Riders: Il capitalismo cambia i mezzi e non i fini
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 61 de “Gli asini”: acquistalo, abbonati o fai una donazione per sostenere la rivista.
Il dibattito pubblico che si è sviluppato attorno al tema delle piattaforme digitali ha visto l’attenzione concentrarsi su elementi di natura contingente lasciando nell’ombra la trasformazione in corso più rilevante in termini di rapporti di potere e, dunque, di produzione del reale: l’assurgere dell’informazione (digitalizzata) a bene chiave per l’acquisizione ed il consolidamento del potere economico. Fenomeni “inediti” quali il materializzarsi nelle strade di lavoratori iper-precari governati in maniera millimetrica da App ed algoritmi o la “scoperta” delle enormi somme eluse al fisco dalle grandi imprese digitali rappresentano, quindi, non la quaestio quanto delle punte d’iceberg che hanno però il merito di scuotere l’intelletto collettivo dal torpore in cui versa. Vi è, tuttavia, un’importante precisazione preliminare da fare. La pretesa mutazione del capitalismo in capitalismo delle piattaforme non va in nessun modo intesa come una rivoluzione nei termini ontologici del sistema stesso. Piuttosto, tale mutazione va letta come un salto di qualità, una ristrutturazione sul piano delle tecniche (dispositivi traccianti, algoritmi, intelligenza artificiale, etc.) e delle materie prime (parole, azioni, emozioni e fenomeni trasformati in bit e stringhe di codice) coinvolte nel processo di produzione e riproduzione capitalistica. Invero, il salto di qualità orwelliano a cui stiamo assistendo – salto di qualità in virtù del quale quanto più è intima e scabrosa la frazione della nostra esistenza condivisa sulla piattaforma tanto più questa (la piattaforma) aumenta il proprio valore e potere economico – è perfettamente collocabile lungo la nota traiettoria ricerca di nuovi domini da sussumere al processo di valorizzazione del capitale-innovazione tecnologica/organizzativa-crescita dell’entropia che contraddistingue il sistema capitalistico sin dalla sua nascita.
Agli albori della traiettoria tecnologica su cui le odierne piattaforme digitali si fondano, quella che ha come innesco l’invenzione del microprocessore e che è genericamente denominata “Information and Communication Technology”, Harry Braverman (Labor and Monopoly Capital, “Monthly Review”, 1974) rendeva chiaro come ciò a cui si sarebbe assistito con la diffusione dei computer e dei dispositivi digitali sarebbe stato un rinvigorimento del capitale nel dare linfa ai propositi di Frederick Taylor e del suo Management Scientifico (The Principles of Scientific Management, Harper 1914). Si tratta della perenne tensione del capitale verso il controllo e la centralizzazione della conoscenza rilevante a fini economici, una centralizzazione indispensabile per accrescere l’efficienza produttiva ed il potere di mercato. Affinché la centralizzazione della conoscenza abbia luogo dando i frutti economici sperati, tuttavia, è necessario si dispieghi una parallela dinamica di frammentazione (e codificazione) delle singole attività produttive, frammentazione che ha in sé la separazione della singola operazione dalla finalità ultima a cui la stessa concorre e che è all’origine del fenomeno di straniamento del lavoratore che Marx ha definito alienazione. In questo quadro, le piattaforme digitali possono essere intese come la reificazione (organizzativa) degli obiettivi più estremi del Management Scientifico. Una reificazione resa possibile da una combinazione di tecnologie digitali tra cui Internet, il protocollo di identificazione e tracciamento web noto con lo pseudonimo di “cookie”, il sistema di geolocalizzazione Gps oltre agli incessanti avanzamenti nelle tecniche di miniaturizzazione dei dispositivi di archiviazione e trasmissione delle informazioni.
