Il lato B dell’eccellenza
Lo scorso agosto, poco dopo la pubblicazione dei risultati dell’esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca in Italia (Vqr), un noto economista ha proposto, a chiosa di un editoriale sul Corriere della Sera1, di chiudere le università nelle posizioni più basse della classisfica Anvur, nello specifico Messina, Bari e Urbino, in quanto inefficienti. In risposta all’economista, diversi commentatori rivendicavano un uso premiale della valutazione, non punitivo, volto a produrre profili di qualità, piuttosto che turni di soppressione, e criticavano la proposta di Giavazzi suggerendo che in altri paesi occidentali una tale provocazione non sarebbe stata benvenuta. La critica implicita era al concetto di chiusura, alla possibilità, in altre parole, che la valutazione in Italia potesse servire a scopi altri rispetto a quanto viene normalmente enunciato nel discorso pubblico: creare pratiche virtuose di giustizia distributiva e rimuovere i residuati di privilegio che ancora influenzano l’allocazione dei fondi pubblici. L’intera polemica era interessante: avveniva, infatti, negli stessi mesi in cui negli Stati Uniti proliferavano gli scioperi contro i test standardizzati e le strade di Seattle e Chicago si riempivano di docenti studenti e genitori in protesta, quasi a evidenziare una simile antinomia: in entrambi i casi l’eccellenza sembrava l’altra faccia del fallimento, e tanto più il discorso pubblico ne sottolineava l’esigenza, quanto più le strade, lì, si riempivano in protesta.
Vorrei rimanere sull’esempio statunitense perché la storia della valutazione è lì un pò più datata, e consente di vedere alcuni passaggi in modo nitido. Inizio da una riforma per certi versi “modello”, la riforma della scuola introdotta dall’amministrazione George W. Bush nel 2002, e poi perfezionata di recente dall’Amminstrazione Obama. Nel 2002 la No Child Left Behind si proponeva di migliorare il rendimento scolastico degli studenti delle scuole elementari e medie introducendo un sistema di valutazione nazionale standard, il cui compito era valutare anno dopo anno la capacità degli studenti di superare gli obiettivi richiesti, i cosiddetti Amo, Annual Measurable Objectives, sulla base dei quali valutare l’AYP della scuola, il suo Adequate Yearly Progress. Sulla carta la No Child Left Behind voleva dare a ogni bimbo eguali opportunità. Ogni studente sarebbe stato valutato attraverso test standardizzati con l’intento di misurare l’efficacia degli insegnanti e il valore di ogni istituto. Lo stato, poi, avrebbe distribuito risorse sulla base dei risultati di ognuno. Un incentivo al merito, dunque, con l’intento dichiarato di chiudere il divario educativo, il cosiddetto achievement gap, tra ricchi e poveri, bianchi e neri. Tale risultato richiedeva un uso estensivo di test standardizzati al fine di misurare la preparazione degli studenti e, attraverso quella, l’efficienza degli insegnanti e delle scuole, nonché quella dei programmi didattici. Il passaggio dall’input all’output è importante: l‘idea di misurare il learning output, piuttosto che l’input, come ha detto il Presidente dell’Enqa A. Hopbach2, indica “un cambiamento significativo all’interno dei sistemi educativi: il focus non sarà più su cosa si insegna, ma su ciò che si apprende. Fatto sta che vincolando a tali risultati il finanziamento pubblico, la No Child Left Behind è diventata “una enorme riforma senza fondi, che obbligava le scuole pubbliche a farsi carico di elevati costi aggiutivi senza avere i mezzi per farlo”, scrive John Bellamy Foster3, e che puniva il mancato superamento degli obiettivi preposti con la chiusura della scuola, quella che il governatore di New York Andrew Cuomo ha definito la death penalty for schools, la pena di morte per le scuole non meritevoli.
