Ieri: le dimensioni dell’intervento sociale
Ragionare su Tremezzo è, per me, una riflessione quasi personale, indotta dai fatto che il mondo del servizio sociale è stato anche il mio mondo per un breve periodo. Rivedendo le schede biografiche che la Sostoss ha pubblicato sulla “Rivista di Servizio Sociale”, ritrovo persone conosciute quali Josette Lupinacci, don de Menasce, Angela Zucconi, Emma Morin e Riccado Catelani, di cui sono stato molto amico, oltre ad Adriano Ossicini, con il quale sono ancora in amichevole rapporto.
Fino al 1955 avevo, infatti, frequentato il Cepas; stavo per diplomarmi, lasciai per una offerta della Svimez che non si poteva rifiutare, eda allora ho fatto il ricercatore sociale. E mi resta ancora il ricordo di una grande scenata fattami da Angela Zucconi, poco mancò che mi accusasse di alto tradimento (chi ha conosciuto Angela sa che aveva lo scatto d’ira facile).
Che cosa resta dentro di me di quegli anni e cosa posso trasmettere ai giovani di oggi?
Restano due cose: innanzitutto e una dimensione del ragionare forte di libertà dall’amministrazime, fuori dalle tentazioni burocratiche. A Tremezzo si diceva: aboliamo i ministeri, aboliamo la pratica ministeriale, perché ci ritrovavamo con una faticosa burocrazia, qual era la burocrazia fascista e post fascista con il ministero dell’Assistenza Post-bellica, ricettacolo di persone che venivano da diverse culture: il ministero dell’Africa italiana, il ministero dell’Interno con la Direzione generale dell’Assistenza pubblica. Auspicavamo modalità nuove che permettessero di far rinascere il paese. Avevamo tutti l’ansia di sganciarci dai ministeri, di fare dell’assistente sociale una fìgura sganciata dalla burocrazia. Ansia di un ambiente nuovo per l’assistenza, ansia di libertà da una cultura tradizionale dell’amministrazione e da un’assistenza segmentata, libertà dall’Onmi e dall’Enaoli, voglia di respirare a pieni polmoni. Una cultura nuova, una società nuova, una possibilità di nuovi italiani.
Una gran parte dei promotori di Tremezzo veniva dalla dimensione resistenziale, veniva dalla voglia di rifare l’Italia. Molti l’hanno dimenticato, ma per chi l’ha vissuta, come io allora poco più che ventenne, era una cosa di grande respiro. Stavamo cercando non di rifare l’Italia, sarebbe stata un’idiozia, stavamo cercando strade nuove per l’Italia, per questa Nazione che stava risorgendo con meno costrizioni della logica precedente. Volevamo un paese meno abbrutito nella burocrazia, meno paternalista nei suoi segmenti. Quando pensiamo a questo tipo di persone, come don de Menasce, il giudice Guido Colucci, Angela Zucconi, sentiamo quasi una dimensione profetica, che c’era.
Nel libro di Ossicini, bellissimo libro, c’era anche lì una voglia, il senso di cominciare un percorso nuovo, di liberarsi degli schemi precedenti: in Ossicini che faceva politica con una linea di fedeltà a un metodo precedente. Nel libro, lo posso dire, è scritto, Ossicini ricorda un suo colloquio con De Gasperi, avvenuto nel 1938. I1 padre di Ossicini era deputato del Partito popolare e De Gasperi, che conosceva l’ambiente, voleva incontrare Adriano, che era un po’ più a sinistra di lui. Fissare un incontro non era facile, erano entrambi sorvegliati speciali. L’occasione fu una festa di compleanno della figlia dell’onorevole Spataro: l’invitato De Gasperi e l’invitato Ossicini si misero poi in un cantuccio e parlarono, e De Gasperi disse a Ossicini: “Che fai con i cristiani sociali o con i cattolici comunisti, vieni con noi, noi che ci stiamo preparando, ci stiamo preparando a prendere l’eredità del fascismo, preparando per il dopo Mussolini”. Fin da allora, anno 1938! Solo un pazzo, un bibliotecario in Vaticano, poteva pensare al dopo fascismo nel 1938, periodo della grande vittoria di Mussolini e della fine della guerra di Spagna; nessuno dubitava della durata eterna del regime, invece De Gasperi e Ossicini si incontrarono per preparare la successione. Noi siamo figli di quella logica, della logica di chi ha creduto nel paese, che si è preparato, che ha servito e creato una lunga durata, una lunga durata del respirare largo.
