il Cpr di Macomer, al centro della Sardegna

A Macomer, al centro della Sardegna, c’è un ex carcere dove decine di cittadini stranieri vivono rinchiusi, aspettando che altri decidano della loro sorte. In Italia non è l’unico: ce ne sono altri 9, distribuiti per tutta la penisola: Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervasio, Brindisi-Restinico, Bari-Palese, Trapani-Milo e Caltanissetta-Pian del Lago. Si chiamano Cpr – Centri di permanenza per i rimpatri – e sono tutti accomunati da cattiva gestione e da prassi che la stessa magistratura ha definito “indecenti” e lesive della dignità umana.
In Italia il trattenimento nei Cpr dovrebbe avvenire solo in caso di rimpatrio difficoltoso, e soltanto qualora non sia possibile attuare misure “meno afflittive”. Deve inoltre durare il tempo strettamente necessario: il periodo massimo di permanenza nei centri è attualmente di 90 giorni, ai quali se ne possono aggiungere altri 30 nel caso in cui i trattenuti provengano da un paese che ha sottoscritto accordi di riammissione con l’Italia. Accordi che, nella maggior parte dei casi, significano intese informali tra forze di polizia.
La finalità principale dei centri dovrebbe dunque essere quella del rimpatrio. Dai dati forniti dal rapporto della Cild (Coalizione italiana libertà e diritti civili) emerge però che la percentuale delle persone rimpatriate è stabile sul 50% da anni, indipendentemente dalla durata del trattenimento e dal numero complessivo di stranieri trattenuti ogni anno. Si tratta quindi di un sistema fallimentare fin dai suoi presupposti, e nei fatti essenzialmente punitivo. Uno degli scopi effettivi è lo scoraggiamento alla permanenza nel paese: risulta difficilissimo ri-ottenere la regolarizzazione, e non è raro che gli stranieri vengano presi in una spirale che li “rimbalza” da una detenzione all’altra.
Altro punto critico è quello della gestione delle strutture, che per legge vengono appaltate a enti privati. A questo scopo il governo italiano ha stanziato, dal 2018 al 2021, ben 44 milioni di euro: circa 11 milioni l’anno. Nelle gare d’appalto viene favorito chi propone piani di spesa al ribasso, tagliando dunque sui costi dei servizi essenziali per i trattenuti. Pratica che lascia comunque un margine di lucro, perché il denaro viene fornito all’ente in base alle spese giornaliere pro capite. Quindi, quanto più a lungo dura la permanenza del trattenuto, tanto più il gestore ci guadagnerà. Così si configura un sistema “tritacarne”, che crea terreno fertile per prassi che violano i diritti umani.
Il primo a essere messo in discussione è il diritto alla salute dei trattenuti. I servizi di base (supporto psicologico, assistenza medica) che l’ente gestore è tenuto a fornire sono spesso gravemente insufficienti, in quanto le amministrazioni dei centri adottano arbitrariamente lo schema di dotazione del personale che gli consente di assumere il meno possibile. Tali servizi dovrebbero poi, per legge, essere complementari a quelli del Servizio Sanitario Nazionale e dei Serd, coi quali le prefetture di competenza dei centri dovrebbero stringere degli accordi. Ma, nella maggior parte dei casi, tali accordi risultano assenti o in fase di aggiornamento
I trattenuti nei Cpr subiscono una condizione di isolamento su tutti i fronti. All’ingresso nei centri vengono privati dei propri dispositivi mobili, o ne vengono lasciati in possesso previa messa fuori uso della fotocamera. Gli apparecchi fissi che per legge devono essere forniti dal centro sono spesso troppo pochi, guasti o collocati in posizioni che non garantiscono alcuna privacy, e programmati per non ricevere chiamate in entrata. Ma, soprattutto, il loro utilizzo è subordinato alla disponibilità economica dei trattenuti. L’accesso viene infatti consentito solo tramite schede telefoniche, che gli stranieri comprano direttamente dall’ente gestore con il proprio pocket money. Inutile dire che i Cpr mancano totalmente di computer e wi-fi funzionante, compromettendo ulteriormente il diritto alla comunicazione con l’esterno.
Questo inficia in maniera importante un altro diritto, quello alla difesa: i legali che assistono o hanno assistito “ospiti” dei Cpr lamentano ostracismo a tutti i livelli. Il garantismo a favore dei trattenuti è assai scarso, specie per quanto riguarda le (importantissime) udienze di conferma e proroga dei trattenimenti. Spesso tali udienze si svolgono in locali non idonei, senza che all’imputato venga fornito un adeguato servizio di traduzione o addirittura in assenza dell’imputato stesso.
