ragazzi imparavano un mestiere e si guadagnavano un po’ di soldi di cui eravamo sempre a corto. Si lavorava nella fattoria e quindi a turno alla cura di animali grandi e piccoli sotto la guida di un esperto contadino. I ragazzi insieme agli educatori – e tutti i membri della comunità lo erano – provvedevano ai lavori di manutenzione e nella buona stagione riparavano e costruivano gli spazi – con relative recinzioni – destinati ai giochi sportivi: bocce, pallacanestro, calcio. Si dava dignità ad ogni forma di lavoro. Il cuore della formazione era però nelle attività espressive, di cui Sergio era maestro…
Cultura e lavoro erano quindi i due pilastri su cui si fondava il Villaggio…
Certamente, e cultura voleva dire molte cose: canto e musica, mimo e comicità sana, scrittura e lettura con tutte le materie previste, scienze naturali e cura del parco, tutto andava di pari passo. In ogni settore di lavoro c’era un gruppo di ragazzi in apprendimento e nelle ore libere tutti, adulti compresi, qualunque fosse il loro ruolo, davano il proprio contributo. Il disegno sotto la guida di Sergio era alimento quotidiano. I ragazzi del “Cagnola” parteciparono per esempio alla Mostra internazionale del disegno infantile a Milano. Ha scritto Mario Silvani, nostro amico e collaboratore che “i ragazzi dipingevano come mai abbiamo visto fare altrove e certe annotazioni nei colori, nel segno indicavano che la liberazione della personalità era avvenuta e che andava perfezionandosi nella ricerca, sollecitata dal fervore del lavoro fatto insieme agli altri”.
Per la scuola avevamo trovato collaboratori esterni, ottimi insegnanti di Varese come Edmea Bassani, ancora oggi nostra cara amica: davano il loro aiuto gratuitamente e contribuivano a costruire scambi vivi tra noi e il territorio, oltremodo chiuso e ostile, come si può immaginare.
Ben presto la collettività si fece ancor più eterogenea. Accanto a orfani dei deportati politici e dei sopravvissuti ai lager, all’inizio giunsero al Villaggio gli orfani dei Calabresi e dei Pugliesi uccisi nella lotta per le terre, dei Siciliani assassinati da Giuliano a Portella della Ginestra, i figli dei comunisti dell’Amiata, di ex partigiani messi sotto accusa a causa della situazione politica allora molto tesa, che già aveva cominciato a negare i valori della Resistenza. La Cgil ci inviava bambini vittime del clima aggressivo dell’epoca: erano gli anni del ministro Scelba e della Celere! Più tardi aumentò il numero dei ragazzi inviati dai tribunali minorili o dai centri medici e psicologici per gravi disturbi di comportamento. Ma avevamo anche bambini e ragazzi provenienti da famiglie che condividevano le nostre scelte pedagogiche o che avevano scelto il Villaggio come istituto laico.
L’Italia non ha mai fatto veramente i conti con il fascismo e questo lo vediamo ancora oggi in tutti i settori: sulla scuola, sulle sue modalità e i suoi contenuti pesa in modo particolare.
Noi lì avevamo il grande vantaggio da un lato della eterogeneità nei ragazzi per linguaggi, ceto, e perfino religione. Se la maggioranza dei nostri “cittadini” era formata da cattolici spesso poco osservanti, c’erano ragazzi ebrei e un gruppetto di valdesi: genitori di Torre Pellice ci avevano affidato i loro figli per lo stile laico e democratico che da noi si respirava. Dall’altro lato c’era ad ampio raggio la solidarietà esterna di tanti: artisti e operai, famosi antifascisti e letterati, non ultimi i coristi della Scala, fra i quali si trovava la signora Montagnani, che assicuravano un contributo regolare.
I nostri “cori parlati”, assai richiesti e presentati in varie città, divennero ben presto teatro, ora comico, ora drammatico in cui si mescolavano abilmente parole e mimo, attori in carne ed ossa e marionette, fino al punto in cui i nostri ragazzi a Napoli vinsero la Maschera d’Oro, consegnata loro personalmente da Eduardo De Filippo. Tra loro c’era, quattordicenne, Gianni Magni che avrebbe poi frequentato la scuola di mimo al Piccolo Teatro. Particolarmente dotato, accanto a molte esperienze di teatro e di cinema, creò tra il ’64 e il ’69 con Roberto Brivio, Lino Patruno e Nanni Svampa il celebre gruppo dei Gufi.
