Il bene, il male e i loro campioni
È indubbio che la lucidità con cui Luca Rastello, morto prematuramente lo scorso luglio, ha saputo raccontare alcune delle questioni più complesse di questi anni – la guerra jugoslava e le ambiguità degli interventi umanitari; le migrazioni forzate e la condizione dei profughi; il mercato della droga; i conflitti intorno all’alta velocità ferroviaria – nasca dal suo anomalo “posizionamento”. In proporzione a quanto la malattia via via gli concedeva, non si è limitato, come si suol dire, a osservare da vicino le vicende di cui scriveva. Ha tentato anche di intervenire per modificarle. La frizione, vissuta sulla propria pelle, tra la verità e il bene, tra la necessità di raccontare le cose come stanno e il desiderio di migliorarle, è stata uno dei motivi ispiratori del suo ultimo romanzo. Crediamo che I buoni (Chiarelettere 2014), di cui ci siamo altre volte occupati, abbia il merito di aver “scandalosamente” spiegato alcune delle ragioni profonde della corruzione cui è andato incontro in questi anni molta parte dell’associazionismo solidale. Se il romanzo lo ha fatto indirettamente, attraverso l’artificio dell’arte, nell’intervento che rimontiamo e pubblichiamo di seguito, raccolto durante la presentazione che si è tenuta nel giugno del 2014 al Circolo degli artisti di Roma, Rastello si sforzò di mettere in fila alcune delle contraddizioni più dolorose del “sociale”, le stesse con cui da tempo anche Gli asini cercano di misurarsi.
Non è solo in ricordo della sua figura che abbiamo deciso di dedicare a Luca Rastello l’edizione di quest’anno del Salone dell’editoria sociale, ma per discutere dei suoi temi, dei suoi libri, delle contraddizioni che sollevano. E di un “posizionamento” che, per quanto difficilmente imitabile, educatori e operatori sociali dovrebbero sforzarsi di sperimentare. (Gli asini)
Nel momento in cui ho iniziato a scrivere un romanzo su una questione così poco letteraria come i meccanismi che stanno dietro al mondo dell’intervento sociale e l’antropologia di cui quel mondo è intriso, sapevo che mi sarei messo su un terreno alquanto scivoloso. Non so se sono riuscito a evitare il rischio cui va incontro la maggior parte di quella che oggi viene chiamata non-fiction, ovvero di avere un atteggiamento parassitario nei confronti dell’attualità, dei problemi e dei conflitti che l’attraversano. Il rischio di rincorrere quelle storie che piacciono molto agli editori. Se oggi qualcuno scrivesse un romanzo sui droni avrebbe molte probabilità di venderlo; se scrivesse, magari in prima persona, la storia di un cecchino ceceno le probabilità aumenterebbero ulteriormente.
Un buon antidoto per affrontare questo rischio è scrivere storie che ti riguardano e che ti mettono emotivamente in difficoltà perché hanno a che vedere con la tua vita, con le tue contraddizioni. Ed è quello che ho cercato di fare con I buoni.
Il romanzo è costruito su tre livelli digressivi. Adotta tre punti di vista differenti che si allontanano lentamente dal centro, sarebbe a dire dal potere. La prima parte è raccontata attraverso la prospettiva di un operatore sociale, il personaggio in cui mi sono più identificato, un figlio di puttana – spero sia peggio di me – che porta all’estremità gli aspetti più ambigui degli educatori. Nella seconda parte il punto di vista scivola all’indietro e arriva a coincidere con quello di Aza che nel gergo del terzo settore potremmo definire l’“utente”, parola corruttrice, come sappiamo, perché toglie un po’ di cittadinanza alle persone a cui viene applicata. Nella terza la prospettiva arretra ulteriormente e abbraccia tutta la vicenda e tutte le violenze nascoste nelle altre due parti. Il punto di vista diventa quello di un individuo, Adrian, che non potrà mai diventare un “utente” perché è totalmente irraggiungibile dall’azione sociale. L’uomo della strada, anzi delle fogne. L’uomo che è arrivato al grado zero della morale – questo il significato che dà al “lavarsi” – un piccolo Cartesio che mette alla prova col dubbio tutte le posizioni morali enunciate. Non si accontenta di vendicare, vuole salvare con una vicinanza carnale le persone che dal suo punto di vista sono andate lontano dal cuore dell’etica umana. “Strapperò dal tuo petto il cuore di pietra e ti farò dono di un cuore di carne”, recita una delle preghiere di Ezechiele. È questo che vuole fare Adrian. Dal punto di vista della strada, dal grado zero dell’etica non può che proporre la carne come valore, il contatto. E lo fa per redimere non per distruggere. Ovviamente non ne è capace perché aspira colla, vive nelle fogne e non ha codici sofisticati. Ma riesce a essere terribilmente rivelatore dei codici linguistici, dei ruoli, dei valori che agiscono nelle prime due parti del romanzo. E che rappresentano alcune delle forme che possono prendere codici linguistici, ruoli e valori nel mondo del cosiddetto intervento sociale. Da questo cortocircuito di prospettive emerge una delle questioni per me centrali, quella del linguaggio.
