Il sordo di guerra

Due guerre: una, la Seconda Guerra Mondiale, è l’oggetto della Chiave dello zucchero (Il Maestrale, Nuoro2019) di Giacomo Mameli che, con gli abiti di un avvincente contastorie e l’abilità del giornalista di vaglia, risuscita alla memoria numerosi personaggi e li propone come esempi di eroismo, spesso inconsapevole. Sette le storie raccontate: di sardi, e di Seconda Guerra Mondiale, “Ambientate – come afferma l’autore nella prefazione – tra l’Europa e l’Africa”, “perché la Sardegna è stata coinvolta, più di quanto appaia, più di quanto si sappia, in quel grande disastro […] E con stragi avvenute in Sardegna che la Sardegna dimentica”. E proprio per ricordarle, ha scritto questo libro quasi sotto la dettatura dei protagonisti o parenti, “lasciando intatta la spontaneità della narrazione orale, con pochissimi interventi esterni”.
L’altra guerra, dentro la mimesi letteraria della Cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, ( 1987) è citata già nel prologo del romanzo. Si narra di un periodo compreso “tra il 1925 e il 1933 e oltre” e di un immaginario paese sudamericano di lingua spagnola, il Maradagàl, uscito da pochi anni da una “aspra guerra” con il vicino Parapagàl. Anni segnati, come suggeriscono molti indizi, dallo stabilizzarsi prepotente di un nuovo assetto politico in cui si intravede, sotto mutate spoglie, un’Italia post bellica, “pacificata”dal regime. Anche qui, dunque, “la realtà, cioè il bagliore stesso del reale” (Barthes 1977).
Contesti geografici totalmente diversi, pertanto, che, da una parte, raccolgono le res gestae di giovani eroi sardi dentro memorie storiche, dall’altra disegnano un orizzonte di “escursioni mentali” (Benn 1970) in un romanzo in cui “l’azione sta” se non tutta, almeno in parte “nello scontro di posizioni concettuali”.
Eppure c’è un momento in cui due personaggi di due opere così diverse – Gaetano Palumbo e Iolando Fosci – si corrispondono o, meglio, l’uno si reifica nell’altro, entrambi sordi di guerra.
Il racconto del sordo di guerra del saggio di Mameli è chiuso nello spazio di un capitolo, l’altro si distende, viceversa, tra diversi tratti della Cognizione, parcellizzandosi in modo tale che la sua unità tematica si completa attraverso una lettura lenta e laboriosa, come prevede la labirintica topografia mentale e narrativa del suo autore. D’altra parte, per Gadda, la digressione è fondamentale strumento euristico, veicolo di crescente scandaglio della molteplicità di significanti e significati.
Il suo Gaetano Palumbo, sordo di guerra lo è diventato nell’azione di “quota 131”, vittima di una granata incomparabile. Un episodio con caratteri d’eccezionalità dentro l’eccezione dello stesso evento bellico. Da lì si crea il mito in una speciale condivisione che si allarga a cerchi concentrici fino a comprendere un variegato pubblico femminile, visto nella consueta ironia.
Si può isolare dall’eccezione un evento eccezionale? Per lo storico e cronista Mameli la guerra è eccesso tutta, eccezione comunque, “disastro”; per lo scrittore Gadda è facile trovare l’ulteriore eccesso nell’eccesso, cogliere il barocco del reale rendendolo stilisticamente piramidale, salvo poi farlo precipitare dal campanile di “quota 131” alle patate (tubero prediletto: “le care patate”) del consesso femminile che, altro non potendo, lo elegge ad argomento su cui ciarlare. Il precipitare dall’alto verso il basso, l’altalena linguistica e tematica sono, peraltro, movimenti che Gadda si concede nella prevalente staticità del suo procedere.
Iolando Fosci, il sordo di guerra di Mameli, è un pastore e agricoltore, quello di Gadda un vigilante delle Nistitúos (Associazioni di vigilanza).
“Quanto poi vi fosse d’eventualmente incompatibile fra sordità e vigilanza, fu problema annullato dalla religione dei ricordi”, così però commenta il Narratore gaddiano, dove per “religione” deve intendersi, secondo Emilio Manzotti, il culto dei ricordi dentro una comunità ormai immemore della guerra recente. Perciò “gli strappi della eccezione” sono ascritti alla “carnale benevolenza verso la creatura umana”.
