Il Servizio sanitario nazionale di fronte al Coronavirus: alcuni dati

L’emergenza del coronavirus – così come ogni stato d’eccezione che modifica l’ordinaria rappresentazione della realtà quotidiana (possiamo richiamare un’analoga condizione nella fase acuta degli attentati terroristici degli scorsi anni o allo sconcerto legato alla crisi finanziaria del 2008, ma si potrebbe comprendere anche l’attuale crisi climatica) – costringe a un cambio di prospettiva e alla costruzione di un quadro di riferimento inedito, che non ha precedenti.
La velocità con cui riusciremo a costruire il nuovo quadro di riferimento è parte integrante del percorso di uscita da questo stato di eccezione, proprio perché il virus ci sta sfidando sulla velocità, ed è proprio la velocità di diffusione che ha messo a nudo la tenuta del sistema sanitario e la sua capacità di contrastare gli eventi estremi.
È evidente che, dalla prospettiva dell’emergenza, ciò che fino ad oggi abbiamo utilizzato come elementi di definizione (quantitativi e qualitativi) del sistema sanitario nazionale, anche nel confronto con altri sistemi sanitari, possa apparire non così rilevante, visto che la possibilità di controllare l’espansione del virus sottende il diretto coinvolgimento di altre infrastrutture materiali e immateriali come, ad esempio, il mantenimento dell’ordine pubblico, i trasporti, la comunicazione, il senso civico. In ogni caso, fra i tanti elementi attraverso cui leggere la tenuta del sistema sanitario sembra opportuno almeno considerare l’aspetto della sostenibilità e dell’universalità del servizio.
Lasciando da parte, per ora, le riflessioni sugli altri sistemi e sulle altre infrastrutture che influenzano e condizionano la diffusione del virus, possiamo, in primo luogo, ricordare alcuni dati strutturali, utilizzando, fra le diverse fonti: lo studio dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio che al tema della sanità in Italia ha dedicato un focus pubblicato a dicembre 2019 (e quindi prima del “caso” Covid-19), il 4° Rapporto sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale della Fondazione GIMBE (giugno 2019) e il Report dell’Osservatorio GIMBE “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale” (n. 7/2019, pubblicato a settembre 2019).
Nell’introduzione al focus, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio afferma che: “Il SSN, confrontato con i sistemi sanitari degli altri paesi industrializzati e, in particolare, con quelli europei, appare piuttosto efficiente (poco costoso) e, in base ad alcuni indicatori, anche abbastanza efficace” e aggiunge: “Tuttavia, negli anni si è assistito, in relazione con le politiche di consolidamento adottate, a un significativo disinvestimento nella sanità pubblica, che si manifesta con carenze soprattutto sulla dotazione di personale. La contrazione delle risorse ha favorito solo in parte miglioramenti dell’efficienza e un’efficace riorganizzazione dell’offerta. Ne sono derivate conseguenze sull’accesso fisico ed economico, soprattutto nel periodo della crisi, e uno spostamento di domanda verso il mercato privato”.
Nelle analisi della Fondazione GIMBE, il tema del “definanziamento” diventa centrale: “La crisi di sostenibilità del SSN coincide con un prolungato periodo di grave crisi economica durante il quale la curva del finanziamento pubblico si è progressivamente appiattita, in conseguenza di scelte politiche che negli ultimi dieci anni hanno determinato una rilevante contrazione della spesa sanitaria. Nel decennio 2010-2019, il finanziamento pubblico del SSN è aumentato complessivamente di € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07%. In altre parole, l’incremento del FSN nell’ultimo decennio non è stato neppure sufficiente a mantenere il potere di acquisto”. Il volume di risorse mancanti, a fine periodo, sempre secondo la Fondazione è pari a 37 miliardi di euro.
La declinazione tutta economica, che emerge dalle considerazioni dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio e da quelle della Fondazione GIMBE, conferma che l’attenzione al tema della sostenibilità fin qui adottata abbia escluso dall’analisi l’eventualità di utilizzare anche una logica dell’emergenza (delegata, nella funzione di coordinamento, alla Protezione Civile) e non abbia portato a una lettura di sistema utilizzando, ad esempio, le metodologie di stress test adottate, in maniera analoga e in questi anni, in altri ambiti, come quello bancario (causa e veicolo della propagazione della crisi finanziaria scoppiata nel 2008), o quello delle infrastrutture strategiche (dopo eventi estremi come il crollo del Ponte Morandi a Genova).
