Il cavallo e la torre

Alla fine di questa campagna elettorale in Emilia Romagna, di fronte a risultati che hanno ribaltato le previsioni pessimistiche della vigilia, cinque immagini spiccano su tutte le altre. La prima, inevitabilmente, è quella delle Sardine. Mi riferisco, in particolare, al modo in cui sono comparse sulla scena, molto più interessante rispetto alle improvvisate prese di posizione che hanno caratterizzato le ultime settimane del movimento. Mi riferisco, cioè, a quel moto spontaneo che a metà dello scorso novembre ha portato in Piazza Maggiore a Bologna migliaia di cittadini convocati da quattro ragazzi attraverso l’uso intelligente (una volta tanto) dei social media, innescando una reazione a catena che ha permesso di replicarlo con successo in molti altri luoghi. Quel semplice gesto collettivo ha spostato il terreno del confronto depotenziando la retorica salviniana e ha fatto ricomparire nelle piazze, in carne ed ossa, persone che nessuna organizzazione è più in grado di mobilitare (ammesso che a qualcuno interessi veramente farlo). Quelle piazze hanno mostrato che la società possiede ancora anticorpi, e sono state importanti per riportare verso l’alto l’asticella della partecipazione al voto.
Quelle piazze hanno mostrato che la società possiede ancora anticorpi, e sono state importanti per riportare verso l’alto l’asticella della partecipazione al voto
La seconda immagine è quella di Salvini, di cui si continua a sopravvalutare l’intelligenza politica. Ben poco intelligente è stata la sua campagna, ossessiva ed eccessiva, provocatoria e prevaricatoria, supponente nell’esibire la certezza che sarebbe bastata ad espugnare un territorio che – pur nella mutazione profonda – conserva ancora i segni tangibili di una storia che non può essere facilmente e completamente piegata all’egoismo e al razzismo o a una subdola riproposizione del fascismo. L’episodio messo in scena nel quartiere popolare del Pilastro, a Bologna (l’ormai famosa citofonata al ragazzo italo-tunisino accusato di spaccio davanti alle telecamere), con il suo nauseabondo puzzo di sopraffazione e violenza, ha messo in allarme anche gli indecisi, li ha spinti a reagire alla paura recandosi al seggio.
È proprio la paura la protagonista della terza immagine. Anche quando hanno reagito per affermare valori antitetici a quelli propugnati dalla Lega, anche quando sono scesi festosamente in piazza, quando hanno usato l’ironia, quando hanno riscoperto l’orgoglio, i cittadini sono stati spinti prima di tutto dalla paura di ciò che sarebbe potuto accadere se il governo regionale fosse caduto nelle mani di una destra aggressiva e priva di scrupoli. La paura si è insediata nel discorso politico come il principale canale di mobilitazione. E questo peserà negativamente in futuro, se le “passioni tristi” continueranno a prendere il posto del conflitto sociale.
Poi c’è l’immagine del Movimento 5 Stelle, che perde circa 600mila voti rispetto alle elezioni politiche del 2018. La liquefazione del movimento avviene proprio nei territori che l’hanno visto nascere e irrobustirsi e mostra non solo l’incapacità della sua classe dirigente, ma anche l’inconsistenza del suo voler essere “né di destra né di sinistra”. Se questa autorappresentazione ha giovato nella fase iniziale permettendo di pescare nell’elettorato dei due schieramenti, non ha retto alla prova del governo, quando il movimento si è ritrovato ad essere dapprima l’ancella della Lega, poi il partner capriccioso del Pd. Di fronte alla paralisi del movimento, incapace di scegliere una direzione coerente, una parte consistente del suo elettorato ha scelto al suo posto votando massicciamente il candidato del centrosinistra, risultando in questo modo decisivo per il risultato finale (come evidenziato anche dall’analisi dei flussi elettorali elaborata dall’Istituto Cattaneo).
La paura si è insediata nel discorso politico come il principale canale di mobilitazione
Infine il Pd. Dovrebbe essere l’immagine più nitida, visto l’esito delle elezioni, invece è la più sfocata. È fortunato, in fondo, perché altri gli hanno tolto la castagne dal fuoco, evitandogli di pagare il pegno per i suoi errori politici. Il segretario nazionale ha buone ragioni per dichiararsi soddisfatto: una sconfitta avrebbe messo in discussione la sua leadership, decretato la fine del governo e forse del partito stesso. Ma sarebbe illusorio pensare che il voto sancisca una ripresa. Il sollievo per lo scampato pericolo durerà poco, e presto torneranno in superficie i problemi profondi. Nella regione che ci si ostina a definire “rossa”, il Pd non ha più una struttura territoriale solida e neanche veri gruppi dirigenti, sostituiti da gruppi di potere locali in perenne conflitto tra loro. Non ha alcuna attitudine all’analisi critica, come dimostra la totale assenza di riflessione dopo il clamoroso crollo dell’affluenza alle precedenti elezioni regionali, quando votò meno del 38% degli aventi diritto. Non ha mai messo in discussione la propria politica quando la crisi di legittimazione si manifestava in modo palese, è improbabile che lo faccia ora, nel momento in cui il successo elettorale contribuisce a nasconderla sotto il tappeto. Riprendere fiato servirà a rafforzare l’autoreferenzialità che ha segnato la parabola discendente del partito e a perseguire con pervicacia scelte che non hanno alcuna parentela con la cultura politica della sinistra. Si prenda ad esempio la legge urbanistica varata nella legislatura appena conclusa, sponsorizzata dalle associazioni dei costruttori e spacciata come una svolta verso il “consumo di suolo zero”, mentre in realtà è il preludio ad un uso del territorio sottratto alla regolazione da parte dei poteri pubblici ed affidato unicamente alla contrattazione con i privati.