E se Gadda si dibatte dentro il dubbio, tra “finalità etica” e “carnale benevolenza”, Mameli, viceversa, nella corsa inesausta fra episodi truci – resi vividi dall’esuberante lacerazione emotiva del ricordo, quasi in presa diretta – conferma l’istintiva necessità dell’apparente disumanarsi, non solo del suo sordo di guerra, ma del terribile, e davvero straordinario, episodio del muro di cadaveri – El Alamein (Egidio Lai) –, dove l’eccezione dell’ammasso di morti diventa imperativo esistenziale, riconfermandosi nell’ambito dell’umanismo se si ammette col Sartre di L’essere e il nulla che tutto ciò che accade nel mondo risale alla libertà e nulla di ciò che succede all’uomo può essere detto inumano. “Le più atroci situazioni della guerra, le peggiori torture, non creano di fatto uno stato di cose inumano. Non c’è una situazione inumana” (Sartre 1958), quando già L’esistenzialismo è un umanismo del 1946 postula che “l’uomo può farsi da sé quindi può farsi qualsiasi cosa: non esistono essenze, valori o norme che predispongano o guidino il suo farsi, ma non esiste neppure un limite di questo farsi, un non-possibile che delimiti in avanzo le sue possibilità”, dunque: “una teoria dell’azione e della storia” (Abbagnano 1989).
Nella Cognizione il vigile di Lukones, Pedro Mahagones o Manganones (il nome evoca i manganelli fascisti), dopo due anni di servizio, grazie alle indiscrezioni di un venditore ambulante, si rivela un sordo o, meglio, un ex sordo di guerra con altra identità: quella prelittoria di tale Gaetano Palumbo.
La storia inverosimile della doppia identità del Manganones potrebbe leggersi, secondo Manzotti, “come sintomo di una generale ‘sindrome Canella-Brunelli’ (del narratore)” nell’appercezione (in aderenza all’amato Leibniz) di una realtà ambigua e plurale.
Tutto scaturisce da una granata:
Il Mahagones – Palumbo – anche questa notizia si diffuse rapidamente, e fu il nocciolo dello scandalo, – aveva ottenuto a suo tempo, 1925, la pensione di sesto grado, categoria quinta, cioè quasi la massima di categoria, perché trovatosi a essere lasciato sordo da entrambi gli orecchi, da scoppio di granata “penetrante e dilacerante”. Nell’azione di quota 131. […]
Anche il capitolo della Chiave dello zucchero, Per 34 giorni ho fatto il sordo (Iolando Fosci), nasce col fragore delle bombe sopra il paese di Gonnosfanadiga, ma la storia del sordo di guerra comincia più avanti:
Non passano neanche cinque mesi dal massacro degli aerei e anche io – Fosci Iolando nato a Gonnosfanadiga il 19 agosto del 1923 – il tre luglio di quell’anno di morte 1943, vengo richiamato a fare la guerra. […] Facevo fino ad allora il contadino, il pastore come mio padre Giovanni coniugato Eleonora Tomasi morta a 99 anni. Il primo giorno istruzione per usare le armi, moschetti e pistole, il capo istruttore era Domenico Collu reduce dalla guerra di Abissinia.
A Iolando Fosci non piace quel lavoro.
Non alza la mano destra.
Non ha la tessera del fascio.
Viene punito.
E ha inizio la sua odissea: Cagliari, “Centocelle sud zona di Roma”, quindi il campo d’aviazione di Decimomannu, ancora Cagliari, Roma e Firenze Poggio Imperiale.
Era una località chiamata “zona per manovre di guerra”. Altre marce, sempre Viva il Duce, viva il Re, Alalà. Io zitto. Si mangiava male, brodo di bucce di fagioli e bucce di patate. Sempre in caserma, sempre marce, pulizia di armi, tiri. Così per mesi. Noi sempre in divisa. […]
Qui succede di tutto. Prima di mezzogiorno bombe a grappolo dal cielo, come a Gonnos, palle di fuoco, un’altra carneficina, muoiono in 250, Più di 300 feriti. La nostra caserma non è colpita. Ma tutto va avanti come sempre: Viva il Duce, viva il Re, Alalà. Io decido, senza pensarci neanche un istante: mi faccio sordo. Un altro sergente, alto come un campanile, mi urla in faccia.
“Perché non rispondi?”
Io sento tutto ma sto zitto, ho capito come butta la guerra, faccio la faccia da fesso.
“Chi sei?”
E io zitto
“Chi sei?” E io sempre zitto.
“Rispondi, figlio di puttana”
“Rispondi, brutto stronzo.”