La seconda cosa che resta di quel periodo è la divisione sottile, ma che c’è stata, nel servizio sociale, tra l’aderire a un respiro della società vissuto ne1 territorio, e il cercare il rapporto con le singole persone anche all’interno delle strutture assistenziali, Le persone simbolo di questi due meccanismi sono don de Menasce che vuole l’assistente sociale che lavora sulle persone, svolge un lavoro individuale, fa lo psicologo della persona, creaun adattamento della persona all’ambiente; l’operatore può star dentro alle strutture assistenziali, la qualità della persona è l’obiettivo dell’assistente sociale. Dall’altra parte, l’altra grande figura di allora, Angela Zucconi, ha un’opinione totalmente diversa, afferma che la persona cresce nella propria comunità, quindi il lavoro dell’assistente sociale sta nel lavorare nella comunità, sta nel lavoro di gruppo, sta nel creare dimensioni collettive, di socializzazione, di qualità della vita, dove l’uomo può crescere. Due logiche diverse, sulle quali la mia generazione si è arrovellata e interrogata a lungo, non è stato facile, c’era da parte di tutte e due le scuole, l’Ensiss e il Cepas, una sorta di presunzione di superiorità intellettuale.
Dove stavano i limiti e i successi delle due impostazioni?
Nella dimensione che per me è rimasta fondamentale: quella.del Cepas di Angela Zucconi e di Adrìano Olivetti che stava dietro e che finanziava il Cepas. La dimensione comunitaria per me è sempre stata la cultura vera della crescita di questo popolo, di questa nazione; la dimensione comunitaria mi è sempre apparsa come la dimensione vera in cui un popolo cresce. Non a caso quando ho fatto ricerca mi sono interessato dei territori, dei localismi, dei borghi, dei distretti industriali.
Ma questa dimensione comunitaria aveva un’estrema debolezza, specialmente negli anni cinquanta. La dimensione comunitaria, quella in cui il popolo cresce, chi la garantiva? La garantiva Olivetti, che finanziava la scuola e la rivista “Centro sociale”, la garantivano in qualche modo l’Unrra Casas, e l’Aai; non c’erano ancora l’Ises e la Gescal. Ma il potere non stava là, andava probabilmente più verso la logica di don de Menasce, il potere andava verso la logica in cui l’assistente sociale è un operatore psicosociale che opera nelle strutture per adattare l’individuo, l’uomo, la persona in disagio all’ambiente, alla struttura assistenziale. L’obiettivo è migliorare il rapporto tra l’uomo e la struttura.