In un quadro come questo, purtroppo, non stupisce che “episodi di autolesionismo, risse, incendi, rivolte, danneggiamenti, suicidi consumati o tentati, scioperi della fame e decessi” siano all’ordine del giorno nei Cpr. Le cause sono varie: alla natura intrinsecamente violenta e ansiogena del trattenimento si aggiungono le condizioni di detenzione, i maltrattamenti, e, come si legge nel rapporto Cild, “gravissime violazioni del diritto alla salute” accompagnate dall’“assenza di protocolli o interventi di prevenzione dei rischi”, che negli ultimi tre anni hanno portato al decesso di ben sei trattenuti in circostanze tutt’altro che trasparenti. Spesso l’unico “protocollo” è quello della repressione violenta. Quasi sempre per il trattenuto l’atto estremo volontario rappresenta l’unico modo per protestare efficacemente, per vedersi garantiti i diritti negati. E, da ultimo, per farsi sentire anche “fuori”.
Ultimo aspetto degno di nota è quello delle misure (non) adottate nei centri per far fronte alla pandemia di Covid-19. Il primo fatto da evidenziare è che, nel momento in cui i confini nazionali sono stati chiusi causa pandemia il trattenimento degli stranieri nei Cpr è divenuto del tutto illegittimo. Il motivo è semplice: il fine della detenzione amministrativa nei Cpr è il rimpatrio, ma nessun rimpatrio è possibile con i confini nazionali chiusi. Inoltre le procedure di sanificazione e quarantena non sono state quasi mai applicate, generando focolai della malattia e gravi tensioni interne ai centri. Le campagne di vaccinazione, in data settembre 2021, risultavano non iniziate o in notevole ritardo.
Il Cpr di Macomer
Il Cpr di Macomer, operativo dal 20 gennaio 2020, è l’unico in Sardegna. La struttura è quella dell’ex penitenziario di Macomer e la capienza massima è attualmente di 50 persone, ma si prevedono lavori di ristrutturazione che la aumenteranno di altri 50 posti. Il Cpr si colloca al centro dell’isola, lontano da tutti i porti e gli aeroporti, concepito come un carcere di massima sicurezza. Questo, oltre a ricordare l’annoso utilizzo coloniale della Sardegna, si pone in netta contraddizione con le finalità di rimpatrio.
Il gestore del centro è stato finora il Gruppo Ors, già oggetto di un rapporto di Amnesty International per la cattiva amministrazione di strutture d’accoglienza in Austria e Germania. A partire dal gennaio 2022 il testimone è passato a Ekene, emanazione della cooperativa Edeco, associazione veneta “nota come “coop pigliatutto” per avere controllato buona parte dell’accoglienza veneta dal 2011”. La cooperativa è “tristemente conosciuta per la mala gestione di alcuni centri di accoglienza veneti, in particolare dell’hub nell’ex base militare, Cona (VE) e di Bagnoli (PD)”, per cui era stata denunciata da più parti. Il gruppo Edeco ha inoltre a suo carico svariate inchieste e procedimenti giudiziari, che alle accuse di maltrattamenti e cattiva gestione aggiungono quelle di “turbativa d’asta, frode nelle pubbliche forniture, corruzione, abuso d’ufficio, rivelazione del segreto d’ufficio, falso”. Questo non ha impedito alle diramazioni del gruppo di assicurarsi appalti per l’accoglienza dei migranti: oggi Ekene gestisce anche il Cpr di Gradisca d’Isonzo (GO), noto per le condizioni di trattenimento estremamente dure.
Quanto alle presenze, Francesca Mazzuzi, responsabile regionale della campagna LasciateCIEntrare e membro dell’assemblea NoCpr di Macomer, dice: “Nonostante le scarse informazioni trapelate dall’interno, grazie ai report periodici del Garante nazionale e a qualche interlocuzione con la Prefettura di Nuoro sappiamo che, sin dall’apertura, il centro è quasi sempre al completo. Buona parte degli stranieri presenti nel Cpr di Macomer provengono dal carcere o da altri Cpr, trasferiti in Sardegna anche da altre regioni a volte anche immediatamente dopo lo sbarco e un periodo di trattenimento sanitario nelle navi quarantena”.
Già a pochi mesi dall’inizio dell’attività del centro è stato chiaro che quanto avviene al suo interno rispecchia tutti i punti di criticità riscontrati negli altri Cpr della penisola. Si ritrovano le prassi sopra descritte per quanto riguarda la violazione del diritto alla comunicazione e alla difesa, con sequestro dei telefoni cellulari all’ingresso e legali informati delle proprie nomine pochi minuti prima delle udienze. L’assistenza sanitaria è caratterizzata da carenza di personale alle dipendenze del centro, “ritardi nelle cure, un uso diffuso dei sedativi e la difficoltà di accesso al servizio sanitario nazionale”. Sono trattenute varie persone con problemi psichiatrici o con dipendenze, che in via teorica non avrebbero dovuto superare la visita di idoneità.
In un quadro come questo non sono mancati gli eventi critici: nel maggio 2020 un giovane di 28 anni si è arrampicato sul tetto del centro, ed è “caduto”. Il suo era un atto di protesta contro l’ennesima convalida del proprio trattenimento, nonostante avesse, come racconta Mazzuzi, le carte in regola per ottenere il permesso di soggiorno. In più già nel maggio 2020 le frontiere erano chiuse, rendendo, come detto, trattenimenti e proroghe del tutto illegittimi.