Il quadro ordinario del sistema sanitario può essere sintetizzato attraverso i dati seguenti:
- per spesa sanitaria pubblica corrente in rapporto al PIL, l’Italia si colloca, fra i paesi OCSE nel 2018, in una posizione centrale, con una percentuale del 6,5 nel 2018 (contro il 6,6% della media OCSE); il dato è inferiore a quello della maggior parte dei paesi dell’Europa settentrionale e centrale, degli Stati Uniti, che presentano la quota più elevata, del Giappone, del Canada e della Nuova Zelanda e superiore a quello dei paesi dell’Europa meridionale e orientale e quelli Baltici, ma anche rispetto a al dato dell’Australia, dell’Irlanda, del Lussemburgo;
- per valori pro capite, il SSN spende in media 2.545 dollari per ogni cittadino (equivalenti a 2.157 euro, al tasso di cambio medio 2018 e in parità di potere d’acquisto), un importo distante dai 4.483 euro della Norvegia e dai 4.285 della Germania;
- per quanto riguarda il personale medico, il dato di riferimento riporta, per il 2016 in Italia, quattro medici ogni 1.000 abitanti. La media europea è pari a 3,6. Diversa la situazione per il personale infermieristico, che vede in Italia la presenza di 5,6 infermieri e ostetriche praticanti per 1.000 abitanti, mentre la media europea si attesta su 8,4, sempre nel 2016.
- tra 2001 e 2017, i dipendenti totali del SSN sono diminuiti da 688.378 unità nel 2001 a 647.048 nel 2017 (41.330 in meno, pari a -5,8%). Il dato 2017 rappresenta il minimo registrato nell’intero periodo osservato, con 1.615 dipendenti in meno rispetto all’anno precedente. Nel 2017, è aumentato di 384 unità il numero dei medici, e ciò non accadeva dal 2009;
- il personale a tempo indeterminato del SSN nel 2017 è risultato inferiore a quello del 2008 per circa 42.800 lavoratori (42.300 stabili), con una riduzione continua a partire dal 2010 (complessivamente -6,2%). Il personale non “stabile”, che nel caso del SSN comprende i direttori generali e il personale contrattista, è diminuito del 35%;
La riduzione del personale è strettamente correlata all’adozione dei Piani di rientro regionali, il meccanismo operativo utilizzato a partire dal 2007, d’intesa fra Stato e Regioni, per ripristinare l’equilibrio finanziario della spesa sanitaria laddove emergevano dei livelli di disavanzo eccessivi. Gli interventi di riequilibrio della spesa si sono fondamentalmente basati sul blocco automatico del turn-over del personale, l’innalzamento automatico delle aliquote IRAP e dell’addizionale regionale all’IRPEF, il divieto di effettuare spese non obbligatorie e, in maniera selettiva, hanno riguardato interventi sulle piante organiche e sulla contrattazione integrativa aziendale, la rideterminazione dei posti letto e le ristrutturazioni ospedaliere, il potenziamento dei servizi territoriali, il rafforzamento dei controlli sull’appropriatezza e dei sistemi di monitoraggio, il miglioramento del sistema di programmazione degli acquisti di prestazioni da fornitori privati, l’introduzione di meccanismi di centralizzazione degli acquisti, gli incrementi delle compartecipazioni alla spesa a carico dei cittadini.
La procedura di riduzione dei disavanzi ha portato all’attuazione di “Piani di rientro” (piano standard) nel Lazio, in Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Sicilia (dal 2007 e tuttora in corso in tutte queste regioni anche sotto forma di commissariamento), in Liguria (dal 2007 al 2009), in Piemonte (dal 2010 al 2017), in Puglia (dal 2010 e tuttora in corso). Per queste ultime due regioni i Piani di rientro sono stati attuati in una forma più “leggera”, con dispositivi meno stringenti sul fronte dell’imposizione fiscale (aliquote IRAP e addizionali regionali IRPEF), in virtù di uno squilibrio contenuto.
Non hanno dovuto adottare i Piani la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna, la Toscana, l’Umbria, le Marche, la Basilicata e le regioni e province a statuto speciale (esclusa la Sicilia che è invece sotto Piano di rientro).