Davamo grande spazio alle attività culturali, alle visite, alle gite. Alcuni gruppi andavano perfino a vedere gli spettacoli al Piccolo Teatro con i biglietti offerti dal sindacato dei tramvieri milanesi; anche i coristi della Scala mettevano a disposizione alcuni biglietti per gli spettacoli in quel prestigioso teatro.
Momenti che suscitavano grande interesse al Villaggio erano le conferenze sui temi più diversi, tenute da intellettuali, esperti di questioni politiche, storiche o scientifiche, ex partigiani, ma anche semplici operai che parlavano del proprio lavoro. Si cercava insomma di collegare lo studio alla vita reale, anche attraverso ricerche che nel loro piccolo permettevano di sviluppare una mentalità scientifica.
Molti amici donavano libri per adulti e per ragazzi, tanto che in poco tempo ci trovammo con una nutrita biblioteca grazie anche alla Casa della Cultura, alla Libreria Internazionale di Milano e a varie case editrici, Feltrinelli in prima linea.
Tra gli amici pittori di Sergio c’erano Guttuso, Treccani e molti altri; nell’ambiente teatrale i burattinai Colla (Gianni e Cosetta) e Otello Sarzi, che ci aveva affidato suo figlio. La pianista Rina Bonazzola guidava il coro e si occupava dell’insegnamento della musica, mentre il Sindacato dei Poligrafici ci regalò una macchina tipografica per produrre il nostro giornale “Verso la vita”, dapprima stampato alla buona, alla maniera di Freinet. Gli operai della Geloso ci donarono uno dei primi televisori da loro prodotti, mentre dalle Cooperative agricole dell’Emilia ci giungevano non pochi rifornimenti alimentari.
Avevamo scambi aperti e continui con diverse istituzioni laiche, italiane ed estere, tra cui la Fice – Federazione Internazionale di Comunità Infantili – facente parte dell’Unesco e potevamo sempre trovare in ogni momento un aiuto efficace in amici quali Ada Gobetti, Dina Bertoni Jovine, Gianni Rodari, Carlo Pagliarini, dirigente dell’Associazione dei Pionieri, i Finzi Federici del “Biancotto” di Venezia (altro Convitto-Rinascita che venne attaccato e chiuso nel ’57), e così molti altri che sarebbe lungo ricordare al completo.
Non deve essere stato semplice coordinare l’aspetto organizzativo, quello economico insieme a una ricerca pedagogica adatta a giovanissimi diventati adulti anzitempo e spesso nel peggiore dei modi.
Dopo le prime esperienze avevamo creato una struttura sul modello dei Convitti-Scuola della Rinascita con un Comitato Direttivo, le Commissioni di lavoro e l’Assemblea, tenendo ben presente l’età dei giovanissimi “cittadini”. Tutti gli adulti che avevano un ruolo nel Villaggio – dal direttore che era Sergio ai maestri di laboratorio, dal contadino alla guardarobiera e alle persone addette ai servizi – tutti, dicevo, avevano un compito educativo sul quale ci si confrontava per attuarlo di comune intesa nei fini, nei modi e nei mezzi. Io avevo più che altro un impegno di appoggio alla direzione, ma in molti momenti una cauta funzione materna verso questo o quel ragazzo. Anche al Villaggio la nostra vita familiare era totalmente fusa con quella degli altri, malgrado ci fossero nati negli anni altri tre figli, tutti maschi: Marco, Luca e Giorgio.
L’entusiasmo era grande almeno quanto il peso dei problemi. Un sostegno regolare veniva dal Comitato milanese, ma non era sufficiente: al massimo delle presenze nel Villaggio abbiamo avuto una ventina di adulti e 60/70 ragazzi e si sa che gli adolescenti hanno un appetito formidabile… Da considerare che il personale riceveva dal Comitato uno stipendio molto modesto. Il denaro di una cassa comune veniva via via dato a chi aveva un’esigenza particolare, senza privilegi di sorta, in base a decisioni prese di comune accordo.
Una volta qualcuno osservò che la nostra Sonia avrebbe dovuto avere una bambola con cui giocare, ma non c’erano soldi per comprarne una, eppure la bambola arrivò, dono di Mimma Paulesu Quercioli (segretaria del Comitato dell’Infanzia e nipote di Antonio Gramsci) che seguiva da vicino il nostro lavoro.