“ Ti sbatto in gattabuia.”
[…]L’indomani mi portano all’ospedale di San Gallo. Faccio il sordo con tutti, anche con gli altri soldati. Mi visita un medico. A gesti gli faccio capire che non sento. Mi chiede di scrivere che cosa provo. Scrivo che non sento da quanto gli aerei il 25 settembre hanno bombardato Firenze, scrivo così: “dopo lo scoppio della bomba non sento più, ho rumore forte in testa”. Il dottore mi guarda e riguarda l’orecchio ha una lampadina sulla fronte, con una pinza mi controlla le narici, mi chiede tante volte come mi chiamo, e Iolando Fosci di fu Giovanni se ne sta zitto. Sta zitto anche con un altro medico che arriva e mi visita pure lui. I due medici si guardano. Uno di loro suona una campanella ma non mi frega, resto immobile, Iolando non si accorge proprio di nulla, eterna faccia da fesso. Sempre sordo e sempre muto. Il primo medico scrive su un foglio che conservo ancora: “Si dichiara che il soldato Fosci Iolando è affetto da marcata ipoacusia neurosensoriale bilaterale simmetrica da trauma acustico dopo scoppio di bomba limitrofa. Assegno venti giorni di riposo assoluto.”
In questa commedia Iolando era già stato preceduto dal genio e dalla penna di Carlo Emilio e dal suo sordo di guerra di cui è, evidentemente, emulo o doppio, suo malgrado, reiterando, per una bizzarra coincidenza, quella propensione per il doppio di cui Gadda è interprete sublime. Nella conclusione della Parte Prima della Cognizione si fronteggiano il colonnello Di Pasquale, col suo parlare napoletano, e Gaetano Palumbo. L’oggetto è la pensione di guerra conseguente alla sordità a causa della granata di “quota 131”.
All’ospedale militare centrale di Pastrufazio, davanti al secondo collegio di riforma, il Palumbo aveva richiamato i fatti, già ripetutamente verbalizzati a cura delle commissioni periferiche: evidenziando con drammatico accento di verità, in una assoluta coerenza del referto, le terribili fasi del “bombardamento”, culminato (per lui) nell’atroce esplosione che lo aveva ridotto alla sordità completa […]
Nessun trucco era valso a pescarlo, lui! in eventuale difetto di sincerità. Non l’improvviso annuncio, datogli dal colonnello in persona, della morte dello zio Manganones, che lo aveva nominato erede […] Non lo sparo improvviso d’una pistolettata a salva, che gli fecero in ufficio, dietro le spalle, a tradimento, una domenica, durante un temporale da mettere paura. Non il fargli vedere un biglietto da 50, sul tavolo, o un pajaro di nuova emissione, dicendogli mestamente: “te lo regala il patronato delle visitatrice: prendilo,¡anda!”.
Non l’incaricare qualche donnacola meno lercia del solito di chiamarlo, a mezza voce, per via, lungo gli ippocastani della Fortaleza, una sera o l’altra che lui non aveva un centesimo in saccoccia e viceversa molto argento vivo addosso: “Ciao tesoro, tesorone bello, ecc. ecc.: ma da te non voglio che mi dai niente, perché mi piaci: mi basta l’amore, ecc. ecc.”. Come si aprivano quegli occhi sudamericani della ragazza, nella stupenda sera! Parevano gli zaffiri della notte. E crodavano via gratis. Ma, essendo sordo, non c’era caduto.
Sia Gaetano Palumbo che Iolando Fosci sono accomunati dalla frode, non essendo sordi né l’uno né l’altro, ma se la sospensione dell’etica corrente in tempo di pace è giustificata per Iolando Fosci non può esserlo per Gaetano Palumbo, poiché i fini che si propongono sono totalmente diversi. Perciò, la sanzione che colpirà Palumbo – la revoca della pensione di guerra, a seguito della scoperta della truffa – viene commentata dal narratore gaddiano come “giusto rigore della legge” per il “significato etico” “che trascende onninamente il valore della cosa disputata”.
Di “ignavia” e “scioperaggine” l’Ingegnere taccia infine quanti, non avendo patito la guerra, “furono stimolati dalla non pensione a riflettere seriamente ai casi propri e a cercarsi, dico, un diverso e più dignitoso mezzo di sussistenza”.
Lungo questa strada, nell’uguale condivisione di valori, di momenti di verità e di pathos, Carlo Emilio Gadda e Giacomo Mameli si sarebbero incontrati volentieri.