Il 2019 del semi-continente

Dopo anni in cui si è parlato poco di America latina, il 2019 ha riportato la regione prepotentemente al centro del dibattito internazionale. Le proteste in Ecuador e Cile, il colpo di stato portato a termine in Bolivia o lo scioglimento del Parlamento peruviano sono solo alcuni degli argomenti che hanno tenuto banco sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Ognuno di questi, pur avendo una sua specificità, può essere inserito nel percorso intrapreso dalla regione con l’apertura forzata di quelle che Eduardo Galeano chiamerebbe le vene dell’America latina. Per poter analizzare i recenti accadimenti, occorre chiarire alcuni aspetti fondamentali.
L’America latina non è un concetto geografico
Spesso ci si riferisce ai territori al di sotto del Messico utilizzando il termine America latina come sinonimo di America del Sud. Il concetto di America latina, però, ha ben poco a che vedere con la geografia, anche se per molti Paesi i due termini sopracitati si sovrappongono. Esso si riferisce alla storia politica e culturale della regione. Con America latina si identificano tutti quei territori passati sotto il dominio delle Corone di Spagna e Portogallo a partire dalla conquista (non scoperta) iniziata con Cristoforo Colombo e protrattasi fino ai movimenti indipendentisti di inizio XIX secolo, e oltre. Se non è possibile negare le differenze che intercorrevano tra le varie aree della regione, aver condiviso oltre trecento anni di storia ha inevitabilmente portato a un principio di unità.
Nonostante l’unità politica fosse difficilmente realizzabile vista l’estensione del territorio, è importante sottolineare il tentativo da parte dei reggenti delle due Corone di promuovere il sentimento di appartenenza a un unico impero e a un unico sovrano. Accanto alla ricercata unità politica, la dominazione latina ha lasciato in eredità alla regione non solo una lingua, ma anche una religione comune. I territori pagani erano infatti considerati terrae nullius e, di conseguenza, a disposizione dello Stato pontificio per essere evangelizzate. Il papa Alessandro VI, aragonese, cedette i territori appena conquistati ai sovrani spagnoli attraverso le due bolle Inter Caetera del 1493. Con il successivo Trattato di Tordesillas del 1494, le Corone di Spagna e Portogallo si divisero i territori latinoamericani sulla base della raya, il meridiano posto 370 leghe a ovest delle isole di Capo Verde.
Tutti questi aspetti hanno contribuito a creare un sistema di valori comuni che ha portato la popolazione a continuare a percepirsi come una comunità immaginata, nell’accezione data da Benedict Anderson. Percezione che è sopravvissuta anche dopo l’avvento della Rivoluzione francese e, quindi, del liberalismo e della secolarizzazione. Se in Europa questo evento portò alla rottura della società organica di ispirazione divina, in America latina il richiamo rimane ancora forte, contribuendo a rendere questi territori molto fertili per il fiorire dei populismi. Stando alla definizione di Loris Zanatta, infatti, i populismi altro non sono che nostalgia di questo organicismo, di unità del popolo, in contrapposizione alla segmentazione della società liberale.
Le ripercussioni di questa nostalgia sono visibili nella presenza, all’interno dei governi populisti, di un sistema corporativo che ha preso le distanze dalla democrazia liberale pur convivendo con le sue istituzioni.
Dove il populismo ha attecchito, i governi hanno basato il proprio ordine su corporazioni come sindacati (pensiamo al caso di Perón), forze armate (da cui, peraltro, provengono la maggior parte dei leader populisti), ma anche sulla forza delle istituzioni religiose e della Chiesa (si guardi al comunitarismo venezuelano o all’evangelismo brasiliano). Il sistema corporativo non esclude comunque il sostegno popolare che, in molti casi, è stato confermato non solo con enormi manifestazioni popolari, ma anche durante libere elezioni.
Come accennato in precedenza, però, se un principio di unità permane nell’immaginario latinoamericano, non si può comunque negare la specificità di ogni Paese e di ogni momento storico. È dunque evidente che alcuni Stati abbiano assorbito in modo più profondo i principi liberali a causa di ragioni storiche, geopolitiche ed economiche. Tra questi spicca il Cile, Paese che dalla dittatura pinochettista in poi si è legato al liberalismo fino a farne un mantra, da destra a sinistra, con le conseguenze di cui parleremo più avanti.
Se i governi populisti sono entrati in crisi, non si può dire che chi ha sposato tout court la democrazia liberale (e liberista) possa vantare grande stabilità.
