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Il “secolo cristiano” del Giappone

Due film che si è potuto vedere di recente sono ambientati in Giappone nel periodo in cui l’Occidente era arrivato finalmente nella lontana e mitica isola di Cipango e aveva avviato quello che viene definito il suo “secolo cristiano” (1543-1639), iniziato con grandi successi e conversioni per poi concludersi con il tragico epilogo della serie di martiri cristiani e la cacciata di tutti gli europei.
15 Maggio 2017
Bruna Filippi

Due film che si è potuto vedere di recente sono ambientati in Giappone nel periodo in cui l’Occidente era arrivato finalmente nella lontana e mitica isola di Cipango e aveva avviato quello che viene definito il suo “secolo cristiano” (1543-1639), iniziato con grandi successi e conversioni per poi concludersi con il tragico epilogo della serie di martiri cristiani e la cacciata di tutti gli europei. Il primo film è Silence di Martin Scorsese e narra una storia di apostasia che comincia con un giovane gesuita sbarcato in Giappone nel 1634 alla ricerca delle ragioni del suo stimato maestro, il quale aveva rinnegato quella fede che poi finirà anche lui per rinnegare. L’altro, I 26 martiri del Giappone, è un film ritrovato da poco negli archivi cinematografici dei Salesiani e girato nel 1931 da Tomiyasu Ikeda, che racconta la storia del martirio di 26 cristiani avvenuta a Nagasaki nel 1597. Benché fra i due film e le due storie ci sia una distanza temporale importante (quello di Tomiyasu narra la grande svolta di atteggiamento delle autorità giapponesi verso i cristiani e quello di Scorsese si riferisce al periodo di quasi clandestinità dovuta alla più che quarantennale persecuzione): questo scarto non è sufficiente a giustificare la grande disparità di sguardo su questa realtà, dovuto senz’altro a due modi divergenti di considerare il fatto religioso.

Scorsese mette l’accento sul tradimento e sul conflitto interiore del giovane cristiano, mentre Tomiyasu tratta della conversione alla “vera salvezza” di una comunità cattolica che va incontro a una fine tragica. Il punto di vista dell’autore americano riporta tutto il dramma all’individuo, al suo foro interiore, come se la tragedia epocale che si sta svolgendo in questo paese esotico ed enigmatico si assorba e si risolva nell’intimo della persona del giovane apostata. Nel film niente traspare della vita, delle contraddizioni e delle abitudini del Giappone dell’epoca. Solo qualche ridicola sequenza caricaturale dei censori giapponesi con i loro ventagli, ci fa indovinare di essere finalmente in Giappone. In quel mondo il protagonista sembra incontrare solo dei poveri contadini fedeli che lo proteggono e lo aiutano, con i quali condivide le persecuzioni, anche se queste non fanno che scandire in maniera ossessiva i dubbi e le contraddizioni dell’anima del giovane gesuita. Un ostinato senso del sé s’intreccia così con le tentazioni e con le contraddizioni del “traditore”, di cui si conserva traccia fino all’ultima scena in cui il suo dramma interiore si risolve e dissolve nel catafalco. Questa prospettiva intimista viene naturalmente accompagnata da un accanimento quasi maniacale verso le pene corporali, la vista del sangue e le torture, al punto che ci si potrebbe chiedere se questo gusto macabro per la visione del dolore non sia dovuto alla propensione – tutta hollywoodiana – di gratificare gli appetiti degli spettatori, come nella sanguinolenta Passione di Mel Gibson.

Ben diversa è la sensibilità verso il mondo giapponese che traspare nelle sequenze del film di Tomiyasu, in cui si affronta e si rappresenta il conflitto aperto da una nuova religione e le difficoltà incontrate in quel mondo da un’intera comunità cristiana. Ambientata nel Giappone dell’epoca, la storia del martirio collettivo fa emergere le abitudini, i costumi e le scelte, attraverso le quali siamo introdotti in quel mondo raffinato e curioso che gli stessi missionari devono aver incontrato arrivando in questa terra lontana. Costruita secondo gli schemi narrativi tradizionali delle agiografie, in cui per altro si avverte il riverbero aneddotico della Storia del Giappone di Daniello Bartoli, le sequenze scandiscono le tappe del percorso di consensi e di opposizioni che la nuova religione suscita. È un film costruito secondo i canoni della tradizione agiografica che si prefigge di sollecitare nello spettatore quel “affetto devoto” e quella adesione al “fine ultimo” che ogni rappresentazione cattolica si propone. Il fine edificante e propagandistico di questo film è per altro dichiarato nelle ultime sequenze, quando compaiono le riprese delle celebrazioni per la beatificazione a Roma dei ventisei martiri giapponesi, a confermare l’intento commemorativo di alcuni eroi della religione cattolica così lontani nel tempo e nella loro specificità culturale.

Dalle storie alla storia

Sarebbe insensato domandare a due opere cinematografiche di rispettare la realtà storica e di rispondere ai criteri della filologia. Ogni opera di finzione non nasce per riprodurre la realtà e tantomeno per rispondere a esigenze documentarie. Eppure, evocare un personaggio o una situazione storica dovrebbe richiedere una maggiore vigilanza e una migliore documentazione da parte dell’Autore, anche per sollecitare nello spettatore un’attenzione curiosa verso un mondo e un tempo lontano.