La costruzione totalitaria del linguaggio
Se vogliamo comprendere come è iniziata la degenerazione del variegato mondo della solidarietà organizzata – volontariato, associazionismo, cooperazione sociale – la questione del linguaggio è decisiva.
La prendo larga, raccontando un paio di episodi avvenuti durante alcune presentazioni del libro che mi paiono chiarificatori. Nel romanzo c’è un episodio molto marginale di una donna che lavora part time per una onlus e che scopre di essere incinta. Quando annuncia al suo datore di lavoro la sua gravidanza le viene imposto il seguente trattamento: ti licenzi, dal giorno del parto stai a casa tre mesi, noi poi ti riprendiamo con un contratto a tempo determinato rinnovabile ogni tre mesi. E il primo trimestre ti facciamo un part-time, ma tu lavori a tempo pieno così da recuperare il tempo perso. È un episodio del romanzo che spesso, durante le presentazioni, scatena delle lunghe discussioni. Una volta si alza una ragazza dall’aspetto molto alternativo che dice: “io sono presidentessa di un circolo Arci e rivendico con orgoglio il fatto di aver applicato questo stesso trattamento di maternità a me stessa e alle mie collaboratrici”.
Nel libro la ragazza che subisce questo trattamento partecipa a un’assemblea in cui al leader dell’associazione scappa detto qualcosa del genere: “E ora, dopo le 50 ore di contratto nazionale, sarà necessario fare sette ore di volontariato obbligatorio.” “40 ore di contratto nazionale”, lo corregge la ragazza. Non fa in tempo a finire di parlare che viene investita dalla carica retorica violentissima del leader, che culmina con un’espressione inventata, ma che ricalca il linguaggio di molti leader carismatici del sociale: “tu sei qua per guadagnare un misero stipendio, non riesci a sentire la frusta dell’oltre”. Cos’è la frusta dell’oltre? Quel morso che ti permette di lavorare senza uno stipendio perché hai uno stimolo superiore, più “sociale” del tuo misero stipendio.
Mentre raccontavo quest’episodio durante un’altra presentazione a una società operaia di mutuo soccorso, a un certo punto si alza una donna estremamente emozionata e racconta di aver subito un trattamento simile. E dopo di lei un’altra dice lo stesso, aggiungendo una riflessione che mi ha lasciato di sasso. La cito per come la ricordo. Ci siamo trovate a maturare la nostra coscienza civica, ha detto questa operatrice, il nostro impegno sociale all’interno di un contesto dominato da un linguaggio che non siamo noi a parlare. È il linguaggio che parla noi, perché è un linguaggio costruito e manipolato retoricamente per definire i confini del mondo e la legittimità del tuo operare in quel mondo: i diritti che hai, quanto li puoi esercitare, le relazioni che costruisci e il modo di gestirle. Se tu contravvieni ai codici ne vieni espulsa perché quel mondo è costruito come narrazione per essere il mondo. E quando sei fuori da quell’universo ti viene anche strappata la lingua per dire quello che ti è successo e ti viene rovesciata addosso la responsabilità. La frusta dell’oltre, appunto.
A un’altra presentazione un ragazzo mi dice: so che dovrei pretendere con più forza quanto è dovuto, come le ferie o le malattie pagate, ma la cooperativa sociale dove lavoro è talmente indebitata, ha un tale buco di bilancio che se io esercitassi i miei diritti metterei in pericolo il mio posto di lavoro. Ecco un altro esempio di uno che è parlato dal linguaggio del suo mondo. Questa connessione naturale e causale tra il buco di bilancio della cooperativa e i diritti negati ai suoi lavoratori, non è per niente ovvia, però quanti educatori l’hanno introiettata! Questa manipolazione retorica dei linguaggi che diventa costruzione sociale della realtà è uno degli aspetti che più mi interessava affrontare nel romanzo.