La No Child Left Behind è un modello nel suo genere, non solo perché è stata perfezionata dall’amministrazione Obama con la cosiddetta Race to the Top, ma perchè introduce l’idea di misurare il valore aggiunto di ogni istituzione attraverso la valutazione degli studenti, precedendo, per esempio, ciò che il decreto Ava introduce nell’istruzione terziaria in Italia, l’idea di testare i laureandi (si veda tutto il materiale sui cosiddetti TeCo, test sulle competenze dei laureandi) per misurare il valore aggiunto di ogni università e capire quali sono quelle eccellenti e, appunto, quelle inefficienti.
Fatto sta che anche qui il tentativo di valutare l’eccellenza vincolando i finanziamenti al merito è confluito in una specie di fallimento di massa: a maggio Arne Duncan, Ministro dell’Istruzione nell’amministrazione Obama, annunciava la chiusura di cinquanta scuole a Chigago e 23 a Philadelphia, la dismissione di migliaia di insegnanti precari e l’apertura di charter schools private al loro posto. Mentre Obama parlava di Race to the Top, di gara ai vertici, nel dibattito accademico statunitense diventavano sempre più frequenti le dichiarazioni pubbliche di dimissioni di docenti universitari, insegnanti e genitori boicottavano i test standardizzati nelle scuole, il New York Times disvelava come le scuole chiuse fossero sempre quelle dei quartieri più poveri e delle inner cities nere, e migliaia gli studenti si organizzavano nell‘uncollege movement, movimento privo di rivendicazioni propriamente politiche in cui, tuttavia, in pochi mesi convergevano migliaia studenti e drop-outs, incitando ad abbandonare l’università per diventare hack-ademics, hackers dell’accademia e autodeterminare così la propria istruzione e la propria vita.
Il processo è affascinante: l’uncollege movement, infatti, quale risposta pre-politica, mi verrebbe da dire, alla riforma dell’istruzione, nasceva non solo da una critica ai costi dell’istruzione terziaria, l’idea per cui, come ha detto Mike Rowe: “stiamo dando soldi in prestito che non abbiamo a studenti che non possono restituirli per formarli a professioni che non esistono più”. Ma l’abuso di test standardizzati: “siamo la prima generazione standardized test della storia”, ha detto Ankur Singh, diciottenne, nato durante la No Child Left Behind e ora hack-ademic. “Mi sentivo semplicemente solo”, dice, “tutto attorno a me c’erano studenti diligenti che si preoccupavano dei compiti, dei voti, dell’ACT, degli AP test…. Davvero è quello il solo scopo dell’istruzione”4?
“School failure”, chiusure, proteste, abbandoni e fallimenti: questa era, vista da vicino, l’altra faccia dell’eccellenza americana mentre l’Italia annunciava pimpante i risultati del suo primo ranking universitario. Tagliare gli atenei in fondo alla classifica, da questo punto di vista, sembrava un risultato inevitabile, più che l’idea bizzarra di un economista burlone.
In effetti, tutte le riforme recenti dell’istruzione, dalla scuola all’università, dal Bologna Process alla Race to the Top, nascono all’interno di uno stesso paradigma teorico: erano gli anni Sessanta quando la American Economics Association teneva la prima conferenza di Education Economics, destinata a mutare il lessico e le finalità dell’istruzione negli anni a venire. Inaugurata da T.W. Schultz e G. Becker, allievo di Milton Friedman e teorico del concetto di capitale umano, la Economics of education inserisce l’istruzione all’interno di uno schema neoclassico di costi e benefici suggerendo un ruolo centrale dell’istruzione nella crescita economica e nella competitività internazionale. Riprendendo il lessico della produzione snella, si trattava di ripensare la filiera dell’istruzione da monte a valle, riducendo così gli sprechi legati a investimenti non redditizi, come overeducation e mismatch, e ripensare gli investimenti sulla base di valutazioni di opportunità. I concetti di accountability, competenza, taylorizzazione della didattica o assessment nascono qui. Nei fatti, quello che si verifica a partire dagli anni Sessanta è una sorta di grande inversione: ora non sono più gli individui a inventare il mercato sulla base dei loro bisogni, è il mercato a produrre individui sulla base dei propri bisogni: scuole e università dovranno garantire la produzione di individui spendibili sul mercato del lavoro, nonché consegnare ricerca in grado di aumentare la competizione del mercato globale. L’università diventa allora un grande ufficio di collocamento in cui produrre l’offerta di lavoro per cui esiste domanda. Una sorta di grande catalogo Ebay, con la differenza che la merce in vendita viene al suo interno anche prodotta. Una fabbrica e un filtro da utilizzare per allocare gli investimenti laddove utili e intervenire così sulle storture del mercato – non a caso il rapporto McKinsey Education to Employment (2013) suggerisce di provvedere allo stoccaggio di informazioni sulle competenze di tutti gli adolescenti di 42 paesi al mondo attraverso il Pisa, Program for International Student Assessment, test standardizzato somministrato a 300 mila futuri lavoratori al fine di creare un database con le loro competenze e ridurre la disoccupazione “intervenendo sull’immobilità dei fattori produttivi” (leggi, sull’emigrazione) e sugli sprechi (leggi, sull’istruzione di massa): ordinati e stoccati in una grande banca-dati mondiale sarà allora possibile fare il matchmaking, operare come un vero e proprio cupido tra domanda e offerta. McKinsey lo chiama relationship-based hiring: produrre competenze, catalogarle e incrociare domanda e offerta, e il problema della disoccupazione non c’è più.