Le imprese che sono, a vario titolo, protagoniste del salto di qualità appena descritto (prime tra tutte, Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft) hanno acquisito un potere economico (e dunque politico) che non ha analoghi precedenti. A fronte di una bassissima intensità occupazionale – confrontando le dimensioni occupazionali di Google e Facebook con quelle del gigante dei servizi americano WalMart la differenza è impressionante: le prime occupano, rispettivamente, 50mila e 25mila persone mentre la seconda circa 1.300.000 (D. Guarascio, Mai fidarsi di Google. Estrarre, mercificare e sorvegliare: come funziona il capitalismo delle piattaforme, “L’indice dei libri del mese”, Giugno 2017) – Google e Facebook oggi incamerano più del 20% dei ricavi globali complessivamente generati nel settore della pubblicità, il 65% di quelli generati nel settore della pubblicità digitale e l’85% di ogni nuovo dollaro speso nel mercato pubblicitario (questi dati sono tratti da: J. E. Cohen, Law for the Platform Economy, “UCDL Rev.”, 51 2017). Se, da un lato, generano poca o pochissima occupazione, dall’altro lato, queste imprese fungono ormai da “infrastrutture” fornitrici di servizi la cui essenzialità alla vita sarebbe senza problemi sottoscritta da uno qualunque dei miliardi di utilizzatori quotidiani della mail di Google o del sistema di acquisti “Prime” di Amazon. In ragione della loro peculiare natura, quindi, le grandi piattaforme riescono ad accrescere in maniera incessante la loro presa economica ed il loro “consenso implicito” (si pensi alle rivolte che ci sarebbero se domattina uno Stato decidesse di impedire a Google o ad Amazon di erogare i loro servizi quale conseguenza di una condanna per frode fiscale o per condotta anticoncorrenziale) ottenendo in questo modo lo status di impresa-istituzione senza però il bisogno di contrarre patti sociali con grandi masse di dipendenti come accadeva alle imprese manifatturiere che hanno guidato l’evoluzione delle fasi tecnologiche precedenti (si pensi, nel caso italiano, alla Fiat ed alla continua contrattazione politica e sindacale che l’azienda si trovava a dover condurre per portare avanti le sue strategie). Piattaforme digitali come imprese-istituzione o “imprese che si fanno mercato”, come abbiamo avuto modo di scrivere altrove (questa definizione è stata proposta in: M. Franzini e D. Guarascio, Questa volta è diverso? Mercati, lavoro e istituzioni nell’economia digitalizzata, “SINAPPSI-Rivista dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche”, di prossima pubblicazione nel 2019). Ma che cosa, di preciso, rende questi soggetti economici privati, percepiti dai più come delle neutrali infrastrutture (perlomeno nell’inconscio delle azioni compulsivamente compiute nella quotidiana relazione che si ha con la rete), dei monopolisti capaci di condizionare governi, modificare le preferenze dei consumatori e trasformare competitori in mansueti sub-fornitori? Le imprese che si fondano sull’uso di grandi masse di dati diventano “market gatekeepers” (il concetto delle piattaforme come “market gatekeepers” è ulteriormente sviluppato in: M. Franzini e D. Guarascio, 2019, supra). Monopolizzando il controllo e la gestione delle informazioni economicamente rilevanti, i market gatekeepers detengono, di fatto, il potere di regolare l’accesso ai mercati-reti che gestiscono estraendo rendite crescenti in virtù di tale potere. Il “caso Amazon” è, in questo senso, emblematico. Il patrimonio informativo in perenne crescita di cui Amazon dispone le consente di beneficiare di quelle che in letteratura vengono definite “two-sided scale economies” (G. G. Parker, M. W. Van Alstyne & S. P. Choudary, Platform Revolution. How Networked Markets are Transforming the Economy and How to Make Them Work for You, W. W. Norton & Company 2016). Dal lato dell’acquirente, Amazon adotta strategie di marketing persuasivo (la piattaforma segue tuoi occhi quando cerchi, quando ti soffermi su di un prodotto e quando lo acquisti o passi oltre…arrivando a essere capace di offrirti proprio quel che volevi nel momento in cui non saresti stato nemmeno in grado di razionalizzare quel desiderio…) o scontistiche aggressive che la rendono il negozio irrinunciabile per masse sempre più ampie di persone. La crescita dei partecipanti al gioco aumenta la capacità predittiva e di profilazione della piattaforma, ne accresce il valore azionario (e con esso la dotazione monetaria utile a investire per raffinare ulteriormente le tecnologie di cui è dotata) e la rende Il Mercato a cui le altre aziende (siano esse tradizionali o digitalizzate) debbono rivolgersi se vogliono crescere o, in molti casi, sopravvivere. In questo modo, imprese inizialmente autonome si trasformano in soggetti dipendenti dalla piattaforma-mercato che detta le regole della loro sopravvivenza. Qual è la misura economica di questo potere economico che sembra crescere senza trovare ostacoli? Nel secondo trimestre del 2018, grazie al forte aumento del fatturato rispetto al precedente anno, le azioni di Amazon hanno superato la soglia dei 1500 dollari. Solo due anni prima il loro valore era 790, 3 anni prima 305 e 10 anni prima 89 dollari. Si tratta di tassi medi annui di aumento dell’ordine del 30% nell’arco del decennio, difficile trovare esempi simili nella storia della borsa americana.