Io creo la realtà dominando il linguaggio. In tutte le comunità chiuse, non importa se profit o non profit, in tutte le comunità “finalizzate”, la costruzione sociale della realtà attraverso il linguaggio diventa costruzione totalitaria. A questa realtà totalitaria abbiamo consegnato le chiavi di alcuni degli esempi civili più alti della contemporaneità, quelli di chi lavora con gli esclusi, con gli oppressi, con gli ultimi.
I feticci della legalità e della memoria
Sugli alti luoghi della mia città sono stati eletti alcuni idoli con culti molto feticistici. Questi idoli si chiamano: memoria e legalità. Comincio dalla memoria.
La memoria è oggi un ricatto permanente. Chi si ponesse con sguardo critico nei suoi confronti, automaticamente sarebbe in odore di sospetto. La narrazione dominante recita più o meno così: la memoria è sacra, perché se non lo si ricorda, il passato, è destinato a ripetersi. E siccome il passato è sempre orrore, sangue e abisso, noi che siamo gente civile teniamo lontano il mostro del passato col culto della memoria.
Primo Levi, riferendosi ai meccanismi della memoria, nella prefazione dei Sommersi allerta i lettori sul fatto che il libro che si trovano tra le mani è impastato di una sostanza ambigua e complessa, da prendere sul serio, ma al tempo stesso da guardare con sospetto. Perché come ha scritto recentemente Daniele Giglioli nella sua Critica della vittima, la memoria istituisce con il passato un rapporto proprietario. La memoria si appropria del passato. Non è mai neutra; è sempre la mia memoria, la nostra memoria, la memoria delle vittime, la memoria di qualcuno nel cui nome si parla. E serve per lo più a legittimare l’azione nel presente di qualcuno che diventa portavoce, detentore, mediatore dei possessori di memoria. Osservazioni banali, se non fosse per questo culto di massa che ci ha accecati. Tutti i nazionalismi sterminatori dell’ultimo secolo hanno avuto la memoria come propria bandiera.
Vogliamo parlare del passato barbarico e glorioso della Germania? O di quello sconfitto e nobile dei serbi? Del passato universale del califfato musulmano? O di quello imperiale e panslavista russo? Nel nome di queste “memorie”, nell’ultimo secolo si è sparso sangue a fiumi.
Anni fa mi capitò di andare nel Nagorno Karabakh, una regione del Caucaso meridionale, e di trovare una città che era stata fatta letteralmente sparire. Si chiamava Agdam, era una città di 150mila abitanti che nel corso del ‘900 gli armeni avevano letteralmente cancellato. Non c’erano più nemmeno le fondamenta. Avevano bruciato e sotterrato anche le stoppie in modo che non ne rimanesse traccia. Un’intera città azera eliminata dagli armeni. Gli armeni, popolo della memoria, quelli che giustamente sbattono in faccia all’Europa lo specchio impietoso del passato: tu non puoi costituirti come terra dei diritti e della civiltà finché neghi la tua genealogia. E la tua genealogia comprende anche lo sterminio immane degli armeni a opera dei turchi. E allora discutiamone, organizziamo convegni, facciamo memoria, ma intanto lasciamo sparire la memoria degli azeri di Nagorno Karabakh. Cerchi concentrici della memoria.
La memoria è preziosissima, fondamentale, a condizione che sia sussunta nella fatica della storia, la fatica cioè di mettere molte interpretazioni, molte “memorie”, su un tavolo – come ha fatto, ad esempio, Nelson Mandela – e di negoziare tra interpretazioni diverse, accettando anche di arrivare a un accordo artificiale, perché l’obiettivo, per certi versi impossibile, è di capire il passato. Il culto feticistico della memoria rivela i suoi piedi di argilla non appena se ne rovesci l’assunto di base. Non è vero che il passato si ripete se non lo si ricorda. È vero purtroppo che il passato si ripete se non lo si capisce.
Il culto della memoria è stato messo lì, sulle alture delle mia città, insieme a un altro feticcio che si chiama Legalità. La legalità viene presentata come un valore assoluto, da insegnare nelle scuole, da trasmettere ereditariamente. Ogni bambino deve crescere con l’idea di Legalità.