In un certo senso tutto questo era stato anticipato da un articolo del 1973 di Kenneth J. Arrow5 che descrive l’istruzione terziaria come un filtro e uno screening device. “L’istruzione terziaria, in questo modello, non contribuisce in nessun modo alla performance economica, né aumenta le capacità cognitive o la socializzazione”, scrive Arrow: “serve come un dispositivo di catalogazione: ordina gli individui secondo le loro abilità, e offre questa informazione agli acquirenti di lavoro”, in modo tale che possa conoscerle e scegliere. Come spiega Burdett6, c’è una duplice istanza nel testo di Arrow: non si tratta solo di catalogare, ordinare e schedare il corpo studentesco mondiale, ma di scremarlo: schedare e scremare le singolarità, si potrebbe dire, è il fine dell’istruzione secondo la Economics of Education, produrre “talenti”7 da una parte e personale non specializzato dall’altra, esperti e neets, “MacJobs” e “McJobs”. “L’università è un dispositivo di autoselezione che svolge una funzione di test”, scriveva Burdett, dove eccellenza e fallimento non sembrano più solo due facce della stessa medaglia, ma vere e proprie esigenze per rispondere alle richieste delle clusters di innovazione e produzione tecnologica di Silicon Valley da un lato, e a quelle di bassa manovalanza delle nuove aree sottosviluppate delle periferie d’Europa, dall’altro. Più che nuove e virtuose pratiche di giustizia distributiva, pertanto, una “forza distruttiva”, come la definivano i venture philantropists statunitensi, una sorta di shock doctrine, una “bomba” (cito Frederick Hess8) per radere al suolo il sistema pubblico dell’istruzione e consentire l’accesso al sapere solo laddove è economicamente vantaggioso. Nulla di nuovo, purtroppo, in questo progetto più che decennale, salvo il fatto che sta riuscendo.
1Francesco Giavazzi, La ragnatela corporativa, Il Corriere della Sera, 19 agosto 2013.
2 “Quality Assurance and Learning Outcomes”, ENQA Workshop Report 17, 2010, p. 4, in Adamson et al, Quality assurance and learning outcomes, 2010.
3J. Bellamy Foster, Education and the Structural Crisis of Capital, Montly Review Press, Volume 63, Issue 03, July-August, 2011.
4Ankur Singh, Who am I and why you should care, www.unitedoptout.com
5 Kenneth J. Arrow, Journal of Public Economics, 1973, vol. 2, issue 3, pp. 193-216.
6 Kenneth Burdett, The testing and sorting functions of higher education, Institute for Research on Poverty, 1976.
7Mi riferisco in particolare al testo di Edward Michaels, Helen Handfield-Jones, Beth Axelrod, The war for talents, McKinsey & Co., 2001.
8Frederick Hess, How Many Billionaires Does It Take to Fix a School System?, “New York Times”, March 9, 2oo8.