Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Il Movimento di collaborazione civica

8 Giugno 2013
Augusto Frassineti

Qualche anno fa, una mattina, nel Castello Caetani di Sermoneta, sede del nostro Centro Residenziale, ricevemmo la visita di un Ispettore scolastico. Era la solita visita regolamentare di controllo, trattandosi quella volta di un Corso parzialmente sovvenzionato dal Servizio Centrale per l’Educazione Popolare: era la solita visita, ma non era il solito Ispettore. Il solito Ispettore, avendo vinto un concorso ed essendo ultimo in graduatoria, era stato inviato accortamente in Alto Adige.

Questo nuovo Ispettore non lo avevamo mai visto, e come poi fu chiaro, non aveva mai sentito parlare di noi. La sua informazione, in fatto di forme non tradizionali di insegnamento, comprendeva, come limite estremo, i Corsi di Scuola Popolare.

Lo ricordo bene, mentre attraversava il grande cortile del Castello, incespicando nelle sporgenze di roccia e guardandosi attorno spaesato e diffidente. Certo, l’ambiente era per lui del tutto desueto e, come sede di scuola, assai stravagante. Tanto più che in quei giorni una parte dell’ilustre maniero era occupata da una troupe cinematografica, ed erano ben visibili in giro i relitti cospicui di una battaglia dei tempi di Carlo V. Ma devo dire che il nuovo Ispettore era proprio – e subito tale ci apparve – una delle persone meno propense ad accogliere lietamente le novità della vita, benché fosse uomo di carattere mite.

Era sui sessant’anni, napoletano. Somigliava un po’ a Benedetto Croce. Vestiva con proprietà e portava la lobbia grigia un po’ di traverso. Ci venne incontro con l’aria di chi chiede simpatia: possibile che proprio lui, alla sua età, con tutta la sua modesta ma onorata carriera, dovesse incorrere in simili affronti?

La cordialità con cui si vide accolto da Cecrope Barilli e da me, sembrò rassicurarlo un poco. Ma la tenuta di lavoro di Barilli (calzoni di velluto a costa larga, non proprio freschi di stiratura, camicia azzurra americana con il colletto sbottonato, maglione di mohair, larghissimo e lungo fin sotto le natiche) lo rimise in sospetto, e si lasciò condurre nell’interno con animo, credo, non troppo diverso da quello di Don Abbondio quando saliva al castello, ipnotizzato dall’Archibugio dell’Innominato.

Né le cose migliorarono poi, benché Barilli, molto civilmente e con chiarezza didattica, cercasse di famigliarizzarlo per gradi con la natura e la metodologia dei Corsi Residenziali, illustrando la funzione educativa della vita di comunità come esperienza democratica, il lavoro intellettuale organizzato, il metodo della discussione, lo spirito di ricerca, i gruppi di lavoro, la partecipazione di tutti ai servizi della comunità, e infine i temi trattati durante il Corso: la famiglia, la scuola, l’autorità, la Patria e i metodi di una inchiesta sociale, l’inchiesta stessa condotta dai giovani nell’abitato di Sermoneta, l’impiego del tempo libero, e così via.

Per tenerci in clima manzoniano, il gioco delle parti era mutato, e l’Ispettore aveva l’aria di sentirsi come Lorenzo Tramaglino alle prese con il latinorum di Don Abbondio.

Alla fine, il bravo Ispettore, che era un po’ sordo, disperando di poter affidare alla propria memoria quella congerie di “spropositi”, tirò fuori un quaderno, la penna stilografica, e si dispose a scrivere sotto dettatura, con il gesto ampio di assestamento del braccio e dela mano dei vecchi scritturali di gogoliana memoria. “Scriviamo, scriviamo”, disse, strascicando la prima sillaba con tipica pronuncia napoletana. E ci guardò al di sopra delle lenti, docile, volenteroso.

Barilli cominciò a dettare, ma l’Ispettore lo fermò con un gesto. Prima di tutto voleva scrivere il nome dell’organizzazione, che non ricordava più.