Dopodiché la storia, quel convitato di pietra che descrivevo prima, arriva sempre un po’ petulante a ricordarci che ogni evoluzione umana è avvenuta attraverso una rottura della legalità vigente, e che la legalità in realtà non è un valore ma un metodo. La società è un accordo raggiunto tra soggetti che portano interessi diversi, addirittura in conflitto. I rapporti di forza intercorrenti tra di essi determinano un accordo artificiale che è una specie di patto: la società, appunto. Questo accordo artificiale viene fatto rispettare grazie a un metodo che si chiama legalità. Metodo che quindi risente degli stessi condizionamenti, delle stesse ideologie, degli stessi rapporti di forza che intercorrono in una società, in un preciso momento storico.
Può elevare a valore assoluto il metodo della legalità solo chi presuma di essere nella società ideale, nell’anarchia realizzata, nel socialismo utopistico, nella democrazia perfetta. Solo se penso di essere al culmine della storia umana, se credo in un progresso costante e perfetto rispetto al quale mi trovo nell’ultimo stadio posso attribuire alla legalità un valore assoluto. Se le cose non stanno così e la legalità rimane un valore al di là dei condizionamenti di potere, allora ha ragione Adolf Eichmann quando difendendosi a Gerusalemme afferma di essere il rappresentante di una legalità voluta e costruita dal popolo tedesco attraverso un processo di consenso democratico e di non poter essere giudicato ex post da i vincitori della guerra. Se la legalità è un valore assoluto, indipendente dal contesto in cui viene invocata, Eichmann ha ragione e Sandro Pertini e Giovanni Pesce sono terroristi. Non c’è via di mezzo
E che la legalità sia un metodo condizionato dai rapporti di forza e dalle ideologie lo dimostra quello che succede oggi. Giancarlo Caselli, ex capo della Procura di Torino, ha istituito due processi che stanno infiammando la mia città. Uno riguarda l’incendio di un compressore in un cantiere della Tav, a Chiomonte. Quattro ragazzi che sono stati incastrati con un’intercettazione vengono incriminati per aver tentato di bruciare un compressore, con l’aggravante di finalità terroristica che prevede una pena minima di 20 anni e una massima di 30. L’aggravante di finalità terroristica è una novità assoluta nel panorama giudiziario italiano, perché il terrorismo fino a ora era considerato un reato di tipo associativo. Ora questi quattro ragazzi, che non si conoscevano nè avevano niente in comune, diventano improvvisamente terroristi perché dopo il 2001 è stato aggiunto un comma alle leggi sul terrorismo secondo il quale ha finalità terroristica ogni azione volta a impedire allo stato di compiere un’attività che lo vincola sul piano internazionale.
Quindi fate attenzione: se qualcuno ha manifestato contro gli F35 potrebbe avere problemi simili in futuro. Il procuratore Caselli ha sempre dichiarato di perseguire i No Tav sulla base della singola responsabilità, del singolo reato e non in nome di una valutazione sull’opportunità o meno della “grande opera”. Ma se ci pensate bene l’aggravante di terrorismo è esattamente la conseguenza di una valutazione sul valore strategico dell’opera.
Proviamo a incrociare un altro rogo e un altro processo. Torino, inverno del 2011: una ragazzina dice di essere stata violentata dagli zingari del campo della Continassa. Dopo pochissimo ritratta: aveva semplicemente fatto sega a scuola e si era inventata la scusa della violenza per mettersi al riparo dalle conseguenza della sua marachella. Il giorno dopo la vicenda è già risolta, ma nel frattempo da una manifestazione spontanea a Torino si stacca uno spezzone che va a bruciare le baracche dei rom della Continassa.
La procura che propaganda e vende alle scuole i corsi sulla legalità ha incriminato questa gente per incendio doloso: pena massima 6 anni. Una delle società che realizza l’Alta velocità è ammessa come parte civile nel processo contro i quattro che hanno bruciato il compressore: avrebbero potuto esserci degli operai di conseguenza il reato non è solo contro oggetti, ma anche contro la persona. Le famiglie rom del campo della Continassa, al contrario, non sono ammesse come parte civile perché sono state bruciate solo delle roulotte e quindi si tratta di un danno contro beni materiali.
Questa è la legalità per come viene intesa alla luce dei rapporti di forza delle ideologie che controllano oggi il nostro immaginario, oltre che il nostro territorio. In nome di questi due feticci si arruolano giovani coscienze a migliaia e si creano masse di manovra che danno visibilità, potere, contiguità col potere.