L’impatto complessivo sul personale sanitario si è quindi concentrato nelle Regioni in Piano di rientro, dove dal 2008 si riscontrano quasi 36mila 700 persone in meno, con un calo del 16,3% in quelle con piano “standard” e del 4,8% in quelle con piano “leggero”. Nelle Regioni a statuto ordinario, senza piano di rientro, la riduzione è stata del 2,2%, mentre le Regioni autonome hanno aumentato il personale del 2,4% (UPB).
La logica dei Piani di rientro, nella quale ha prevalso la scelta di risparmiare sul personale, ha fortemente segmentato la condizione delle singole regioni: nel 2017 la densità di personale a tempo indeterminato del SSN corrispondeva complessivamente a 8,1 per 1.000 abitanti nelle Regioni in Piano di rientro “standard” e 10,8 in quelle con Piano di rientro “leggero”, contro 11,9 in quelle senza piano e 14,8 in quelle autonome. Anche per i medici la differenza segue la stessa segmentazione regionale: 1,7 medici ogni 1.000 abitanti per le Regioni in Piano di rientro “standard”, 1,9 per quelle in Piano di rientro “leggero”, 1,8 per quelle senza piano, 2,4 nelle regioni autonome. Più ampia la distanza nel caso degli infermieri: 3,5 ogni 1.000 abitanti nelle regioni a Piano standard, 4,3 nelle regioni a Piano leggero, contro 4,9 nelle regioni senza piano e 5,7 in quelle autonome.
Ancora rispetto alla professione medica, il dato riguardante l’età media segnala un progressivo invecchiamento che si è accentuato negli ultimi anni: secondo i dati del Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato si è passati da un’età media di 43,5 anni nel 2001 a 47,2 nel 2009 e a 50,7 nel 2017. Inoltre l’Italia presenta la più alta percentuale di medici con oltre 55 anni di età sul totale: nel 2017 la quota over 55 aveva raggiunto il 54%, contro il 26,5% del 2005. Il dato medio dei paesi Ocse per il 2017 è del 34,5% (era il 25% nel 2005), ma nel Regno Unito è del 13,7%, in Irlanda del 20,2%, in Norvegia si ferma al 25%.
Ovviamente i dati di spesa e di disponibilità di personale medico e infermieristico trovano un riscontro del complessivo ridimensionamento dell’offerta di servizi ospedalieri anche attraverso la lettura di altri indicatori strutturali.
Eurostat e Ocse registrano per l’Italia, fra il 2006 e il 2017, una riduzione nel numero di posti letto per 1.000 abitanti negli ospedali: da 4 posti letto nel 2006 a 3,2 nel 2017. Il ridimensionamento riguarda un po’ tutti i paesi dell’Area Ocse, ma la Germania passa da 8,3 nel 2006 a 8 nel 2017, l’Austria da 7,7 a 7,4, la Francia da 7,1 a 6. A livello regionale, si collocano sotto la media la regione Puglia (3,1), la Campania (3,1), la Calabria (3,0).
In termini complessivi, nel 2017 il nostro Sistema sanitario contava su 210mila posti letto, di cui 189mila per degenza ordinaria (quasi il 90%) e 21mila (il restante 10%) per ricoveri diurni (day hospital e day surgery). Nell’arco di vent’anni, la riduzione complessiva dei posti letto è stata del 40% (erano in totale 350mila nel 1997, la differenza è dunque di 140mila posti).
Ancora, altri dati che si riferiscono all’accesso alle diverse tipologie di prestazione sanitaria e di dotazione di apparecchiature ad ambienti dedicati all’emergenza e che sono stati ripresi dall’Annuario statistico del SSN (Ministero della Salute) nel 2019, con valori riferiti al 2017, riportano in particolare che i reparti direttamente collegati all’area dell’emergenza dispongono, per il complesso degli istituti pubblici e privati accreditati, di 5.239 posti letto di terapia intensiva (8,77 per 100mila abitanti). 3.268 si trovano nelle regioni del Centro Nord (68,5% sul totale) e 1.665 nelle regioni meridionali (31,5%). Fra Centro Nord e Mezzogiorno la distanza nella disponibilità di posti di terapia intensiva è di circa un punto a favore dell’area centrosettentrionale (9,12 posti letto ogni 100mila abitanti contro 8,08 al Sud). In condizioni normali il numero medio di degenza in terapia intensiva è di circa 14 giorni, mentre il tasso di utilizzo (cioè i posti letto effettivamente utilizzati sul totale dei posti disponibili) nel 2017 è stato intorno al 50%. Ciò significa che, in linea teorica, al momento della diffusione del Coronavirus circa la metà dei posti letto in terapia intensiva era occupata da pazienti con altre patologie.