“Movimento di collaborazione civica”, disse Barilli.

“Ah”, disse l’Ispettore. Cominciò a scrivere ma subito si fermò.

“Avete detto Movimento di?…”

“Movimento di collaborazione civica”, disse ancora Barilli, quasi sillabando.

L’Ispettore posò la penna, si tolse gli occhiali e ci guardò accorato scuotendo la testa. “Gesù, Gesù!”, esclamò, “ se ne sentono di tutti i colori”.

Ho narrato questo episodio vero, perché rispecchia abbastanza bene, sia pure in termini paradossali, una realtà che è essa stessa paradossale e che investe il problema della scuola e della funzione educativa in Italia: una realtà tanto diffusa quanto ovvia, e tuttavia sempre difficile da rappresentare a noi stessi, perché tutti ci riguarda e ci condiziona.

Afferma un vecchio adagio popolare che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Mi sembra che questo potrebbe il motto del sistema scolastico ed educativo italiano.

A considerare i “principi” e i programmi, si potrebbe di massima ritenere che a scuola si insegna la libertà. Ma il metodo in genere è quello che sappiamo: autoritario e stolto, idoneo a corrompere le coscienze invece che a formare persone libere. Né si vuole, naturalmente, gettare la croce addosso a tutti coloro che operano come educatori nella scuola italiana. vi sono, per fortuna, maestri e professori che, pure in una temperie avversa, riescono a far salvo il senso della loro missione. Ma la struttura burocratica delle istituzioni scolastiche, l’impostazione accademica, formale e nozionistica del sapere, la densità della popolazione scolastica, la struttura gerarchica dei rapporti, la configurazione fisica degli ambienti, la depressione economica degli insegnanti, il sistema squisitamente fiscale delle prove e delle interrogazioni, l’impossibilità, insomma, di configurare dentro la scuola un tipo di società comunque democratica, anticipazione e modello della più grande società e del divenire quotidiano, sono dati obiettivi e negativi di peso schiacciante, che il buon volere e il buon operare dei migliori non possono sostanzialmente modificare. Perciò quando si dice che vi sono due Italie, una del Nord e una del Sud, bisogna aggiungere che, sotto il profilo delle operazioni educative nella scuola, nella famiglia, nello stato, l’Italia è una sola e (absit injuria) tutta del Sud.

Questa è la nozione obbligatoria di partenza, per chiunque, nel nostro paese, voglia intraprendere opera educativa intesa a stabilire la unità e la continuità tra il dire e il fare, per chiunque creda in una possibile, educativamente parlando, Italia del Nord.

Il Movimento di collaborazione civica nacque sul finire del 1945. Di quel tempo, gli uomini di di buon volere che lo vissero, potranno dimenticare molte cose. Non dimenticheranno però la tensione morale che li indusse ai sogni più temerari, la carica utopica che li rendeva visionari convinti e che tuttavia, in una prospettiva storica non pedestre, li qualificava come i veri, gli unici realisti: quelli che sapevano in quale spirito occorreva operare per ricostruire non soltanto i ponti e le case e le strade, ma anche i viandanti e gli abitanti di quelle: non soltanto i “partiti” ma anche e prima di tutto gli uomini.

Nella Resistenza e dopo, nel vuoto di potere lasciato dallo sfasciume dello stato littorio, federale e prefettizio, gli Italiani avevano dato prove cospicue della loro capacità di edificare a se stessi una loro “Città”: uno stato che fosse la casa di tutti: forma concreta e unica di libertà. E allora era più che legittimo pensare che “sfatta l’Italia”, fosse possibile finalmente “fare gli Italiani”.

