Il teatro dopo la pandemia

Questi due anni di pandemia hanno svelato alcune contraddizioni nelle quali vive il teatro. Più chiaramente sono apparse le differenze enormi che intercorrono tra le grandi strutture dei grossi centri e le piccole e medie compagnie di provincia. Eclatanti sono perciò anche le richieste opposte tra chi ha voluto tenere i teatri chiusi il più possibile, avvalendosi dei finanziamenti garantiti dallo Stato, e chi invece ha insistito per una più rapida riapertura, vivendo soprattutto del proprio lavoro. La pandemia ha messo a nudo le tentazioni, a tratti deliranti, di trasferire il teatro sul web e anche la generale marginalità del sistema teatrale, ma pure l’importanza di alcuni luoghi che, durante le lunghe sospensioni delle attività, hanno fatto mancare la loro azione di prossimità nei vari territori. Nel momento di “riaccensione”, cioè di riapertura, il pubblico è tornato carico di interesse e curiosità; nella maggior parte dei casi invece il pubblico si è decimato e chissà cosa accadrà. La pandemia ha mostrato – per adesso solo nella teoria – quanto il teatro possa essere la pratica perfetta per riabilitare il corpo e la mente, dopo lo stordimento generale. Tra chiusure, recuperi e riaperture, la programmazione ha sofferto non solo il ritmo spezzato, ma anche quello strano sfasamento temporale per cui debuttavano spettacoli progettati e provati l’anno prima, con la percezione a volte che nemmeno gli attori sapessero bene cosa andavano a fare. È però anche capitato il contrario, che le lancette del tempo coincidessero e che il teatro riacquistasse un’improvvisa necessità. Oscar De Summa, nel settembre 2021, ha debuttato con L’ultima eredità, un lavoro che lo vede solo in scena a raccontare e a rievocare un momento molto particolare. De Summa si trova sull’autobus a Bologna, dove vive, e gli arriva la telefonata da Mesagne, poco distante da Brindisi: suo padre sta morendo. Così torna a casa, per l’ultimo saluto, e tutto lo spettacolo è un viaggio di conoscenza, di riflessione, ma anche un commovente, e paradossalmente divertente, rito funebre, con una lunga colonna sonora rock e punk, che sembra abbracciare l’intero pubblico, che si trova, in molti casi segnato dalla medesima condizione luttuosa e non di rado, per le norme di sicurezza, privato anche del momento rituale del funerale.
Francesca Sarteanesi con Sergio (estate 2020) è anche lei sola in scena, interpreta una donna che parla a suo marito, prima condividendo qualche episodio del passato e piccole manie quotidiane, divertendo il pubblico che si specchia nei tic e nelle fissazioni di ogni giorno. Poi senza che se ne accorga, lo spettatore si ritrova dall’altra parte, come se avesse oltrepassato il filo della normalità, e tutte quelle fissazioni e manie, che aveva concesso e quasi condiviso, si rivelano per gabbie nevrotiche tristi e malinconiche. Lei e Sergio sono andati a portare un regalo a una coppia di amici. Li accoglie la figliola, ma i genitori non sono a casa. Nonostante le insistenze della figlia, decidono di aspettare, vogliono consegnare il regalo a tutti i costi. L’attesa è lunghissima. Poi alla donna viene un sospetto e perciò, senza che la figlia se ne accorga, entra in corridoio e scopre che la coppia di amici in realtà è in casa. Si è solo nascosta in camera, perché non li voleva incontrare. Eppure non c’è nessuno screzio, nessun motivo. Semplicemente, si rende conto la donna, la coppia di amici li ritiene “pallosi”. E questo “pallosi” diventa una cosa gigante, un complesso che rompe i confini della normalità o forse semplicemente li allarga, con la sensazione di non sapere più chi è normale: Sergio e la moglie, la coppia di amici, noi stessi…
Le lancette sono sembrate coincidenti anche osservando Tiresias di Blumotion, regia di Giorgina Pi dal testo di Kae Tempest (estate 2020). Di fronte alla proliferazione di spettacoli che indagano sempre più spesso temi legati al gender e all’identità sessuale, con un attivismo che di rado riesce a trovare forme adeguate sulla scena, questo Tiresias è spiazzante, perché, giocando su due livelli, il mito e la contemporaneità, oltre a tutte le stratificazioni che si sono sedimentate sopra la figura di Tiresia, restituisce sfumature e suggestioni mai banali. Anche la parola poetica è riportata con una varietà sonora e musicale coinvolgente, tramite l’uso di vinili, di tecniche da dj, di chitarre elettriche, e soprattutto grazie al talento del giovane attore Gabriele Portoghese, notevole per vocalità e trasformismo.