Crisi dei populismi
In campagna elettorale e nelle fasi iniziali di governo, i populisti si presentano come coloro che lotteranno per restaurare o ricreare la legittimità del governo democratico, eliminando la corruzione e rimettendo al centro delle loro politiche il popolo, al contrario dei – da loro definiti – “governi delle élite”. Inizialmente, almeno quelli di idee progressiste, riescono anche a portare enormi benefici alla popolazione, riconoscendo e garantendo diritti civili e sociali, e migliorandone le condizioni economiche grazie a una parziale redistribuzione della ricchezza.
Spesso, però, le cose cambiano nel tempo. Perché? Certo, chi propone un’agenda politica di questo tipo non può andare a genio ai ricchi proprietari terrieri o a chi promuove un’economia liberista a tutti i costi – leggasi Stati Uniti, ma anche Banca mondiale e Fmi. Tuttavia, non si può attribuire solo al nemico esterno (geograficamente e ideologicamente) la crisi in cui finiscono per imbattersi i populismi di sinistra. Innanzitutto, l’incorruttibilità di cui si fanno portavoce questi governi spesso non corrisponde alla realtà.
Se si leggono i dati del Corruption perceptions index (Cpi), il grado di corruzione percepito dalla popolazione dei Paesi come Bolivia e Venezuela non è diminuito. In Venezuela, dopo un calo iniziale quando Chávez è salito al potere, la percezione che il sistema fosse corrotto è tendenzialmente cresciuta.
Nel caso di Evo Morales la popolazione ha cominciato a percepire un aumento della corruzione a partire dal 2016. In questa occasione Morales perse il referendum con il quale proponeva una modifica alla Costituzione, da lui stesso promossa nel 2009, per potersi ricandidare. Nel 2017, dopo che il presidente ha sollevato una questione di costituzionalità sul vincolo dei mandati, il Tribunale costituzionale plurinazionale li ha eliminati: l’anno successivo si è registrato il picco negativo nella percezione della corruzione. Anche in Venezuela si era passati da una Costituzione con limite di mandati a una senza, ma in questo caso era bastato il voto positivo dei cittadini al referendum per estendere il limite dei mandati. Non si vuole obiettare sulla possibilità di ricandidarsi – dal punto di vista europeo sarebbe ipocrita farlo, specie se guardiamo ai quattro governi consecutivi di Angela Merkel in Germania –, ma sulla forzatura istituzionale (e costituzionale) a cui inevitabilmente si arriva. E questo non può che incidere negativamente sul sostegno popolare.
Inoltre, le nazionalizzazioni delle imprese statali hanno portato sì all’esclusione di attori privati, ma con l’inserimento al loro posto di persone scelte in base alla fedeltà al governo: non si è arrivati a una collettivizzazione dei mezzi di produzione, insomma, ma alla sostituzione di una vecchia oligarchia con una nuova. A proposito dell’economia, se guardiamo in particolare al caso venezuelano, la programmazione a lungo termine è stata spesso sottovalutata, così come la diversificazione degli investimenti. Finché il prezzo del petrolio era alto, tutti i programmi sociali hanno continuato a ricevere finanziamenti e l’economia a godere di buona salute. La combinazione tra caduta del prezzo del petrolio e sanzioni degli Stati Uniti ha fatto sprofondare il Paese in una crisi economica gravissima.
Questo discorso non può essere applicato alla Bolivia che, tra i Paesi dell’America latina, è quello cresciuto più di tutti negli indicatori macroeconomici (crescita annua del Pil sempre superiore al 4%), oltre ad aver visto calare la povertà dal 60% al 35% e la povertà estrema dal 32% al 15%. Per arrivare a questo risultato Evo Morales ha sì nazionalizzato i settori chiave come quello del litio, ma ha anche integrato una parte di classe dominante, privandosi della componente indigena e popolare e allontanandosi dai movimenti sociali. La stabilità economica garantita anche dai prezzi alti delle materie prime ha portato, con il benestare del suo partito (Movimiento al socialismo, Mas), all’aumento di imprese private con importanti settori della classe dominante che hanno potuto concludere affari vantaggiosi come mai prima di questo momento. Il crescente bisogno di risorse ha incoraggiato l’estrazione di materie prime, come nel caso del litio a Potosí, e l’estensione della frontiera agricola per soddisfare le esigenze fondiarie dell’imprenditoria agroindustriale, oggi parte fondamentale del colpo di stato.