A questo pensavano le persone che, nel dicembre del 1945, diedero vita al Movimento di collaborazione civica, sottoscrivendo la dichiarazione che segue:

Noi uomini e donne di diversa fede e di diversa opinione politca, raccolti in un momento nel quale il dolore per le sventure che si sono abbattute sull’Italia si congiunge alla soddisfazione per la recuperata libertà,

riuniti nel sentimento del dovere di ogni italiano di adoperarsi perché l’Italia si sollevi dall’attuale stato di prostrazione e perché sia garantita la conservazione delle libertà democratiche, a così duro prezzo riconquistate,

concordi nel comune riconoscimento dei valori che sono presidio e fondamento di una libera democrazia quali: il rispetto della personalità umana; il principio dell’uguaglianza tra gli uomini, al di sopra di ogni diversità di razza, di religione, di nazionalità, di lingua e di cultura; il diritto dei cittadini a partecipare attivamente al governo della cosa pubblica; il superamento di ogni privilegio di nascita o di classe; l’esigenza che a ciascuno siano garantite uguali possibilità di vita e di sviluppo della propria personalità; il rispetto della verità e della libertà di informazione; la tolleranza di ogni fede e di ogni opinione; la libertà di pensiero, di stampa, e di associazione; convinti che il popolo italiano possa raggiungere un più elevato livello di vita materiale e morale soltanto attraverso la formazione di una coscienza civica, nella quale gli italiani, ispirandosi a quei valori ritrovino una migliore consapevolezza dei diritti e dei doveri che l’appartenenza a una comunità politica conferisce al cittadino,

desiderosi di unire i nostri sforzi per concorrere a questa opera di educazione civica,

abbiamo creduto di di fondare a questo fine un’Associazione denominata: Movimento di collaborazione civica e retta dal seguente Statuto:

(…) Art. 2: lo scopo del Movimento è di concorrere alla formazione, negli Italiani, di una coscienza civica e di promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita democratica del Paese.

Art. 3: il Movimento persegue il suo scopo: 1) promuovendo la libera discussione di tutte le idee e di tutti i programmi politici in uno spirito di mutua tolleranza e comprensione; 2) concorrendo alla conoscenza da parte degli Italiani dei dati obbiettivi che stanno a base dei problemi politici sociali; 3) favorendo tutte le iniziative nelle quali si dimostra e si sviluppa il sentimento della solidarietà umana fra i cittadini; rafforzandosi così la coscienza dei comuni interessi; 4) promuovendo gli studi e le esperienze che possono giovare e fornire una migliore preparazione a tutti coloro che esercitano o intendono esercitare un’opera volontaria di servizio ed educazione sociale; 5) concorrendo a formare nei cittadini, e specie nei giovani, la coscienza di servire una comunità.