Tutto questo tuo racconto ricorda da vicino un’altra appassionante testimonianza con ragazzi in difficoltà, quella narrata dal Poema pedagogico dell’ucraino Makarenko (Albatros 2009), autore dimenticato nel crollo del comunismo, ma che non sarebbe male rileggere e porre al confronto con un altro grande educatore suo contemporaneo, il medico ebreo-polacco Korczak. Li accomuna a voi il modo effettivamente laico di intendere l’educazione: senza mezzucci, né tranelli verso i ragazzi, entrambi con una dedizione totale nei loro confronti, un affetto pulito che non diventa mai ricatto o esercizio di potere. Su di loro ha pesato un mondo di morte: per Makarenko la spietata repressione del dissenso e dei cosiddetti “nemici del popolo” voluta da Stalin; Korczak, costretto a confrontarsi con i nazisti, ma deciso a difendere i “suoi” orfani, morirà con loro a Treblinka.
Ci sono altri aspetti che avvicinano le loro esperienze alla vostra, intanto il fatto che gli adulti hanno sì compiti diversi, ma sono tutti egualmente maestri. E poi ancora il teatro, i racconti, la bandiera, i canti in comune…
Nella nostra biblioteca avevamo molti libri a carattere pedagogico: avevamo Makarenko, certo, ma anche Montessori e Dewey, Freinet e Claparède, Ada Gobetti e Baden Powell… Tuttavia, maturata questa idea di libertà entro confini ben discussi e condivisi e avendo messo al centro di tutto la scuola, Sergio aveva elaborato una propria via in cui ognuno aveva un ruolo, inclusi i genitori dei ragazzi, trattati tutti con lo stesso rispetto: la madre prostituta o il padre illustre scienziato. Verso la metà degli anni cinquanta venne costituito il Consiglio dei Genitori, che fu in varie occasioni di grande sostegno alla vita del Villaggio.
Collaboravamo pure con diversi specialisti esterni (medici, pedagogisti, psicologi…), in particolare con Marcella Balconi che è venuta parecchie volte alla Rasa, per incontrare ragazzi da lei seguiti e farci da consulente. Marcella Balconi era responsabile del Consultorio medico pedagogico presso l’Ospedale maggiore di Novara; come la cugina Mariolina Berrini, svolse un lavoro pionieristico in Italia nel campo della psicologia infantile e della psicoanalisi.
Non tutti dall’esterno avranno riconosciuto ciò che facevate…
Ovviamente no. Per noi poteva essere valido il detto “molti nemici, molto onore”, ma, a dire il vero, erano nemici scontati, come i controlli continui dei carabinieri all’ora di pranzo per verificare le portate e il maresciallo che si lamentava: “Guarda che cosa mi tocca fare quando fuori di qui abbiamo ben altro da controllare”.
I ragazzini, si sa, corrono, cadono e si sbucciano le ginocchia, a volta andavamo in ospedale per cure d’emergenza; se accadeva, ecco subito i controlli sanitari con le facce sospettose, tanto che alla fine un amico medico mi aveva insegnato il pronto soccorso, compresi i due o tre punti talora inevitabili per non dover andare ogni volta in ospedale. Divenni espertissima.
Ragazzi che scappavano? Per uno che lo faceva, storie a non finire. Non c’è comunità in cui questo non si verifichi, ma poiché da noi non c’erano recinzioni né cancelli e chi ritornava, da solo o perché riportato indietro, non subiva punizioni umilianti, ma veniva ulteriormente sostenuto, le avventure erano rare e di scarsa soddisfazione per i fuggitivi come per i nostri denigratori.
D’altra parte noi educatori – e Sergio in particolare – conoscevamo le storie e le sofferenze individuali: nessuno però le metteva in piazza e tanto meno se ne serviva per minacciare o ricattare i ragazzi, prassi molto diffusa in vari collegi dove si lucrava sull’assistenza, si opprimevano i singoli con abitudini punitive, ben poco cristiane e tanto meno democratiche, in sostanza strumenti di potere e occasioni di disprezzo per bambini e ragazzi in difficoltà. Più d’una volta ci è accaduto di accogliere “brutti soggetti” – casi disperati, dicevano, passati da un istituto a un altro – e da noi rivelatisi socievoli, collaboranti, di intelligenza vivace e costruttiva.