Minoranze attive e crollo del welfare
Cosa è successo sugli alti luoghi della mia città dove sono stati eletti i feticci della legalità e della memoria? Abbiamo preso i nostri bambini – e questi bambini li chiamo tutela della maternità sul lavoro, eguaglianza uomo-donna, dignità della persona, diritto del lavoro, assistenza sanitaria – e li abbiamo sgozzati sotto quegli altari. Uno dei teatri principali in cui sta avvenendo tutto ciò è proprio il mondo del privato sociale. I poteri che stanno minando il sistema del welfare coccolano quel privato sociale che gestisce il nuovo welfare esternalizzato per ripulirsi la coscienza e sembrare in questo modo attenti ai bisogni della marginalità. Quei poteri indicano il privato sociale come il laboratorio più avanzato di cittadinanza, convivenza, democrazia, giustizia sociale. Ma in quel laboratorio vengono massacrati i diritti del lavoro, la dignità, la parità fra uomo e donna.
Alla presidentessa del circolo Arci si potrebbe obiettare: negando alle tue colleghe il diritto alla maternità in nome della memoria e della legalità sei sicura che stai mandando avanti la società o la stai facendo retrocedere di settant’anni?
Tutto quel mondo che per comodità chiamo dell’“azione solidale organizzata” è recente, recentissimo. La maggior parte delle onlus, ha scritto recentemente Giovanni Moro (Contro il non profit, Laterza 2014) sono state fondate dopo il 1978. Questo mi fa sperare che un fenomeno sociale così recente per quanto ingarbugliato e corrotto sia ancora riformabile.
Tutte le forme che hanno assunto in questi anni le azioni solidali organizzate nascono da un nucleo atomico originario che è la relazione di aiuto. Possiamo chiamarla cura, tutela, alfabetizzazione, capacity building, empowerment o tutte le definizioni che ci vengono in mente, ma il nucleo originario rimane lo stesso. E quel nucleo contiene sempre dentro di sé un difetto d’origine. Detto in termini cristiani, contiene il diavolo. Perché la relazione d’aiuto è sempre anche una relazione di potere. Appena la istituisci, istituisci una rapporto di minorità, e quindi di potere, tra chi è aiutato e chi aiuta. Finchè la relazione rimane personale, uno a uno, gli effetti collaterali di questo difetto d’origine possono essere tenuti sotto controllo. Chi è aiutato potrebbe prima o poi farsi carico dei bisogni di chi aiuta. A questo stadio la relazione d’aiuto è in potenza reversibile. Questa possibilità di reversibilità ha a che vedere con la condizione di cittadino, in assenza della quale si scivola immediatamente nella categoria di utente.
Ma quando la relazione d’aiuto cresce oltre una certa misura e diventa da uno a tanti, da pochi a molti, quando in sostanza si istituzionalizza, non è più reversibile. Se fondo un’associazione, un’organizzazione, un’istituzione che gestisce professionalmente relazioni di aiuto, contemporaneamente la relazione di potere prende il sopravvento sulla relazione di cura.
Con questo non voglio dire che non si debba fare solidarietà associata, organizzata, e anche istituzionale. È fondamentale. Una guerra che sposta milioni di profughi mi dice che quella solidarietà organizzata va messa in piedi; me lo impone. Non posso non tentarla. Ma è fondamentale tenere sempre l’occhio impietosamente puntato sul fatto che si sta istituendo una relazione di potere che trasforma alcuni cittadini in utenti.
La tendenza a rimuovere questo rapporto di potere porta a vedere solo la parte positiva dell’aiuto organizzato. E invece il sociale è cresciuto con un diavolo originario, di natura psicologica se non vogliamo definirlo metafisico, che ha incontrato altri diavoli, molto più materiali e storici.
Ne cito subito un paio. Il mondo della solidarietà organizzata si è trovato negli ultimi vent’anni ad affrontare e per certi versi a incarnare due riforme striscianti, non dichiarate, che hanno cambiato il nostro paese. La riforma del welfare, nella direzione della privatizzazione (in cui tutto “il sociale” viene esternalizzato al privato) e la riforma del lavoro, nella direzione della decostruzione dei diritti del lavoro dipendente, di cui oggi vediamo chiaramente la fase terminale.
Ne aggiungo un terzo. A partire da processi avviati fin dagli anni ’80, molte organizzazioni del sociale iniziano a trasformarsi in aziende perché devono mantenersi e competere spietatamente in un mercato che dispone di poche risorse. Non potendo investire né accantonare (perderebbe in questo modo lo statuto di “non profit”), il mercato delle associazioni è circoscritto alle donazioni private e ai finanziamenti pubblici. Questo costringe le associazioni a entrare in una competizione sempre più spietata le une con le altre, che trova compimento nello status giuridico, legiferato tra il 2005 e il 2006, della “impresa sociale”. Tutto questo si traduce in marketing, pubblicità, controllo del mercato. E professionalizzazione. Non più però nel senso delle competenze relative alla relazione di aiuto, ma sul modello d’impresa: servono consulenti commerciali, esperti di comunicazione, di grafica pubblicitaria, eccetera. Servono insomma altri stipendi, oltre a quelli degli educatori.