Nel giugno 2020 sono scoppiate delle proteste contro le condizioni di trattenimento e in difesa di J., cittadino marocchino che si era cucito la bocca così da non poter più mangiare. In tutta risposta, secondo quanto riportato da altri reclusi, J. è stato preso con la forza e trascinato per terra fino all’infermeria. Questo ha inasprito la tensione tra i suoi compagni, che hanno deciso di sostenerlo salendo sul tetto del centro per far sapere all’esterno quanto stava accadendo. In seguito a questi fatti una delegazione composta da un’aderente a LasciateCIEntrare, un rappresentante dell’ASCE (Associazione Sarda Contro l’Emarginazione), una Consigliera regionale, tre legali e il Garante dei detenuti di Oristano ha fatto richiesta di accedere al centro. Dopo un iniziale rifiuto, è stato accordato il permesso di ingresso solo alla consigliera regionale Orrù e, la settimana successiva, alla stessa Orrù insieme a un’altra consigliera, Laura Caddeo, e al Garante di Oristano. Come da prassi, la Prefettura di Nuoro ha negato l’accesso a ogni rappresentanza della società civile, senza fornire spiegazioni di sorta.
Questo è coerente con una linea istituzionale che Mazzuzi definisce poco collaborativa, omertosa secondo un comunicato di LasciateCIEntrare e dell’Associazione sarda contro l’emarginazione (Asce) e che non vale solo per la Sardegna ma a livello nazionale. Nel caso specifico, se interrogata da associazioni e figure istituzionali sulla gestione del Cpr, la Prefettura di Nuoro è sempre rimasta in silenzio, o ha fornito risposte positive sul funzionamento del centro ma sempre mantenendosi sul vago. Il quadro è completato dall’assenza di un Garante dei detenuti regionale, a cui devono supplire quelli locali. Non essendo chiaro a quale di questi debba far riferimento la zona di Macomer, finora se n’è incaricato il Garante di Oristano.
Del lavoro sul territorio, come abbiamo già accennato, si occupa NoCpr Macomer. Si tratta di un’assemblea costituitasi nei primi mesi del 2020, poco dopo l’apertura del centro, e, come ci ha spiegato Michele Salis dell’Asce, è di varia composizione: all’Asce e a LasciateCIEntrare si aggiungono l’associazione culturale Eutopia, lo Spazio Antifascista di Nuoro, i rappresentanti cagliaritani di Fridays for Future, il collettivo S’Idea Libera di Sassari, diverse realtà antirazziste di Cagliari e vari altri gruppi. Essendo realtà sparse per tutta la Sardegna, Mazzuzi e Salis ci parlano di difficoltà a organizzarsi in modo organico, specie durante la pandemia.
In ogni caso l’impegno concreto non è mancato, e si è concretizzato soprattutto in alcuni campi quali il supporto ai trattenuti e le attività di monitoraggio, frutto di sforzi congiunti dell’assemblea e di legali, Garanti dei detenuti e rappresentanze istituzionali. Decisivi in questo senso sono stati gli ingressi nel centro di cui sopra e la possibilità di effettuare chiamate in entrata, che in Italia è garantita nel solo Cpr di Macomer. Fondamentale tra le attività dell’assemblea è anche quella di denuncia attraverso il dialogo con i media e le istituzioni. Mazzuzi pone l’accento in particolare sull’opera di sensibilizzazione e informazione. Da questa emerge come “le persone che stanno fuori non hanno neanche la percezione che ci sia questa struttura, non sanno cosa succede lì dentro”. Giusto a chi vive vicino al centro capita di sentire le grida che vengono dall’interno, o il viavai delle ambulanze dopo gli “eventi critici”. “In queste condizioni”, continua Mazzuzi, “è difficile riuscire ad avere un largo consenso sulla questione Cpr”.
“Solo entrando e monitorando”, conclude Francesca Mazzuzi, “si ha la possibilità di capire cosa succede e di far valere i diritti, perché sappiamo che sono dei luoghi in cui i diritti vengono violati”. Oltre a questo, tuttavia, la necessità maggiore sembra quella di ripensare totalmente la politica migratoria, a partire dalle narrazioni a essa legate. Compito arduo, se si pensa a quanto un sistema di gestione come quello attuale sia profondamente legato ai modelli culturali prevalenti, primo fra tutti quello neoliberale. Che tra gli “ultimi” crea un ulteriore bacino di ultimi degli ultimi, di invisibili. Il terreno è più che mai fertile per sistemi di vessazione come quello dei CPR, che passano indenni sopra le teste di molti.
Fonti e letture di approfondimento
ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, Il libro nero del CPR di Torino, 2021
CILD – Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Buchi neri, Antigone Edizioni 2021.
Senatore Gregorio De Falco, Delle pene senza delitti. Istantanea del CPR di Milano, Roma – Milano, 24 luglio 2021
Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Rapporto sulle visite effettuate nei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) (2019-2020), Roma, 9 marzo 2021
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