Vedi, anche Makarenko seguiva una linea analoga, rispettando al massimo il segreto di ogni ragazzo davanti alla curiosità dei visitatori. Ma, dimmi, come riuscivate a preservare gli aspetti individuali rispetto a quelli collettivi?
Il dialogo, il dialogo con ciascuno, era così importante. Sergio non si stancava mai e quello che sapeva restava un segreto fatto di solidarietà e di comprensione senza paternalismi.
Nei pressi della bella Villa Cagnola al centro del Parco, un tempo abitazione della famiglia, c’era – e c’è ancora – una sorta di tempietto, una struttura circolare a colonne, che i ragazzi amavano molto come luogo di riflessione personale, di dialogo discreto e riservato, e tutti erano tenuti a dare ad esso il massimo rispetto. A parte questo angolo, il resto delle giornate trascorreva nei piccoli gruppi, sempre indaffarati tra studio e lavoro, senza tempi morti.
L’esempio veniva in primo luogo dagli adulti: non tirava buona aria per i perdigiorno e i ragazzi sentivano la forza di una struttura che dava loro protezione e buon cibo, che riconosceva in concreto e in tanti modi il diritto al benessere, al divertimento, ma esigeva anche la presa in carico delle proprie incombenze e il senso di responsabilità in tante occasioni, collaborando con gli altri: un’azione pedagogica e indirettamente anche politica, educando alla gioia, come in tanti modi Sergio cercava di realizzare coinvolgendo ogni adulto educatore. Per esempio la cartolina che Sergio ha realizzato per dare l’idea del teatro dice proprio: “Educare nella gioia. Teatro dei piccoli mimi del Villaggio-scuola ‘Sandro Cagnola’ Rasa-Varese”.
Mi chiedo se ad allarmare i ben pensanti del nostro paese, fosse anche questo gusto dell’azione, questo rispetto per ciascuno che già si toccava con mano nei tanti Convitti, definiti sbrigativamente “covi dei rossi”. Ho letto in quel bel libro edito da Vangelista nel ’78, A scuola come in fabbrica, che i Convitti della Rinascita creati sempre dal basso in varie città italiane – Milano, Venezia, Roma, Genova e altre ancora – erano stati organizzati dapprima con fondi raccolti dai partigiani, per gli adulti reduci provati in modi diversi dalla guerra, al fine di restituire loro autonomia e incoraggiamento, poi per i più giovani.
Mi sembra che se volessimo ricostruire quali pensieri o progetti pedagogici hanno informato le vostre scelte, non potremmo che risalire alla filosofia piena di speranza dei Convitti. La grande innovazione del Villaggio-Scuola è stata da un lato il vostro impegno vivo e continuo alla vita d’ogni giorno, dall’altro la partecipazione attiva dei ragazzi alla gestione dell’intera struttura e alla sua organizzazione.
D’altra parte erano ragazzi grandi, anche diciottenni o più, quelli che in Italia solo nel ’75 saranno considerati maggiorenni. Da noi lo erano già di fatto! Li consideravamo “cittadini” in piena regola, responsabili e ascoltati nelle loro proposte o proteste quando queste erano ragionevoli e documentate.
Quanto tutto questo grande lavoro fosse legato alla guida di Sergio lo si toccò con mano quando nel ’60 si ammalò, dovette trascorrere vari periodi in Liguria per curarsi, sebbene inutilmente, perché nel ’61 tornato a la Rasa morì il 3 giugno di quello stesso anno. Il Villaggio e tutti noi subimmo uno sbandamento gravissimo, al punto che ancora una volta gli amici svizzeri vennero di nuovo in soccorso, proponendomi di tornare in Svizzera, a Stabio, con i miei quattro bambini, per un nuovo lavoro. Al rientro in Ticino ho portato con me i documenti scritti da Sergio e i libri di nostra proprietà.
Nei due anni successivi ci furono nuovi direttori, ma fu inevitabile nel giugno del ’63 la chiusura definitiva del Villaggio. Da quel momento iniziò il periodo di abbandono e di degrado. Ben presto tutto fu rubato e distrutto. Di fatto quello che non poté essere portato via, cadde in rovina: dalla villa agli alloggi, dai campi di gioco ai laboratori.