Cambiano anche i modelli organizzativi. Moltissime associazioni ad esempio, anche tra le più ossequiate, praticano l’interlocking, l’abitudine cioè ad appoggiare l’ingresso dei propri dirigenti in diversi consigli di amministrazione o in strutture dirigenziali di altre associazioni. Si crea quella rete di cointeressenze che a un certo punto Monti ha pensato di mettere fuori legge per il profit ma che nel no profit è diventata prassi corrente.
Il cerchio si chiude nel momento in cui, per trovare sostenibilità in questo nuovo regime di concorrenza ultra liberista che chiamiamo “crisi finanziaria”, le organizzazioni del privato sociale intervengono sui diritti del lavoro: è lì che puoi tagliare, è lì che la degenerazione trova compimento.
Intervento sociale e critica della società
Il mondo dell’intervento sociale nasce in una fase precisa, verso la metà degli anni ‘70, da due matrici culturali precise, il cattolicesimo dissidente e la sinistra libertaria post-stalinista, entrambi molto critici nei confronti del modello sociale dominante. Li accomuna anche una critica “agita” alla società, non narrata, non ideologica. Come dire: c’è un modo di costruire società che non ci piace; noi, invece che protestare, “facciamo società” in un altro modo. E così mettiamo il sistema, come si diceva allora, davanti alle sue contraddizioni.
Tutta la dimensione critica che ha determinato la nascita della solidarietà organizzata, per le ragioni che ho sommariamente descritto, ha finito per evaporare fino al punto in cui “il sociale” si è trovato a incarnare il laboratorio sperimentale più avanzato e più innovativo di quel modello dominante contro cui ha combattuto, con esiti alterni, per oltre trent’anni.
Il brand rimane ancora la critica al potere e l’escamotage per legittimare questa contraddizione bruciante non può che essere linguistico. È il linguaggio che consente di scendere a patti con il potere e contemporaneamente di mantenere una parvenza di critica al potere.
Tutto è cominciato con una sorta di “credito morale”: ho tirato fuori dalla strada gente che si bucava negli ’70 e sono stato il primo a farlo. Belle azioni che rivendicano un credito: questo monte azioni vi obbliga ad aiutarmi perché ne possa realizzare delle altre. Passaggio già un po’ più imbarazzante: dal credito morale, alla credenziale morale. Non è più legata alle azioni importanti, ma al ruolo, al carisma.
Io combatto il male, che è assoluto, e quindi rappresento il bene assoluto. Non sono criticabile perché incarno un modello avanzato di società; i miei comportamenti sono legittimati in base a una credenziale morale. Ma nel mercato ultra-liberista nel quale le onlus si trovano a rischiare di diventare le più liberiste tra le realtà commerciali, non basta la credenziale morale. Bisogna trasformare la credenziale in ideologia autolegittimante; bisogna rimuovere completamente le due relazioni di potere che si sono nel frattempo istituite e che ostacolano la concorrenza.
Una interna che è quella insita nella relazione d’aiuto di cui parlavo poco fa, e l’altra esterna perché hai bisogno che non venga l’ispettorato del lavoro a vedere come tratti i dipendenti; hai bisogno che il sindacato non si intrometta troppo, ma hai anche bisogno di farti vedere di fianco a Renzi, a Napolitano, al Papa perché in questo modo aumenta la tua legittimità. Così come loro hanno bisogno di farsi vedere con te perché così mostrano quanto sono sensibili agli ultimi.
E così che si instaura un rapporto pesantissimo, di doppio vincolo, con il potere. È così che il mondo della solidarietà organizzata si è costruito una falsa coscienza organizzativa, sociale ed economica molto legata a questioni materiali, diventando al contempo un modello additato dai media e dalla politica per il futuro della democrazia.
Il fenomeno è così intricato e implica sfere così profonde – non solo dell’economia, ma anche della psicologia e dell’antropologia – che ci sembra che le cose siano sempre andate così e che non possano andare diversamente. In realtà il pervertimento delle azioni solidali organizzate ha uno sviluppo relativamente recente e per questo, mi sforzo di credere, non completamente irreversibile.