Alla sinistra del Pd non si è delineata una forza consistente. La lista “Coraggiosa” ha raggiunto il 3,8% ed è stata costruita prevalentemente in ragione del pericolo incombente, del nemico da battere, con l’obiettivo di raccogliere il voto di sinistra che il Pd non sarebbe stato in grado di intercettare. Ma quel voto è in gran parte ancora disperso (e a nulla sono servite le altre tre liste presentate al di fuori della coalizione, inerti cascami che ormai sono in grado di raccogliere solo le briciole).
Uno sguardo sul capoluogo aiuta a comprendere i possibili esiti futuri della dinamica interna alla coalizione di centrosinistra. Bologna è stata decisiva per l’esito finale. In città il divario tra i due candidati è stato maggiore (64,84% contro 31,12%, mentre a livello regionale la forbice è 51,42% contro 43,63%). Ma qui, in controtendenza rispetto al risultato complessivo, il Pd non guadagna neanche un voto rispetto alle ultime elezioni (le europee del 2019), mentre “Coraggiosa” raggiunge il suo risultato migliore ottenendo un ragguardevole 8,73%. Ciò vuol dire che, mentre dà il suo massimo contributo per respingere l’assalto leghista, Bologna non rinuncia a una critica implicita all’amministrazione locale guidata da Pd. I motivi non mancano e si snodano intorno ad una serie di decisioni scellerate sul piano urbanistico ed ambientale adottate e difese a spada tratta nel totale disprezzo dell’opposizione di larga parte della cittadinanza. A questo si aggiunge una lunga stagione di sgomberi che misurano la distanza tra i cittadini che si organizzano per rivendicare e praticare l’uso pubblico degli spazi pubblici e l’amministrazione comunale, che non disdegna l’adozione di politiche care alla destra: la privatizzazione, l’uso della forza, la limitazione dei poteri pubblici. Le contraddizioni nel campo della sinistra non potranno che aggravarsi, perché la natura della coalizione messa in campo in questa occasione conduce ad un’alleanza organica con il Pd anche a livello locale, restringendo il campo dell’azione politica.
Il voto del 26 gennaio rappresenta una terapia d’urto per contenere la diffusione, ma non è l’antidoto, come molti si ostinano a pensare
La portata di queste contraddizioni non risolte metterà subito alla prova la coalizione che ha vinto le elezioni regionali. A breve, infatti, si giocherà la fase finale di una partita decisiva: quella dell’autonomia differenziata, di cui il presidente riconfermato, Stefano Bonaccini, è strenuo fautore insieme ai presidenti leghisti di Veneto e Lombardia. Lo scontro con una parte significativa dell’elettorato che gli ha dato fiducia in chiave anti-leghista è inevitabile, e produrrà nuove disillusioni e nuove distanze.
Il risultato elettorale deve essere interpretato in un contesto più ampio. Se oltre il 43% dell’elettorato ha scelto di votare la candidata della Lega, questa è la spia di una trasformazione profonda. Il veleno è stato ormai inoculato nel tessuto sociale, e non da oggi. Il voto del 26 gennaio rappresenta una terapia d’urto per contenere la diffusione, ma non è l’antidoto, come molti si ostinano a pensare. Questa illusione deriva dalla progressiva riduzione della politica alla competizione elettorale, distorsione che rappresenta uno dei più gravi limiti di tutto ciò che si muove a sinistra. La litania che ha accompagnato la lunga campagna elettorale – “serve un voto responsabile, altrimenti vince Salvini” – e che continuerà ad essere utilizzata anche nel prossimo futuro esprime un’ovvietà ma è al tempo stesso insopportabile per il suo tono ricattatorio e sterile al di fuori dell’occasione che la produce, perché mette tutti a tacere e sbatte fuori dalla porta il dibattito politico di cui avremmo estremo bisogno, perché si limita ad affrontare l’emergenza di oggi senza avere la minima idea di cosa inventare domani, perché produce un ceto politico che si autolegittima affermando il proprio ruolo salvifico, senza alcuna verifica sul campo.
Prendendo a prestito le parole di Vittorio Foa, la prossima mossa dovrà essere quella del cavallo, per scartare di lato, uscire dall’arroccamento difensivo verso il nemico di turno, trovare uno spazio libero da costrizioni che uccidono sul nascere ogni possibilità di cambiamento, uscire da questo punto morto.