Lo dico da cattolico fervente e praticante, la Chiesa cattolica aveva accettato questa seconda ipotesi, lasciamo perdere l’assistenza tradizionale della Poa che era una cosa post-bellica come il ministero. La Chiesa, ed evidentemente la Democrazia cristiana, hanno creato le condizioni perché la dimensione dell’assistente sociale fosse nelle strutture, non fuori delle strutture; non sul territorio, ma nel Servizio sanitario nazionale; non sul territorio, ma per i minori usciti dalla galera; non nel territorio, ma nella scuola. L’istituzionalizzazione è avvenuta anche da parte di molte delle persone che hanno fondato il servizio sociale, che sono nel Pantheon del servizio sociale e che non erano democristiani. Non lo era certamente Calogero che pure portò il Cepas verso l’università. Le due logiche negli anni cinquanta si divaricavano, e una diventava sempre più potente negli interventi istituzionali, ma non quanto immaginavamo noi negli anni cinquantata, con la capacità di modificare l’Italia, di modificare la cultura italiana. L’istituzionalizzazione è avvenuta nello scontro tra Scassellati e Catelani anche in modo emblematico nell’Asem (Attività sociali ed educative nel Mezzogiorno) e il gruppo Molino e Montini, che hanno riportato alla logica dell’Aai qualche cosa che era nata fuori, voleva essere diversa. I centri sociali del Mezzogiorno, i centri di cultura popolare del Mezzogiorno erano qualche cosa di diverso. Tutti coloro che partecipavano alla logica comunitaria, l’Unla (Unione nazionale lotta all’analfabetismo), il Mcc (Movimento di collaborazione civica) lentamente o sono scomparsi o sono rifluiti nelle istituzioni.
È stato un tradimento? Personalmente ritengo in parte sì. Perché è vero che c’è un bisogno, una tensione, una tentazione di istituzionalizzazione. Tutti sanno che da cinquantatré anni faccio il mestiere di ricercatore, e da quarantasette anni faccio l’imprenditore, per fortuna con. un certo successo. I1 mio pensiero per il futuro è: questo Censis lo istituzionalizzo o continuo a mantenerlo in vita sul mercato, cercando e ottenendo le settanta ricerche l’anno che consentono la sopravvivenza? Tutti sanno che nella vecchiaia c’è la tentazione di istituzionalizzare, è stata la tentazione di Angela Zucconi, di don de Menasce, e noi giovani allora non abbiamo avuto la forza di opporci. Non abbiamo fatto una lotta per reagire all’istituzionalizzazione.
Avevamo invece grandi esempi. Pensate a cosa era il servizio sociale nell’ Unrra Casas con Volponi e Giovanni Bussi, e pensate a cosa è stato l’Ises successivo con Cigliana, Ferrarotti, Olivetti. Eppure se ci ritroviamo noi settantacinquenni sappiamo che in quel momento non abbiamo difeso gli input del dopoguerra, gli input che ci venivano da Lucia Corti, dalla principessa Caetani, allora padrona dell’insula Caetani, dove c’è l’Istituto Treccani, nel palazzo in cui sono nati il Movimento di collaborazione civica, il Centro sociale giovanile, il Cemea, e tante altre cose che, venendo dalla esperienza americana, avevano il senso di creare comunità.
Nello scontro tra Giorgio Molino, che riconduceva tutto alla burocrazia, peraltro ottima burocrazia dell’Aai, e Ubaldo Scassellati, che voleva rimanere fuori, ha vinto l’istituzione, anche con minacce di denunce penali. I processi di restaurazione a volte sono molto più cattivi di quanto si pensi. Di quel modo di combattere abbiamo sofferto, io ho sofferto, e allora si capisce tutto quello che è avvenuto negli anni sessanta, dove tutto è andato verso l’istituzionalizzazione.
Molto spesso diciamo che le cliniche private e l’industria farmaceutica sono una distorsione della realtà sanitaria, in parte è vero, ma la vera distorsione è stata questa profonda e crescente istituzionalizzazione pubblica per cui abbiamo troppi ospedali, troppe corporazioni: quando è stata regionalizzata, l’assistenza è stata burocratizzata. L’istituzionalizzazione sanitaria ha portato troppi ospedali a distanza di pochi metri l’uno dall’altro. Ma ricordo specialmente che quando abbiamo creato le Regioni è stata burocratizzata l’assistenza.
