Il papa nella piazza vuota

Il Coronavirus, che di sovrano ha finanche il nome, ha platealmente sconfessato i sovranisti, oggi, ma facilmente, domani, cederà loro lo scettro. In poche settimane, la pandemia ha scavalcato agilmente ogni confine, bellamente ignorando porti chiusi o muri alzati; ha reso vacui urlacci e indignazioni, mostrando anche ai più tordi che la scienza, la conoscenza, la professionalità e – sì – la competenza fanno la differenza tra la vita e la morte, che uno non vale sempre uno e che gli italiani sono venuti prima, sì, ma nella classifica del dramma; ha fatto evaporare la retorica contro gli immigrati, perché il nemico da temere non è un essere umano di un altro paese, colore, religione, ma una micidiale gocciolina di moccio che potrebbe abitarci in casa, se non già dentro di noi. Il sovranista è morto, dunque, lunga vita al sovranista. La politica, infatti, non è un esercizio di logica quanto un moto di passioni, di interessi, di umori e malumori. In tutto il mondo il nazionalismo, pur con le dovute differenze, si è risvegliato come reazione al declino. E tornerà più forte di prima quando il mondo entrerà pienamente nel dopo-pandemia. È facile prevedere che recessione e paura saranno, come sono sempre state, il carburante che propugnerà il revanscismo sovranista, la ricerca di un capro espiatorio ne sarà l’esito. E che tutto sarà ammantato di una retorica religiosa. Matteo Salvini e Giorgia Meloni in Italia, Donald Trump negli Stati Uniti, Vladimir Putin in Russia, Viktor Orban in Ungheria e Jair Bolsonaro in Brasile invocano Dio per rendere le loro politiche indiscutibili, per cementare improbabili alleanze sociali, per ricoprire di idealità svolte autoritarie. Ma anche per solleticare l’inconscio collettivo di popolazioni spaventate dalla globalizzazione, timorose di perdere i privilegi raggiunti nei decenni passati, sospettose nei confronti degli stranieri, turbate da una società che muta, multiculturale, pluralista, secolarizzata. Sventolare crocifissi, invocare Madonne, rivendicare il presepe sono messaggi di fumo a un elettorato smarrito e diffidente, nostalgico di un piccolo mondo antico, angosciato dal futuro ignoto. Poco importa che i leader sovranisti non seguano i dettami della Chiesa, tanto meno del Vangelo, poco importa che si rifacciano non al cristianesimo ma alla cristianità, intesa come marcatore identitario, e poco importa che in tutto questo la fede c’entri poco o nulla. La religione – i suoi simboli, le sue tradizioni, i rituali evocati – è come una vecchia foto di famiglia, sbiadita e confortevole. La strategia è spregiudicata, e ben coordinata. Nei giorni che hanno preceduto la Pasqua, Trump, Bolsonaro, Salvini e Meloni hanno ripetuto lo stesso mantra: apriamo le chiese per la settimana santa, sfidiamo il Coronavirus con Dio e la Madonna anziché la scienza. Una boutade a buon prezzo che avrebbe messo a repentaglio migliaia di vite, una strizzata d’occhio al mondo che segue i telepredicatori nelle Americhe e in Italia Radio Maria, un messaggio in sintonia con la superstizione miracolistica dei fedeli più semplici e conservatori. E un guanto di sfida a Papa Francesco. Jorge Mario Bergoglio è ben consapevole che in questi anni si combatte una battaglia cruciale per l’epoca che viene. Già da tempo parla di “terza guerra mondiale a pezzi”, denuncia le sperequazioni globali, avverte dalla catastrofe ambientale in corso e difende come può le ragioni dell’accoglienza nei confronti dei milioni di migranti e rifugiati in giro per il mondo. Fa politica, certo, perché predica il Vangelo. Ha colto immediatamente la portata della pandemia. Ha presidiato la devozione popolare, senza lasciare il campo ai populisti di destra: ha ovviamente accettato che venissero sospese le messe, per evitare la diffusione dell’epidemia, ma ha preteso che le chiese di Roma rimanessero aperte, sconfessando pubblicamente il suo cardinale vicario per la città eterna; è andato pellegrino, a piedi in una città semideserta, a pregare davanti alla icona bizantina della Madonna “salus populi romani”, a Santa Maria Maggiore, invocata come taumaturga dai romani a ogni disastro della storia, e al crocifisso ligneo di San Marcello al Corso, “miracolosamente” scampato a un incendio e poi, nel 1522, portato in processione per la città piagata dalla peste; ha pregato Dio, ha raccontato in un’intervista a “Repubblica”, di intervenire contro il Coronavirus: “Ho chiesto al Signore: ferma l’epidemia con la tua mano”. Agli sventolatori di rosari e crocifissi, il vescovo di Roma ha ricordato chi ha il copyright. Ma questa è solo la parte più facile, più scontata se si vuole, dei suoi interventi. Poi c’è la visione profetica. Quella che il Papa ha esposto in un denso discorso durante un momento straordinario di preghiera in piazza San Pietro la sera di venerdì 27 marzo. Le immagini del Pontefice vestito di bianco che, zoppicando, solca solitario e sotto la pioggia il colonnato berniniano hanno fatto il giro del mondo. “Siamo sulla stessa barca”, ha detto tracciando un parallelo tra l’umanità spaventata dal Coronavirus e gli apostoli spaventati sulla nave in tempesta nel lago di Tiberiade mentre Gesù sembra indifferente e dorme. “Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta”, le parole accorate del Papa. Che si sono accompagnate a un’analisi sottile di quello che ci sta accadendo. “In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi – ha detto il Papa sempre rivolto a Dio – siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: ‘Svegliati Signore!’”. Francesco è andato così al fondo della pandemia, ne ha colto il significato profondo. È il ribaltamento del discorso sovranista: niente miracolismo, niente superstizione, niente ripiegamento egoistico. La pandemia non è una punizione divina per chissà quale peccato della secolarizzazione – a Radio Maria si è sentito anche questo – ma è la rivelazione del peccato compiuto contro i fratelli. Quella di Jorge Mario Bergoglio è una visione apocalittica che chiama a riscoprire la solidarietà perché “nessuno si salva da solo”. Occasione di conversione alla fratellanza. “Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta”, ha detto il Papa rivolto a Dio: “Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri”.