Il Giappone si trova geograficamente agli antipodi dell’Europa, ma più che il luogo sono i suoi abitanti ad essere all’opposto degli europei per “i loro modi di fare”, come spesso commentano i gesuiti, primi attenti osservatori di questa cultura. Il futuro san Francesco Saverio, il primo missionario gesuita a sbarcare in Giappone nel 1549, riponeva molte speranze nell’arcipelago nipponico convinto, in base alle informazioni ricevute, che in quelle contrade “le genti hanno uno spirito curioso e sono desiderosi di apprendere delle nuove cose su Dio e su altre cose naturali”. Con questo ottimismo i gesuiti fondarono le prime missioni alcuni anni dopo l’arrivo delle navi portoghesi nelle coste nipponiche. Sin dall’inizio, l’impatto portoghese si fece sentire soprattutto sul piano economico e religioso ed ebbe immediate ripercussioni su quello politico. In quegli anni il Giappone stava vivendo una profonda crisi politica dovuta alla lotta accanita fra i diversi signori feudali per la supremazia territoriale, in corso da più di centocinquanta anni. L’arrivo dei portoghesi nell’arcipelago fece scoprire ai giapponesi l’esistenza della civiltà europea e, in particolare, la potenza delle armi da fuoco. Dopo aver appreso rapidamente le tecniche di fabbricazione dei moschetti, i giapponesi li riprodussero in serie e li introdussero sistematicamente nei loro combattimenti. Un grande stratega che contribuirà alla riunificazione del paese e alla fondazione del Giappone moderno, Oda Nobunaga, utilizzerà i moschetti nella battaglia decisiva di Nagashino nel 1575 e, proprio al fine di sconfiggere i monaci soldati buddisti, appoggerà le missioni cristiane.

La strategia d’insediamento delle missioni in questo paese, fondato su di una struttura sociale gerarchica a forma piramidale, era stata da Francesco Saverio intuita e spiegata sin dall’inizio a Ignazio di Loyola: “Parto con il disegno di recarmi prima dove risiede il re e poi nelle università dove fanno i loro studi”. La penetrazione dei gesuiti avvenne così cercando dapprima l’assenso degli intellettuali e delle alte gerarchie, le quali permisero poi ai missionari di fondare chiese e di diffondere l’apostolato negli strati popolari con l’apertura di ospedali, seminari per la formazione dei novizi e scuole. Il successo fu immediato e le conversioni si contarono a migliaia anche fra i nobili e i bonzi. Dalla regione di Ômura, nel 1582, partì persino un’ambasciata di quattro giovani principi giapponesi per Roma, per fare atto di sottomissione al sovrano pontefice Gregorio XIII. Arrivati a Lisbona nel 1584, i giovani furono accolti con entusiasmo in molte città del Portogallo, della Spagna e dell’Italia. Dalle cronache, in cui si raccontano le entrate trionfali e i cortei di questa strana ambasciata a Pisa, a Firenze, a Siena, a Perugia e a Viterbo, si può rilevare il grande stupore e la compiaciuta meraviglia che aveva suscitato il loro passaggio.

Prova tangibile del successo delle missioni gesuitiche in Giappone, questi ambasciatori erano stati tra l’altro preceduti dalla diffusione in Europa delle “lettere dal Giappone”: raccolte di missive in cui si raccontavano i progressi del cristianesimo che qui era stato accettato meglio di ogni altro paese d’Oriente. Sappiamo quanto le lettere, che ogni gesuita inviava a Roma per rendere conto dell’attività missionaria, siano state un vero e proprio “organo di governo”. Sant’Ignazio, fondatore della Compagnia di Gesù aveva messo a punto una vera metodologia epistolare, in cui oltre ai fatti accaduti nelle missioni, bisognava rendicontare le attività d’evangelizzazione (prediche, confessioni, esercizi spirituali, opere di misericordia spirituale e corporale…) e raccomandava un’attenzione particolare alla cosmografia, alla diversa durata del giorno, ai costumi locali e a ogni cosa “che sembri straordinaria, come di animali e piante sconosciute”. Queste lettere dovevano essere spedite a Roma in tre copie e per “tre vie”, cioè per tre percorsi e con navi diverse, nel caso in cui una di loro venisse persa. Si diffusero così, attraverso la vasta rete delle case e dei collegi gesuitici, le informazioni sui paesi recentemente scoperti e sui diversi aspetti delle culture e società umane che i gesuiti cominciavano a conoscere. Così, ritenendo la loro lettura come edificante, anche in Italia nel 1552, furono pubblicate le “lettere dal Giappone” di Francesco Saverio, che costituirono la prima stampa dell’epoca moderna sul Giappone e che diedero inizio a una vera e propria “moda letteraria”.