Per quanto riguarda invece la disponibilità di apparecchiature tecnico-biomediche, il Ministero della Salute riporta la presenza in Italia (al 2017) di 16.511 ventilatori polmonari presso le strutture di ricovero pubbliche (il 90,3% sul totale) e 1.783 presso le case di cura accreditate (9,7%) per un totale di 18.294 ventilatori. In Lombardia la quota sul totale è del 15,4% pari a 2.821 ventilatori, di cui l’86% nelle strutture pubbliche e il restante 14% nelle strutture accreditate. In Veneto sono invece attivi 2.004 ventilatori che coprono una quota dell’11%. L’Emilia Romagna dispone di 1.990 ventilatori, con una percentuale del 10,9% sul totale nazionale. Se rapportati alla popolazione si ottiene la disponibilità di 30 ventilatori ogni 100mila abitanti a livello nazionale, che diventano 28 in Lombardia, 41 in Veneto e 45 in Emilia Romagna.
È con questo quadro generale che l’Italia si è presentata di fronte all’onda inattesa del Coronavirus, un evento che sta sottoponendo il nostro sistema sanitario a un vero e proprio stress test in condizioni di emergenza.
Di fronte alla diffusione territoriale del virus, della sua velocità di propagazione e della relativa incontrollabilità, ognuno degli indicatori di dotazione strumentale e di disponibilità di personale diventa il segnale di un collo di bottiglia che condiziona la capacità di contenimento e l’efficacia delle misure sanitarie: il numero dei medici, il numero degli infermieri, i posti letto in generale, quelli di terapia intensiva, così come le apparecchiature e i dispositivi di sicurezza a disposizione di tutte quelle tipologie di personale sanitario e tecnico che sono a diretto contato con il virus, diventano dei limiti alle potenzialità di superamento in tempi brevi della fase emergenziale.
Anche la scelta, del tutto ovvia, ma drammatica dal punto di vista della sostenibilità del sistema, di provare ad allargare il potenziale di offerta – attraverso la creazione di ospedali da campo, l’allestimento in fretta e furia di nuovi posti in terapia intensiva, l’immissione di nuovo personale medico anche non specializzato, fino al richiamo di medici già in pensione, così come la spasmodica ricerca di mascherine e altri dispositivi di sicurezza o il ricorso a turni massacranti per il personale medico e infermieristico – fa ancora di più risaltare i limiti della strategia di tamponamento e di inseguimento di soluzioni che appaiono decisive nell’immediato e deludenti o inapplicabili poco dopo.
Più critico di tutti, fra i segnali di inadeguatezza dell’offerta, sembra infine essere il dato sul numero di operatori sanitari contagiati che si aggira ormai intorno alle 4mila unità con una curva di crescita correlata a quella dei contagiati fra la popolazione. Un fenomeno questo che erode alla base la capacità di contrasto del virus e accentua la sensazione collettiva di impotenza nei confronti dell’emergenza.
Nessuno era preparato in maniera adeguata all’impatto del virus e ciò che sta accadendo in Europa o negli Stati Uniti conferma che nessun sistema sanitario è stato concepito e organizzato anche nell’ottica di poter fronteggiare una “catastrofe”, pur sapendo che l’interdipendenza dei sistemi (non solo economici), a livello locale, nazionale e globale rappresenta la realtà oggettiva che si è venuta costruendo in questi anni di globalizzazione.
Charles Wright Mills, pubblicando nel 1959 L’immaginazione sociologica, poneva l’attenzione alla differenza fra problemi personali (trouble) e questioni pubbliche (issue) e al potenziale di deflagrazione che può produrre l’incapacità di leggere la forte integrazione fra istanze e bisogni individuali e dimensione collettiva. Forse dopo l’esperienza degli ultimi vent’anni contrassegnati da crisi globali, di cui questa del Coronavirus è solo l’ultima in ordine di tempo e molte altre continuano ad aleggiare tragicamente sulle nostre teste, bisognerà riflettere se sia giunto il tempo in cui occorre salire di scala e tornare a considerare la salute (così come la precarietà del lavoro, la disponibilità di un reddito adeguato o l’accesso discriminatorio a servizi essenziali) una questione pubblica e non un disagio del singolo individuo, superando l’ideologia che ha progressivamente degradato il sistema sanitario a un qualsiasi settore produttivo piegato a risultati prettamente economici.