Come si collocano, in questo contesto, le piattaforme che dirigono gli pseudo-tassisti di Uber o i fattorini che consegnano cibo per Deliveroo, Glovo o Just-Eat? Per comprenderne la natura e la rilevanza è opportuno, in primis, chiarire un elemento dirimente: la natura modulare del capitalismo delle piattaforme. I monopolisti dell’informazione digitalizzata appena descritti (Amazon, Facebook, Google, etc.) sono infrastrutture ineludibili, in ragione dei servizi-di-rete che monopolizzano ed offrono alle altre aziende (come mostriamo in: M. Franzini e D. Guarascio, 2019, la divisione “Web Services” è quella che sta contribuendo in misura proporzionalmente maggiore alla crescita dei profitti di Amazon), anche per imprese digitali che, con ambizioni meno totalizzanti delle sorelle che sin son “fatte mercato”, adottano il modello organizzativo proprio delle piattaforme per colonizzare mercati storicamente protetti (come quello dei taxi) o economicamente marginali (come quello della consegna di cibo). L’impatto economico e occupazionale di queste imprese è, ad oggi, residuale (per il caso italiano, si veda l’analisi dei dati economici ed occupazionali relativi alle principali piattaforme operanti in Italia riportata in: D. Guarascio e S. Sacchi, Le piattaforme digitali in Italia. Un’analisi della dinamica economica e occupazionale, “INAPP Policy Brief”, 8/2018) se si escludono i casi di Uber e dei suoi pochissimi concorrenti (i.e. Lyft) che in contesti a “regolamentazione debole” come gli Stati Uniti o il Sud America hanno monopolizzato il mercato del trasporto su gomma divenendo multinazionali miliardarie. Tuttavia, analizzarne le caratteristiche è un esercizio utile per comprendere quale forma potrebbe assumere il lavoro se la gran parte degli individui dovesse avere a che fare con un monopolista digitale per soddisfare, lavorando, i propri bisogni esistenziali. Fenomeni come Uber, Deliveroo o Foodora rappresentano un estremizzazione del processo, in corso da circa un trentennio, di frammentazione, individualizzazione e precarizzazione delle relazioni lavorative (questi aspetti sono approfonditi in: D. Guarascio, Mansioni, competenze e rapporti di produzione nell’economia delle piattaforme, “Quaderni della Rivista Giuridica del Lavoro”, Ediesse 2017). Si approfondisce la dinamica di trasferimento dell’incertezza relativa alla persistenza dei flussi di domanda e quindi di reddito dall’impresa al lavoratore. Nelle piattaforme l’incertezza è pervasiva: il lavoratore diviene “invisibile” alle statistiche e (in buona parte) alla legge. Il suo status giuridico ambiguo (quando ci si connette al sito di Uber per proporsi come guidatori, ad esempio, viene immediatamente chiarito quale sia lo status che si va ad acquisire: quello di partner della piattaforma o imprenditori-di-se-stessi) non gli consente di godere di tutele pubbliche, almeno ad oggi, relativamente al rischio economico/occupazionale e vi è un’esposizione radicale al rischio di incidenti stradali, solitudine ed alienazione. La mediazione digitale delle relazioni lavorative propria delle piattaforme, inoltre, ha effetti sulla modalità di espletamento delle mansioni e sul processo di generazione ed accumulazione delle competenze. La costruzione di competenze autonome – intese come il patrimonio informativo ed esperienziale autonomo che consente all’individuo di avere consapevolezza di se come soggetto sociale ma anche di padroneggiare gli aspetti tecnici della propria attività lavorativa – è strettamente connessa alla dimensione spaziale e temporale delle relazioni lavorative ed alla qualità delle interazioni sociali che caratterizzano il luogo-di-lavoro. La costruzione di competenze (in ambito lavorativo) capaci di garantire all’individuo “coscienza e protagonismo” richiede la possibilità di condurre una carriera: un perimetro spaziale sufficientemente circoscritto e dei tempi sufficientemente lunghi da consentire la cumulazione di esperienze, conoscenze e abilità specifiche. Si tratta degli elementi costitutivi di ciò che potremmo definire competenza. Al contrario, gli elementi costitutivi delle relazioni lavorative in contesti digitalizzati sono la frammentarietà, l’intermittenza, la logica prestazionale, l’intensità di eterodirezione e controllo e la disponibilità di “memoria elettronica” a ridurre la necessità per l’individuo di usare la propria memoria e di fondare il suo agire sulle esperienze pregresse (gli effetti sulle competenze sono approfonditi in: D. Guarascio e M. Franzini, 2019, supra).