In Giappone però le cose stavano cambiando e la dipendenza delle missioni dal favore dei signori locali le legava alla loro fortuna politica, tanto da essere seriamente compromesse quando il signore subiva dei rovesci. La morte di Nobunaga nel 1582 portò al potere Toyotomi Hideyoshi che non dimostrò la stessa benevolenza nei confronti dei cristiani, preoccupato sopratutto dal gran numero di giapponesi convertiti. Nel 1586, nonostante i tentativi diplomatici dei gesuiti, Hideyoshi decreta infatti l’espulsione dei missionari, anche se dichiara che il decreto non sarà applicato a condizione che gli interessati si astengano da ogni tipo di proselitismo: “il Giappone essendo un paese di Kami (buddista), il cristianesimo non è una religione appropriata per i giapponesi”, proclama con il sostegno dei bonzi buddisti.

Altri problemi però cominciano a insorgere anche all’interno della Compagnia di Gesù, perché le missioni si erano progressivamente “giapponesizzate” con l’ammissione nella Compagnia di più di sessanta giapponesi, che rischiavano di “snaturare” l’Ordine per l’afflusso o il contagio di una cultura così diversa. Peggio ancora fu la perdita del monopolio dell’evangelizzazione da parte dei missionari gesuiti, dopo la penetrazione in Giappone degli ordini mendicanti (1593), provenienti dalle Filippine al seguito degli spagnoli. L’apertura di una chiesa nella capitale Miyako e l’ostentato proselitismo dei francescani e dei domenicani, incuranti del decreto di Hideyoshi, compromisero seriamente il rapporto di fiducia che fino allora i gesuiti avevano istaurato con l’autorità. Cominciarono così le persecuzioni, le distruzioni delle chiese, dei seminari e delle scuole, ma anche le defezioni e i casi di apostasia. È in questo quadro e in questo periodo che si colloca il tragico e spettacolare martirio dei ventisei martiri di Nagasaki (1597), trascinati incatenati a piedi dalla capitale Miyako fino al lontano luogo del supplizio ed esibiti in ogni città a titolo dimostrativo. Le persecuzioni si conclusero con la rivolta e lo sterminio dei cristiani di Shimabara, con la chiusura del paese e la cacciata di tutti gli europei nel 1639.

Per ben duecentocinquanta anni il Giappone diventerà così un paese blindato (sakohu).

L’altra faccia della luna

Alessandro Valigiano, organizzatore e amministratore delle missioni gesuitiche in Asia, scrivendo delle cerimonie, dei riti e dei costumi giapponesi, li considera “così differenti da tutte le altre nazioni che si direbbe che hanno fatto di tutto per non assomigliare a nessun altro” e, conclude dichiarando: “il Giappone è un mondo a rovescio di tutto ciò che è corrente in Europa; tutto è differente e contrario…”.

Confrontarsi con questa alterità e operare in questa realtà è stata per i gesuiti un’impresa sicuramente non facile, anche se, nel giro di pochi anni si erano dotati di strumenti linguistici (di una grammatica e di un primo dizionario trilingue giapponese-portoghese- latino) e di altri efficaci strumenti analitici, atti a colmare la distanza culturale che incontravano. Il più importante testimone del “secolo cristiano”, il gesuita Luís Fróis, oltre ad aver scritto una ponderosa Storia del Giappone, ha redatto un Trattato sulle contraddizioni e differenze di costumi fra gli europei e i giapponesi (1585), in cui sono raccolte diverse centinaia di annotazioni, riflessioni e considerazioni, basate sulla comparazione dei comportamenti dei due popoli all’alba dell’epoca moderna. La disparità dei comportamenti era enorme, ma lui ha saputo cogliere in maniera magistrale, con grande sensibilità antropologica, anche i più minuti dettagli della vita quotidiana: in quali situazioni si cammina scalzi, come ci si mette a tavola, come si cavalca, e finanche come si sputa, si rutta o si scoreggia. Anche l’antropologo Claude Lévi-Strauss, nei suoi scritti sul Giappone (L’autre face de la lune) in cui lo compara all’Occidente, partirà dalle tecniche materiali e confermerà non poche delle intuizioni dei gesuiti dell’epoca. Una sua indicazione conclusiva mi sembra però importante, per mettere in prospettiva anche la tragica storia del “secolo cristiano”: il rifiuto del Soggetto nella cultura giapponese. Per i giapponesi – sottolinea Lévi-Strauss – ogni essere è un arrangiamento di fenomeni biologici e psichici senza elementi duraturi, quali un “io” o un “sé”, i quali non sono altro che apparenza vana destinata a sciogliersi.

La “coscienza di sé” (jigaishi) si esprime attraverso il sentimento di ognuno nel partecipare a un’opera collettiva. La tendenza a definirsi secondo il luogo che si occupa in famiglia, in un gruppo professionale o in un ambiente geografico particolare, e più generalmente, nel paese e nella società, rimane una delle sue specificità culturali.

Dalla negazione dell’io, il giapponese trova un principio dinamico di organizzazione sociale. Forse, all’inizio dell’epoca moderna, nel periodo storico in cui la cultura del soggetto in Occidente cominciava a emergere e a imporsi, anche l’attenta osservazione dei gesuiti non era sufficiente a cogliere e tantomeno a comprendere questa disparità capitale.

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