Sempre guardando all’Inghilterra, ma a una drammaturga con mezzo secolo di esperienza alle spalle, come Caryl Churchill, Lisa Ferlazzo Natoli con la sua compagnia Lacasadargilla torna in scena con L’amore del cuore (estate 2021): una coppia di genitori, in compagnia di un fratello e della zia, aspetta il ritorno della figlia dall’Australia dopo una lunga assenza. Un interno borghese e familiare, che rimanda alle atmosfere di Harold Pinter, viene destrutturato da scene che sono continuamente ripetute con l’ingresso delle didascalie, a loro volta pronunciate, come fossero parti integranti del testo, generando dietro l’apparente realismo l’emersione della macchina scenica, ma anche di una distorsione temporale che permette di svelare i lati oscuri dei personaggi e di chi guarda.
Infine, tra le novità di questi ultimi mesi, vale la pena ricordare anche Sylvie e Bruno (estate 2021), terzo romanzo di Lewis Carroll, portato in scena da Fanny & Alexander, in uno spettacolo in cui la stessa realtà viene piegata in due dimensioni narrative completamente differenti, un romanzo di genere vittoriano e un racconto di fate, che scivolano una nell’altra, creando una sospensione e una vertigine, con un mistero permeabile all’occhio dello spettatore che lentamente comincia a decifrare quello strano groviglio, con esiti sorprendenti per associazioni, connessioni, salti logici.
Forse è prematuro cominciare a tracciare delle linee o a unire i puntini apparsi in questi ultimi due anni schizofrenici, come nei giochi dei bambini. Certo è che emerge un’attenzione rinnovata per una parola e un racconto che si distorcono non per eccessi espressivi, percorrendo cioè le strade del grottesco o di una lingua esasperata, e nemmeno per l’enfasi di soluzioni registiche provocatorie o barocche, o per la debordante necessità di essere autori a tutti i costi. Sembra ci sia la volontà invece di circoscrivere il campo con sobrietà, ripartire dalle parole e dagli attori, ma prendendoli “da un’altra parte”, cioè cercando di tenersi lontani dai birignao del teatro di prosa e del teatro di ricerca. Scavare criticamente i testi per ricercare un senso né superficiale né ermetico, puntando su drammaturgie che sappiamo includere lo spettatore, attirarlo in un mondo apparentemente normale per poi lasciargli l’inquietudine di una realtà misteriosa, da scoprire, costruita per distorsioni temporali, forzature logiche, poggiata su impalcature nevrotiche o soggetti fluidi.
Ad oggi la sensazione è che le questioni “svelate” dalla pandemia siano probabilmente inferiori a quelle che la pandemia ha per adesso “velato”, cioè coperto, nascosto. In due anni di sospensioni, riprogettazioni, riaperture, interruzioni, secondo un ritmo così schizofrenico da far saltare i nervi all’intero sistema, il tempo ha continuato a scorrere in maniera inesorabile. Cosa si nasconde dietro questo velo? Per adesso lo sforzo di unire i puntini corrisponde al desiderio di immaginare l’abbozzo di un volto, di una figura, di qualcosa che abbia senso e che possa esorcizzare l’acuta sensazione maleodorante che si prova pensando a quello che il “velo” oggi, ancor più di prima, nasconde.
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