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Il video rende felici (perché lo possono fare tutti)

1 Agosto 2022
Jacopo Abballe

Più di 300 opere video e filmiche, 20 installazioni e il coinvolgimento complessivo di oltre 100 artiste e artisti. Si tratta della prima mostra interamente dedicata alla produzione di videoarte e cinema sperimentale in Italia. Una ricognizione difficile da realizzare, perché la storia del video d’artista nel nostro Paese è tanto ricca quanto caotica e sommersa. La scarsità di studi accademici sul tema, l’assenza di rassegne dedicate allo sperimentale italiano, e in generale il disinteresse della maggior parte dei critici cinematografici verso le nuove forme filmiche ha condannato molti di questi oggetti video a un paradosso difficilissimo da risolvere, quello che segna delle opere visive e insieme invisibili. Parlare del video in Italia significa parlare di immagini che nessuno ha visto, di un cinema senza pubblico. Valentina Valentini nel curare la mostra Il video rende felici cerca di porre rimedio proprio a questo paradosso. Una serie di film sperimentali (mai) visti e un corpus significativo di video d’artista invadono fino al 4 settembre gli spazi del Palazzo delle esposizioni e della Galleria d’Arte Moderna di Roma. Una mostra spezzata in due, come l’oggetto di studio qui trattato, diviso tra pellicola e video, tra passato analogico e presente digitale, tra voglia di mostrare e impossibilità di mostrarsi. E insieme alle opere esposte anche molte rassegne, tavole rotonde, workshop. Con una densità di proposte e stimoli paragonabile solo a quella di certi cineclub all’avanguardia degli anni Settanta, prima che i loro schermi venissero abbattuti e le loro poltroncine sradicate. Il video rende felici, insomma, si presenta come una mostra ambiziosa e magmatica, oltre che necessaria e urgente. Ma le due parti che la compongono sono tanto diverse che vale la pena parlarne separatamente. Valentini infatti sembra adottare due approcci espositivi così ben distinti, ora per il Palazzo, ora per la Galleria, da dare corpo a una mostra bipolare. E forse è giusto così. Forse non c’era altra soluzione possibile per una storia (quella del video in Italia) tanto complessa e sfaccettata.

Palazzo delle esposizioni
Chi è abituato a frequentare le sale del Palazzo delle esposizioni probabilmente si ritroverà spiazzato nell’attraversare le stesse sale al buio, spesso guidato solo dalla luce flebile e inafferrabile di un proiettore. Per entrare e uscire da ognuno di questi spazi bisogna superare delle tende scure, come quelle di un cinema, e si accede così a un altro mondo buio, solitario, dove ci si ritrova a tu per tu con delle opere che ora ci accolgono nella loro luce, ora ci sovrastano in questa strana oscurità. In un contesto del genere, ritrovarsi dinanzi a Film Ambiente di Marinella Pirelli significa essere accompagnati in uno spazio modulare e dinamico, illuminati da una luce debole, romantica, immersi nel colore e nel suono. L’installazione si presenta come un ambiente percorribile, costituito da uno schermo tridimensionale su cui viene proiettato Nuovo Paradiso, un film che l’artista realizza alla fine degli anni Sessanta con delle riprese dedicate alle sculture di Gino Marotta. Il dispositivo che regola il sonoro è molto sofisticato per quegli anni. Il suono è infatti regolato da cellule fotosensibili che reagiscono al movimento della luce e dei visitatori. Attraversare questo film, quindi, vuol dire farne parte, per davvero. Essere in un film come non avremmo mai pensato di finirci.


Altra sala, altro buio. Ci ritroviamo al centro di un’ossessione personale, quella per il tempo che scorre. L’artista è Michele Sambin, uno dei nomi fondamentali della videoarte italiana. In questa rivisitazione di una sua installazione storica, sentiamo Sambin ripetere che “il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni”, mentre vediamo l’artista oscillare come un metronomo, a scandire quello stesso tempo di cui parla. Le scene proiettate su tre diverse pareti si sovrappongono, si confondono. Immagini delle mani di Sambin, del suo volto. E se un tempo queste immagini si limitavano a sommarsi le une alle altre, adesso quelle di un tempo (era il 1979) si mescolano con quelle di oggi. Vediamo le mani di Sambin invecchiate, segnate dalle rughe e percorse da vene sporgenti. Vediamo, ora sì, il tempo che consuma.
Grazie a queste prime due opere ci ritroviamo al principio della videoarte italiana, ma i suoi sviluppi sono ancora più interessanti. L’opera più sconvolgente in mostra è senz’altro Coro, di Studio Azzurro, un’installazione di metà anni Novanta che vede alcuni corpi immobili proiettati su un tappeto srotolato. Quando il visitatore calpesta uno di questi corpi lo risveglia dal suo sonno. Così, uomini e donne senza vestiti prendono a muoversi e a parlottare sotto i nostri piedi, in un’esperienza straniante in bilico tra il sensuale e il perturbante. Tra le opere recenti, invece, salta all’occhio Video Machine Mobile di Donato Piccolo, una videoscultura in continuo movimento, che trasmette spezzoni di film, cartoni e telegiornali in modo casuale e frenetico, e che si sposta nella sala a lui dedicata senza mai trovare pace. Ha l’aspetto di un monitor dotato di sei zampe elettroniche ed è gestito da un’intelligenza artificiale che funziona un po’ come quella di certi aspirapolvere elettrici: l’opera di Piccolo studia autonomamente lo spazio circostante e decide di conseguenza come attraversarlo. A dire il vero, si incastra spesso tra la parete e il pavimento, ma è abbastanza intelligente da tentare la fuga tutti i giorni. Chi lavora al museo e si ritrova a sorvegliarlo è ormai ridotto più a uno schiavo che a un padrone: “Stargli appresso è esasperante, mi sento come una babysitter”, mi spiega Francesca, che fa la mediatrice culturale al Palazzo.