Dal punto di vista degli indicatori democratici, la minore pluralità d’informazione e la scarsa indipendenza del potere giudiziario hanno fatto scendere la Bolivia al 104esimo posto della classifica stilata attraverso il Democracy index. Nel caso boliviano la perdita di legittimità del governo e la fragilità delle istituzioni democratiche hanno aperto quello spiraglio in cui il potere militare, sempre più forte e autonomo, ha potuto inserirsi per mettere a segno il colpo di stato – sostenuto dai proprietari terrieri – dell’ottobre del 2019.
Si torna, così, al problema iniziale. I populismi fanno affidamento sulle corporazioni e sulle forzature delle istituzioni democratiche liberali per governare. Il mix di queste due cose e gli interventi degli attori esterni portano il castello vicino al crollo, come nel caso del Venezuela, o a essere spinto a cadere, come in Bolivia.
Crisi nel modello liberale
Se i governi di stampo populista hanno affrontato un anno difficile, quelli con una marcata impronta liberista hanno subìto scossoni altrettanto forti. I due Paesi più coinvolti sono stati Ecuador e Cile. Sebbene abbiano avuto un inizio simile della crisi – entrambe le manifestazioni di protesta sono scoppiate a seguito di un aumento dei prezzi, in Cile del biglietto della metro, in Ecuador del carburante – i due Paesi hanno avuto due percorsi diversi.
In Ecuador il governo di Lenín Moreno ha sottoscritto un accordo con l’Fmi per ottenere un credito di oltre 4 miliardi di dollari, in cambio di politiche volte a ridurre il deficit fiscale. A tal proposito il presidente ecuadoriano ha promosso un piano di austerità che, tra le varie misure, eliminava i sussidi per i combustibili attivi da oltre quarant’anni nello Stato. La protesta è stata guidata dalle comunità indigene, in lotta da anni contro la trivellazione indiscriminata nei loro territori dovuta alla necessità delle compagnie petrolifere di ampliare i pozzi di petrolio. Queste, riunite nella Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (Conaie), hanno guidato la mobilitazione fino a ottenere la sospensione della misura introdotta da Lenín Moreno. Raggiunto il risultato, le proteste si sono fermate.
Anche in Cile, dopo i primi giorni di manifestazioni, l’aumento sul costo del biglietto della metro è stato bloccato. In questo caso, tuttavia, la mobilitazione si è fatta ancora più forte. Le ragioni principali sono due. La prima è che in Ecuador la mobilitazione aveva una testa, la Conaie, con la quale il governo ha potuto contrattare fino ad arrivare a una soluzione. In Cile, invece, anche se iniziata dalla rete degli studenti, la protesta è continuata diffondendosi in tutti i settori della società e non offrendo, quindi, un vero interlocutore al governo Piñera. La seconda ragione è che l’Ecuador è ancora all’inizio di questo processo di liberalizzazione della società, mentre in Cile questo si è radicato fortemente dalla dittatura di Pinochet in poi – non è un caso che lo slogan cileno sia “No son 30 pesos, son 30 años”. Se in Ecuador il modello liberale è andato in crisi, ma sembra aver resistito, in Cile sono a rischio le stesse fondamenta del sistema.
Eppure il Cile è stato il Paese che più di tutti ha portato avanti queste politiche, ricevendo spesso il plauso degli Stati Uniti. Perché allora è entrato in crisi? La risposta è semplice e consequenziale alle premesse: perché il Cile è un Paese con un altissimo livello di disuguaglianza strutturale. Nonostante si sia ridotta la povertà, infatti, i limiti del sistema sono lampanti se andiamo ad analizzare alcuni dei settori chiave: pensioni, educazione e sanità.
Il Cile è stato il primo Paese a privatizzare il sistema pensionistico e le compagnie di assicurazioni che comprano e vendono nel mercato delle pensioni speculano su questo sistema per cercare di ottenere interessi migliori. Per farsi un’idea del business che gira attorno alle pensioni, le Afp (Administradoras de Fondos de Pensiones) – imprese private alle quali i lavoratori cileni destinano il 10% del loro salario – nel 2019 hanno aumentato i loro profitti del 70%, rispetto al 2018, nel periodo compreso tra gennaio e settembre. Nonostante questi guadagni, circa 700mila pensionati vivono con una pensione di 150mila pesos al mese (circa 185 euro) e sono poche le persone con pensioni adeguate al costo della vita – per lo più i professionisti, che ottengono comunque un misero 30% di quello che era il loro stipendio. C’è, invece, un 82% dei pensionati che riceve pensioni inferiori al salario minimo. Quest’ultimo si aggira intorno ai 360mila pesos al mese (circa 380 euro) a fronte di una canasta básica, i beni di prima necessità, stimata intorno ai 210mila pesos a famiglia (circa 225 euro). Il salario medio si aggira tra i 400mila i 500mila pesos al mese (tra i 520 e i 650 euro circa).