A distanza di tanti anni, e resi circospetti dalle tante delusioni patite, possiamo anche sorridere nel rileggere questa prosa solenne, risorgimentale, nel rimeditare quei propositi messianici. Però i promotori del Movimento non erano i soli a “delirare” fra le nuvole della “Città del Sole”. E numerose furono le iniziative ispirate alla necessità di riedificare cominciando dalle fondamenta invece che dal tetto. Fra i movimenti più significativi coevi al M.c.c. basterà ricordare i Centri di Orientamento Sociale, creati da Capitini, o il Movimento di Comunità di Adriano Olivetti: piccole isole, e in certi casi, soltanto meteore. Ma sta di fatto che i più avveduti fra gli educatori del nostro Paese, si trovano ancor oggi a dover misurare le smisurate difficoltà del cammino necessario con lo stesso metro usato a quel tempo da pochi “visionari”. Dopo le prove fertili e fervide dei primi anni (e ci asterremo qui dal menzionare i molti “esperimenti” di quel tempo, limitandoci a ricordare le nostre esperienze singolari e rivelatrici nel campo dell’avviamento dei giovani al lavoro sociale volontario e nell’attuazione – la prima del genere in Italia – di un tipo di corso residenziale, destinato a influenzare in modo efficace e permanente le più diverse situazioni di lavoro sociale ed educativo nel nostro paese) il Movimento, nonostante la capacità e l’ostinazione dei suoi più convinti e assidui animatori (Ebe Flamini, Cecrope Barilli, Giuliana Benzoni, Angela Zucconi, Augusto Frassineti, eccetera) ebbe vita difficile; perché contro l’antivedere degli educatori, c’era la miopia dei detentori del potere. I quali, proprio, e con diligenza operosa, si diedero a ricostruire l’Italia cominciando dal tetto. Fuor di metafora la preoccupazione dei governi fu di restituire in gran fretta agli ordini dell’Italia burocratica e prefettizia la loro prisca efficienza, di abilitarli ancora una volta a vanificare, a sterilizzare e paralizzare gli impulsi democratici nuovi, la passione civile, i nuovi contenuti, che pure la Costituzione italiana codificava e proponeva come i soli legittimi. E quanto sia stato difficile negli anni tra il 1950 e il 1960 “tirare avanti” quando tutto, in Italia e nel mondo marciava all’indietro (tutto salvo la scienza dei megatoni e dei supermercati, dell’overkill e degli imballaggi di plastica), è inutile ricordare. Basta, a farsene un’idea, la considerazione dei termini in cui si svolge, ancor oggi, a vent’anni quasi dalla promulgazione della Carta costituzionale, la polemica sulle Regioni, il magma cioè di luoghi comuni e di selvatiche paure che ancora invischia il ragionare della nostra classe dirigente, non appena si configura il sospetto che “sta per accadere” qualcosa di decente: qualcosa per cui possa rischiare di compiersi organicamente il processo sempre avversato della identificazione fra stato italiano e popolo italiano, che è il solo senso possibile di qualsiasi operazione educativa non farisaica o forcaiola.

In questo quadro, in quella ostinata marcia all’indietro del decennio nero, associazioni come il Movimento di collaborazione civica altro non potevano che sopravvivere in un’ombra di semiclandestinità, rimanere e lasciarsi considerare una piccola faccenda stravagante, tenendo fede tuttavia, nell’angustia dei propri confini operativi, all’utopia delle origini. Così è stato per noi e per tutte quelle forze variamente disperse o arroccate che hanno perseverato nel credere di non doversi allineare, di non doversi inserire, nel credere che il fare poco ma bene, nella giusta direzione, conti più che il fare molto e male.

C’è stato dunque per il nostro Movimento un lungo periodo di quarantena, nel quale del vecchio albero, un solo ramo metteva ancora foglie: il Centro residenziale di Sermoneta, dove, nonostante tutto, dal 1949 a oggi si è potuto attuare ogni anno un programma abbastanza nutrito di Corsi residenziali, sia del Mcc che dei Cemea (organizzazione interessata ai problemi educativi dell’infanzia), offrendo così a numerosi Enti e ad alcune migliaia di persone un “servizio” non trascurabile per qualità ed efficacia rivolto alla formazione degli educatori in genere, degli educatori degli adulti in specie, e degli operatori sociali, professionisti e volontari.

Che il lavoro semiclandestino del Movimento, oltre che una giustificazione ideale (e su questo piano, si sa, le inevitabili smentite della realtà quotidiana non sono da mettere nel conto) avesse in sé i presupposti e la potenzialità di una politica educativa suscettibile anche in Italia (regione così poco danese) di più estesa e generale applicazione, capace anzi persino di salire agli “onori” dell’ufficialità, non appena qualcosa si “muovesse”: che cioè il Movimento non fosse un piccolo club di rispettabili e patetici sognatori; più correttamente, che anche i sognatori abbiano a questo mondo la loro funzione e un loro grado di utilità, poiché il mondo non è fatto soltanto di “governanti”, di “imprenditori” e di “ragionieri”, è oggi una constatazione della quale possiamo prendere atto con qualche legittima soddisfazione, non arrogandoci, s’intende, in esclusiva il lavoro dei veggenti, poiché sappiamo bene di non essere stati i soli a battere certe strade, ma ci accontentiamo – e ne avanza – di essere stati e di essere di quella “compagnia” e non tra gli ultimi arrivati.