Tentando di tirare le fila: potere digitale e sovranità. Come brillantemente mostrato da Julie Cohen (J. Cohen, 2017, supra), le imprese che guidano l’attuale salto di qualità digitale pongono radicalmente in questione il concetto di sovranità, in particolare per ciò che concerne il legame tra quest’ultimo, lo spazio ed il tempo. Imprese come Apple, Amazon o Google sono, da un canto, assimilabili a storiche ed ampiamente dibattute multinazionali quali la Coca-Cola o le grandi aziende farmaceutiche circa la loro capacità di perseguire fini aziendali facendo “arbitraggio” tra paesi e sistemi regolatori diversi (i.e. minacciando, ad esempio, di lasciare un paese sguarnito dei loro servizi e della loro seppur ridotta base occupazionale in mancanza di un sistema di regole sufficientemente gradito, come accaduto in Italia con la querelle Stato-Foodora). Dall’altro lato, però, le piattaforme digitali sono in grado di apporre e rimuovere in qualsiasi momento i confini del loro Stato virtuale, uno Stato popolato da miliardi di individui pronti a sottoscrivere qualsivoglia petizione pur di non perdere l’identità virtuale di cui dispongono sui social network o i (presunti) benefici dati da servizi online di cui godono. Ciò munisce le piattaforme di un potere di ricatto inedito e capace di disattivare in modo pressoché totale le velleità regolatorie o redistributive del caro vecchio Stato Westfaliano (con la non banale eccezione dei poli in aperto conflitto con quello statunitense come la Cina e la Russia). Nessun argine al dominio digitale e distopia alle porte, dunque? Schumpeter e Marx penserebbero il contrario. Il primo ci tornerebbe a ricordare come l’acquisizione di un eccessivo potere monopolistico possa portare i domini tecnologici a creare le condizioni per la loro disfatta in ragione delle contraddizioni che loro stessi tendono a creare. Il secondo ci aiuterebbe a qualificare questa prospettiva, nutrendola politicamente, e identificando nelle crescenti diseguaglianze (si immagini un mondo del lavoro diviso in due poli: da un lato, ingegneri e matematici a guadagnare compensi stellari disegnando i nuovi algoritmi, dall’altro, lavoratori pagati pochi centesimi per un click o una consegna privi di qualsiasi tutela nei confronti dei rischi sociali a cui sono esposti) l’innesco di una reazione politica che dovrebbe avere, tra i primi obiettivi, quello di porre le informazioni e le tecnologie per gestirle nell’alveo degli Stati nazionali ovvero di perimetri politicamente agibili. Per concludere: due suggerimenti, sommessi e preliminari. Affidarsi, nuovamente, ai classici ricordandosi con loro come la sfida sia quella di non perdere mai la capacità di fare esperienza e di pensare la realtà in modo autonomo e non mediato. E, in secondo luogo, cercare di acquisire maggiore consapevolezza del ruolo di “facilitatori dell’acquisizione di potere monopolistico da parte delle piattaforme” che di fatto ci attribuiamo quando godiamo dei servizi digitali (solo apparentemente gratuiti) di cui ogni giorno facciamo uso sulla rete.