Anche il sistema sanitario, fortemente privatizzato, ha contribuito a far aumentare questa disuguaglianza. Lo Stato è totalmente assente in materia di diritto alla salute. Questa condizione porta a un accesso stratificato per classi. La classe privilegiata gode di un accesso facile a strutture migliori. La sanità pubblica, alla quale accede la maggioranza della popolazione, si caratterizza invece per una qualità inferiore, code infinite e mancanza di specialisti, soprattutto nelle località più lontane dal centro del Paese. In sostanza, chi ha più soldi accede a servizi e specialisti migliori, mentre le persone che hanno meno finiscono per morire di fame nell’attesa.
Infine c’è il problema dell’accesso all’educazione. Al centro delle proteste guidate dagli studenti nel 2011, il sistema educativo è stato oggetto di riforma durante il governo Bachelet. Per quanto una miglioria ci sia stata, le misure prese non hanno eliminato i problemi strutturali del settore. Il Cile, tra i Paesi Ocse, è quello con le tariffe più alte per accedere all’università: con un costo medio di 7.654 dollari, è dietro solo alle università pubbliche degli Stati Uniti. I giovani cileni tra i 18 e i 29 anni sono indebitati per un totale di oltre tre milioni, circa il 21% del debito totale dei cileni: la maggior parte di questi 3 milioni di debito viene contratto per pagarsi gli studi. Inoltre, secondo un report dell’Ocse del 2017, solo il 15% dei cileni è immatricolato in istituti di educazione superiori pubblici, contro una media del 68% negli altri Paesi dell’organizzazione.
A contribuire alla crisi, nel 2019 in Cile è salito di molto il prezzo degli affitti, oltre a quello di luce, gas e acqua.
Insomma, l’aumento del prezzo del biglietto è stata soltanto la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo. Una volta traboccato, rimettere l’acqua al suo interno sarà tutt’altro che facile.
Un modello tutto latinoamericano?
Per ragioni diverse, il 2019 ha segnato l’anno della crisi di entrambi i sistemi politici promossi in America latina. Non è facile proporre una soluzione a queste crisi, ma degli spunti su cui riflettere possono essere dati.
Innanzitutto quello che emerge è il desiderio della popolazione non solo di essere rimessa al centro dei progetti politici, ma anche di partecipare ai processi decisionali in maniera concreta. E il popolo latinoamericano ha una forza incredibile per far sentire la sua voce, nonostante spesso si cerchi di farlo tacere. Non si potranno trovare soluzioni senza che questo venga interpellato.
In secondo luogo, si deve ripensare a un’economia latinoamericana che si basi sui punti di forza della regione, dalle materie prime al turismo, senza che questi vengano gestiti in modo particolaristico da corporazioni o grandi proprietari terrieri. Bisogna realizzare non solo una redistribuzione reale della ricchezza, ma anche un accesso collettivo ai mezzi di produzione, tanto agricoli quanto industriali. È necessario, inoltre, fare degli investimenti mirati per migliorare il sistema sanitario e quello educativo, in direzione di un allargamento universale di questi diritti. Infine, sarebbe auspicabile un rafforzamento dell’indipendenza delle istituzioni e una seria riflessione sulle forze armate in generale, tanto per il loro coinvolgimento politico, quanto per il loro utilizzo repressivo.
Per far uscire la regione da una crisi di questa dimensione, non si può andare solo in direzione di un miglioramento dei due modelli presentati: si deve pensarne di nuovi. Un esempio potrebbe essere dato dalla comunità zapatista del Chiapas, luogo dove la terra è un bene comune, la proprietà privata è abolita e tutti i beni sono collettivi; dove donne e uomini sono uguali e i rappresentanti, eletti ogni due anni, devono discutere con tutti gli abitanti ogni decisione. Forse, così, si potrebbe finalmente arrivare alla chiusura delle vene, ancora aperte, dell’America latina.