Oggi non mi meraviglio più di tanto: l’apertura mentale che si respirava nel Villaggio non piaceva al potere dominante, ma nemmeno alle alte sfere dell’Anpi o del Pci, come spesso ci accadde di constatare. Più volte, da parte di certi compagni di lavoro e di fede, le cose non erano state semplici. Lo scrisse nel febbraio del ’62 Renato Guttuso ricordando Sergio pittore, riferendosi alla mostra tenuta due anni prima alla Piccola Permanente di Varese: “Da quella sua mostra Sergio non ha potuto fare nuovi passi. La lunga dolorosa malattia e la fatale conclusione hanno fermato le sue ansie, le sue ricerche, il suo sentimento… A riguardare il suo lavoro, a pensare attraverso quali difficoltà esso si è svolto, durante anni trascorsi nel lavoro di educatore, di organizzatore, di infermiere, di padre (non solo dei suoi figli veri), lavoro ostacolato da tutti coloro che avrebbero avuto il dovere di aiutarlo, continuamente assillato da problemi finanziari e morali, fiaccato dalla malattia, questo suo lavoro assume una nuova luce, un alto significato morale e poetico”.
Ho lavorato molti anni al Centro di osservazione medico-psico-pedagogico di Stabio, nel Canton Ticino, che si occupava di bambini con difficoltà comportamentali, tenendo per me rimpianti e ricordi. Ho però ripreso gli impegni politici e sociali, partecipando anche a conferenze e incontri, in particolare al Convegno “Un’esperienza educativa democratica e laica negli anni cinquanta: il Villaggio scuola ‘Sandro Cagnola’ alla Rasa di Varese” del 28 maggio 2005 (atti pubblicati dalle edizioni Arterigere), sostenuta dall’affetto dei figli e dall’entusiasmo, la perseveranza di Sonia che non vuole che suo padre venga dimenticato…Ho continuato a operare a Stabio con i gruppi socialisti, con le donne immigrate, specie dopo essere andata in pensione. C’è sempre tanto da fare, ma questa è un’altra storia.
A conclusione del nostro incontro interviene Sonia Rossi a ricordare che recentemente la bella casa dei Cagnola è stata restaurata a cura del Parco regionale “Campo dei Fiori” e inaugurata nel maggio 2010 con una mostra dedicata alle attività del Villaggio, la prima di altre che si terranno su temi culturali in genere, ma anche su argomenti relativi alla biodiversità del Parco: un risultato positivo dopo mezzo secolo di abbandono.
Inoltre Sonia ha curato l’archivio delle opere pittoriche del padre, delle immagini fotografiche e dei documenti, e ha contribuito a creare un ricco sito internet (www.sergio-rossi.ch) cui rimandiamo per un approfondimento.
Di recente alcuni avvenimenti hanno rievocato il valore dell’intera esperienza. A dicembre è stata pubblicata – sempre da Arterigere – una riedizione degli Atti già usciti nel 2005 con un ampio saggio dello storico Carlo Musso, intitolata Educazione laica negli anni Cinquanta/Il Villaggio “Sandro Cagnola” alla Rasa di Varese e arricchita di molti documenti fotografici. Il volume è stato presentato a Varese in collaborazione con Filmstudio 90 nel corso di una breve rassegna dal titolo “Sogni rubati/ racconti d’infanzia cinema educazione”che ha permesso di rivedere opere come Il ragazzo selvaggio di Truffaut, Dr Korczak di Wajda e Les choristes di Barratier.
La presentazione del volume sul Villaggio della Rasa è stata accompagnata da due film di grande interesse Il cammino verso la vita di Nikolaj Ekk del 1931 e Verso la vita, cortometraggio di Dino Risi del 1947, girato per far conoscere il nascente Villaggio alla Rasa.
Sabato 1 ottobre 2011, dalle 13,30 alle 18, nell’Aula Magna delle scuole medie di Stabio, vicino al confine italo-svizzero,l’Archivio di Sergio e Rosina Rossi verrà donato alla Fondazione svizzera “Pellegrini-Canevascini” che si occupa di storia sociale. I documenti verranno conservati all’Archivio di Stato del Canton Ticino, a Bellinzona. In tale occasione – a cinquant’anni dalla morte di Sergio – amici, studiosi, pedagogisti rievocheranno l’esperienza del Villaggio in un convegno di riflessione dal titolo Educare alla cittadinanza, ieri e oggi.