Non mancano però le delusioni, le sbavature, gli incidenti. No More Sleep No More, film astratto di quattro ore di Danilo Correale, si presenta come un’esperienza dolcemente soporifera da vivere distesi su una chaise longue. Ma dalle cuffie sentiamo le voci di attivisti, sociologi, storici e filosofi che si pronunciano sul tema del sonno nell’epoca tardo capitalista. L’opera di Correale si fa così seriosa, logorroica, e le immagini colorate e fluide perdono tutto il loro fascino delicato. Technologies of Care di Elisa Giardina Papa, opera video sulle nuove forme di lavoro precario nell’era digitale, è tanto ermetica e fredda da risultare del tutto respingente. Mentre Western Round Table di Rosa Barba, che vede due proiettori 16mm inondarsi l’un l’altro di luce bianca per proiettare le rispettive ombre, non è in questi giorni disponibile a causa di un problema tecnico.


L’esposizione, nel suo insieme, sembra segnare un percorso cronologico più o meno preciso sulle forme installative del video. Non ci troviamo di fronte a semplici frammenti che rappresentano in minima parte le ricerche degli artisti in mostra, ma siamo piuttosto chiamati a (ri)scoprire il valore del video negli anni, e quindi i suoi rapporti con lo spazio, la sua lotta contro il tempo. Si tratta di una selezione piccola ma preziosa di opere al tempo stesso digitali e concrete, una selezione che si dispiega in uno spazio espositivo a tratti oscuro, misterioso, e in grado di restituirci in pochi passi lo stato della videoarte in Italia.

Galleria d’Arte Moderna
Cercare di delineare una sintesi delle cose viste alla Galleria è difficile, ma è ancora più difficile rintracciare tutte le cose non viste, sfuggite, perdute. Tre piani, una dozzina di sale, ma tutto sommato pochi schermi per una mostra dedicata al video. Eppure la quantità di opere, ricerche, sperimentazioni messe in campo è impressionante. Questo perché i pochi schermi che illuminano la mostra trasmettono senza sosta diverse serie di rassegne, con una programmazione, o meglio più programmazioni, dalle durate spesso impressionanti e insostenibili. C’è uno schermo dedicato all’edizione del 1993 del Taormina Arte, quella riservata a Bill Viola. Un secondo schermo trasmette i video del Festival di Camerino. Un altro quelli del festival Lo schermo dell’arte. E così via. L’ultimo piano della Galleria, poi, è in buona parte dedicato alle sperimentazioni televisive promosse dalla Rai, che negli anni Settanta ha prodotto opere di artisti e cineasti dall’approccio radicale e rivoluzionario, come Godard, Ferreri, Agosti e Toti. Ma Periferie – la macchina cinema di Silvano Agosti dura da solo quasi quattro ore, e durante la sua ri-messa in onda mette in attesa e nasconde un’altra decina di film splendidi e rarissimi. L’esposizione di Valentini per la Galleria pone nuovamente il problema del tempo nel cinema e nel video, nonché la questione della visione lineare contro quella frammentaria. Come dovremmo guardare questi video? E per quanto tempo?


In questo caso ci sono delle programmazioni definite, è vero, ma è piuttosto lo spettatore a farsi il proprio montaggio. Non proprio una libertà di sguardo, comunque, perché la mole di cortometraggi, videoclip, film e spezzoni televisivi in qualche modo impone questo rapporto parziale con le opere in mostra. Si ripresenta dunque il paradosso che segnò negli anni Ottanta un programma come La magnifica ossessione, curato da Enrico Ghezzi, maratona no-stop di capolavori del cinema trasmessi uno dopo l’altro, senza interruzioni, per quaranta ore filate. Scrive lo stesso Ghezzi: “Espansione fino all’esplosione. E implosione, se si pensa che dilatare la durata di un “evento-cinema” in TV è fare l’esatto opposto della normale programmazione cadenzata per appuntamenti ciclici: dilatazione di una concentrazione, la magnifica ossessione (ha una durata l’estasi?)” Trasmettere tutto in uno schermo, rendere ogni cosa fruibile, visibile, ma trasmettere così tanto da nascondere a uno spettatore molto più di quel che vorrebbe vedere. Forse è in tale rapporto estatico con il video che si può cogliere l’essenza di un’esposizione così densa e caotica. Per il visitatore medio si tratterà senz’altro di un’esperienza inedita, sicuramente parziale, ma forte proprio nella sua parzialità. Per il critico, lo studioso e il cinefilo, invece, la stessa esperienza non potrà che rivelarsi in parte frustrante e deludente. Ma sarà sempre, a suo modo, una magnifica ossessione.

Il video rende felici, nel suo complesso, è una mostra coraggiosa e innovativa per il panorama italiano, che riesce a scardinare il video d’artista e il cinema sperimentale dai loro circuiti elitari e a trattarli come qualcosa di fascinoso e divertente. In questo senso, il video ci rende davvero felici. Sicuramente più del cinema commerciale e delle pubblicità. Ma non solo. Con questa mostra diretta da Valentini possiamo sperare in una rieducazione alla visione: guardare alle immagini in movimento non più per subirle, in uno scorrere inesorabile, ma ricercare nel mare del video (il video è sempre liquido) le proprie immagini, quelle che ci accolgono e nelle quali vogliamo immergerci. Non importa poi se l’audio di un’opera sovrasta quello di un’altra, se non facciamo in tempo a legarci a un’immagine che già siamo richiamati a guardare quella successiva. Il mare è fatto così, pieno di onde in superficie e di correnti sotterranee. Ma è dolce naufragare in questo mare.


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