Vi sono paesi dove i movimenti di scuola popolare, di servizio sociale e di educazione degli adulti formano parte integrante e cospicua della storia nazionale. Ma. In Italia, dopo l’invasione delle cavallette fasciste, di quel poco che prima si era pur fatto in alcune direzioni, non restava più nulla. E chi volesse fare la storia delle iniziative di servizio sociale inteso come funzione educativa, nell’Italia di questo dopoguerra, non potrebbe non dedicare un paragrafo al Centro di educazione popolare di Donna Olimpia di Roma, aperto dal Mcc nel 1951 e vissuto circa due anni: primo esemplare del genere nel nostro paese, destinato però (dacché le urgenze storiche vere e profonde possono esser frustrate e disviate dai loro fini naturali, ma non ignorate) a copiosa quanto avventurosa e talora anche sciagurata proliferazione, a opera di chi non aveva i mezzi e il potere per fare, al fine precipuo di poter dire di “aver fatto”. Chi non si occupa oggi di educazione degli adulti, di cultura popolare, di servizio sociale, e così via? Ma allora non era così.

Che a quel tempo esperimenti del genere avessero un valore esemplare, non sembra dubbio, e come si è detto, se pure il Movimento, per voler tener fede alla sua indipendenza, dovette ben presto arroccarsi su posizioni meno ambiziose e meno esposte, pure analogo destino toccò a Enti, associazioni e movimenti di analoga ispirazione, qualcosa, bene o male e nonostante tutto, ha continuato a muoversi verso una più aperta sensibilità rispetto a determinati strumenti tradizionali della funzione educativa, strumenti che è indispensabile valorizzare in uno Stato come il nostro, moderno per definizione, ma al tempo stesso arcaico e, sotto molti aspetti, decrepito.

C’è da chiedersi se, nel campo specifico dell’educazione degli adulti, non ci si sia mossi troppo tardi, specie rispetto al processo, che si presenta e si auspica ormai fatale e inarrestabile, di trasformazione e di sviluppo economico e culturale delle aree depresse del Paese; e se i mezzi destinati all’impresa non siano ancora, tecnicamente ed economicamente lontani, forse remoti, dalla sufficienza.

Ma in ogni caso, il fatto che il problema sia stato posto e sia pure timidamente affrontato a livello governativo e legislativo va registrato con soddisfazione, specie da chi, come i dirigenti del Movimento (i quali, ancora una volta, ben lontani dalla presunzione d’essere stati i soli a battere o a indicare certe strade, si onorano tuttavia di far parte della sparuta compagnia dei pionieri), ha posto da tempo il problema nei suoi vecchi termini, cioè nei termini di promozione culturale, di formazione di una nuova classe dirigente, di partecipazione consapevole degli interessati ai processi di trasformazione economica e di “sviluppo della comunità” (…).

Tornando ora a un discorso più generale che investa i modi di attuazione del programma educativo della Cassa per il Mezzogiorno e di qualsiasi altro programma del genere, nel nostro paese, è forse opportuno chiedersi quali siano i limiti naturali di autonomia degli enti collaboratori e quali siano i limiti naturali della possibilità di coordinare o addirittura di rendere omogenea mediante direttive dal centro l’azione degli enti medesimi. Stabilito che un’azione educativa qualsiasi ha senso soltanto entro un largo margine di autonomia, poiché il concetto di autonomia è connaturale al concetto di educazione (e qui si può dire che anche il diavolo è costretto, nell’Italia di oggi, a farsi cristiano, perché un ente che coltivi spiriti autoritari si sentirà esso pure impedito nei suoi pravi disegni da un’autorità esterna e superiore incline, per ragioni di decenza o di opportunità politica o di inconsapevole ambiguità a professare un credo educativo, a dir poco, liberaleggiante); stabilito anche che qualsiasi tipo di educazione presuppone un atteggiamento ideologico ben definito; e considerate infine le diversità ideologiche che caratterizzano gli enti attualmente impegnati nell’azione sociale e nell’educazione degli adulti, ne viene che un programma comune di lavoro che veda impegnate sul campo schiere di sì diverso colore, o consente a tutti e a ciascuno di condurre la battaglia secondo il proprio genio,, o, nello sforzo di omogeneizzare e i mezzi e i fini, darà vita necessariamente a un qualunquista-farisaico pasticcio che di educativo avrà soltanto l’insegna necessaria a distinguerlo come capitoo di spesa in ossequio alle norme sulla contabilità generale dello Stato.

In Italia, l’ambiguità del concetto di educazione discende dalle diverse spaccature ideologiche che segnano profondamente il contesto storico-culturale del paese (basterà dire cattolicesimo, laicismo, marxismo, per tacere di numerose altre possibili classificazioni), e se, nel dialogo tra persone di diversa ideologia è possibile a volte (poiché la vita è pur sempre felicemente contraddittoria) raggiungere una piena intesa, quando il dialogo si sposta sul piano dei rapporti, niente affatto personali e tantomeno socratici, fra enti e associazioni, allora i soli esiti possibili sono la rissa o il compromesso. Il quale compromesso consiste nell’eludere le questioni di fondo insieme alla ricerca di un linguaggio comune, limitando il discorso agli aspetti puramente strumentali, organizzativi e statistici della questione. Su questa base, un ente che ha organizzato quindici corsi di educazione degli adulti è più educatore di un altro che ne abbia organizzati solo quattordici.. e una tale constatazione esprime il limite di approfondimento della ricerca.

Mi è accaduto più volte di sedere attorno a un tavolo cui facevano corona esponenti qualificati di tutti gli enti e le associazioni di maggior prestigio in ambito educativo e devo dire che vi si respirava un’aria ninete affatto salubre, che non esisteva alcuna vera possibilità di dialogo, e che, nel grigiore generale, facevano spicco tanto situazioni, affermazioni, battibecchi gustosi o agghiaccianti, vere ghiottonerie per un collezionista di note di costume.

Ricordo una giovane assistente sociale che in uno di codesti incontri parlava a nome del servizio sociale di un grosso Ente di riforma. La sua relazione fu statisticamente ineccepibile, e l’elenco delle attività (corsi di scuola popolare, corsi di educazione degli adulti e simili) apparve addirittura imponente. Meno luminosa si fece la situazione, anzi addirittura tenebrosa, allorché mi azzardai a porre a quella persona alcune domande sui fini e sui risultati di tutto ciò, sia riguardo agli utenti dei servizi culturali in discorso, sia riguardo ai rapporti tra costoro e gli organi e e l’attività dell’ente di riforma. Non è che la risposta fosse non chiara o non abbastanza perspicua: è che l’interrogata si rivelò del tutto incapace di afferrare il senso della domanda, sebbene io provassi a riproporla in termini diversi e sempre più elementari. Alla fine, esasperata dal mio insistere, la brava ragazza non seppe far meglio che sciorinare l’elenco delle autorità presenti a non so quale rituale ricorrenza dell’ente, aggiungendo che al servizio sociale era stata conferita la medaglia.

Altra tavola rotonda, altro luogo, altro consesso. Una brava e colta signora, di sani principi morali e religiosi, esponente provinciale di una grossa associazione femminile, illustra molto onestamente le sue difficoltà di educatrice. Le tabacchine, per le quali lavora, sono un pubblico difficile. Come lavorano, cosa guadagnano, si sa; e sono povere donne, assillate da problemi elementari di sopravvivenza; hanno il marito e i figli disoccupati o peggio ammalati; hanno bisogno di tutto. Se frequentano il centro è solo o soprattutto perché sperano che a loro e ai loro familiari ne venga qualche immediato concreto sollievo. Impossibile con loro avviare un qualsiasi discorso sui “principi” morali. Non è questo che si aspettano, non è questo che vogliono. Che fare?

Per quanto quella mattina mi fossi proposto soltanto di ascoltare, mi parve, in presenza di una così fertile occasione di discorso, di dover dire la mia. E dissi (verità abbastanza ovvia) che in situazioni del genere il vero educatore degli adulti è il sindacalista o chi comunque accetti di svolgerne la funzione; perché il primo passo, in tal caso, è sempre e semplicemente l’acquisto della coscienza dei propri diritti sociali, l’acquisto della fiducia di poter mutare la propria condizione, lo stimolo di un interesse concreto da altri condiviso, la solidarietà nella lotta con i propri compagni di sventura, e così via.

La signora, che pure aveva onestamente posto la questione, apparve molto turbata da un simile corollario.

E ancor più turbata, addirittura scandalizzata, appariva una sua più anziana collega, anch’essa colta e pia: una brava, mansueta e trepida “nonnina” delle tabacchine, pronta, io credo, a subire il martirio per la salvezza dell’anima di una soltanto di quelle sventurate commesse alle sue cure spirituali.

Ebbene, anche questa nonnina volle dire la sua. Sveglia di mente, aveva ben capito il senso del mio discorso, che si configurava, nel suo linguaggio timorato, come “istigazione alla lotta di classe”; per cui, l’idea di insinuare nella mente di una tabacchina la speranza di un migliore destino, cioè la speranza di potere un giorno, poniamo, essere non più una tabacchina, ma una patronessa, le appariva come un diabolico criminoso disegno. Infatti, messa alle strette, non trovò alle sue tesi miglior difesa di questa: che insomma, “qualcuno deve pur fare la tabacchina!”

“Che fare?”, mi chiesi io a mia volta.

Uccidere la nonnina, oppure spiegarle, tentare, ancora, di spiegarle, che dietro il suo fare compunto e mansueto si nascondeva un ideale educativo estremamente forcaiolo e che infatti gli impiccati sono persone bene educate perché non sporcano i pavimenti?

Lasciai cadere il discorso. E questo lasciar cadere il discorso io credo sia il solo esito possibile di ogni tentativo (che pertanto giudico vano se non funesto) di instaurare rapporti di collaborazione organica in campo educativo, là dove non ne sussistevano le premesse ideali.

Naturalmente il giudizio si fa meno severo quando si tratti di istruzione tecnica e professionale, più che di educazione in senso stretto, benché non sia pedagogicamente corretto, considerare istruzione ed educazione come due categorie distinte. Ma, per quel che riguarda il lavoro educativo che lo stato intenda svolgere a mezzo di associazioni e di enti qualificati, direi che, una volta istituite le graduatorie di competenza e di merito con criteri quanto possibile immuni da valutazioni politiche troppo contingenti (e qui, che il dio degli eretici ci assista), una volta stabiliti e concordati gli scopi di massima dei programmi in armonia con i previsti interventi economici o comunque con le richieste e le necessità obiettivamente accertate, lo stato dovrebbe rassegnarsi a lasciare che le cose vadano pe la loro strada.

Voglio dire che l’autonomia degli enti non dovrebbe subire alcuna limitazione, salvo per quel che riguarda il rispetto delle finalità generali dei programmi, il coordinamento strumentale delle iniziative, l’onesta amministrazione del pubblico denaro e, come limite ideologico, il rispetto dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica.

Che poi, su queste basi oneste e chiare di autonomia ideale e metodologie, sia dovere di tutti e di ciascuno, organi dello stato, enti e persone, di promuovere rapporti quanto possibile estesi di collaborazione a tutti i livelli e su tutti i piani, sia riguardo alla reciproca informazione e all’utilizzazione delle esperienze di tutti, sia riguardo alla suddivisione dei compiti, sia, perché no?, riguardo ai metodi e ai principi (ché, in questo caso, collaborazione significa organizzazione del libero dibattito delle idee), questo è un altro discorso. E direi che lo stato, in questi termini, quando cioè sia consapevole di rendere un “servizio” e non pretenda, lui, di “salvare le anime”, ha un’importante e insostituibile funzione da svolgere.

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