Io, per ragioni di affetto e collegamento con il giro dei primi assistenti sociali, ho fatto il presidente dell’Associazione nazionale focolari, che in base a una convenzione con il ministero di Grazia e Giustizia, gestiva case di accoglienza dei minori dopo la reclusione. Erano strutture nelle quali padre e madre, o allo-padre e allo-madre, due operatori, coabitavano ricreando ambienti parafamiliari, Con questo mondo ho avuto un rapporto emotivo e affettivo che ho lasciato con difficoltà e grande rincrescimento. Nel 1972 quando è arrivato il diktat del ministero di applicare la legge che attribuiva la competenza alla regione, nei Focolari i due operatori sono stati sostituiti da otto operatori, impiegati regionali, che turnavano per sei ore ciascuno. Non c’è più stato nulla di significativamente utile per il reinserimento dei ragazzi. È chiaro che la casa famiglia non può funzionare con turni di sei ore, per far lavorare più persone. Il trasferimento del lavoro svolto dai Focolari, realizzato da coppie di assistenti sociali in un’anonima struttura pubblica, comportò l’abbandono di quel rapporto emotivo che era alla base di quel movimento e di quella ricca esperienza associativa. Poi è finito tutto, l’associazione dei Focolari è stata addirittura chiusa. È quello che è avvenuto anche in gran parte nella scuola.
Gli anni sessanta e settanta sono stati anni in cui tutto veniva istituzionalizzato. Il passaggio dal diritto sanitario o previdenziale come diritto non legato al lavoro, ma diritto di cittadinanza, in cui tutti hanno diritto, è stato un fatto civile, però alla fine si è appiattito tutto. Abbiamo assistito allo sviluppo della scuola di massa, alla liberalizzazione dell’accesso all’università, alla riforma della scuola secondaria, in una scuola di massa che appiattisce tutto.
Un grande popolo ma seduto, e non volevamo un popolo seduto, volevamo un popolo che avesse la responsabilità personale e collettiva di crescere in sé, lo sviluppo della comunità dentro di sé che cresce. Il territorio che pensavamo era un territorio umanamente più vitale, dove il sociale avesse una dimensione prioritaria, avesse un protagonismo vero, avesse l’idea che io assistente sociale che faccio il centro sociale Unrra-Casas in Abruzzo o alle case Unrra di Frascati sento di essere protagonista di sviluppo locale, protagonista di una crescita di comunità, di una idea di comunità, non prigioniero del bullismo scolastico, o del corporativismo degli infermieri in sanità.
Questo è il rovello che mi viene quando ritorno agli anni cinquanta, al servizio sociale, alla mia storia al Cepas e alla storia successiva dell’assistenza, da un lato collocata nell’alveo degli interventi di ordine pubblico e, dall’altro, tra quelli di competenza del mondo ecclesiastico.
Io sono convinto che tutto è avvenuto negli anni sessanta-settanta, con l’abbandono della cultura forte di trasformare il mondo di allora, come ipotizzato negli anni cinquanta; con l’abbandono della cultura che a quell’epoca sembrò di importazione (i corsi del Mcc crano finanziati dai quaccheri americani, erano aperti da personaggi inglesi che ci insegnavano a cantare canti popolari e ad alzare il ditino per parlare) éd invece era l’immissione di cultura diversa, un grande fiotto di innovazione.
Oggi il sociale è certamente sottoposto a verifica e analisi nel suo insieme, non nei casi limite.
Oggi i1 sociale viene osservato attraverso i sondaggi, la dimensione media della società. Si ricercano i grandi numeri, non lo scarto quadratico rispetto alla media e questo per il sociale è una regressione vera, questo significa lavorare sulle medie, lavorare sul corpo sociale inerte che dà la maggioranza ai sondaggi. Mentre i movimenti della società sono ai margini e non al centro, gli strumenti che ci sono dati per capire la società nel suo complesso sono strumenti che leggono solo la parte centrale e non quella periferica. Sono convinto che la società si capisce non sulla media, ma sullo scarto quadratico medio. Cioè sulla dimensione di confine, sui comportamenti dei tossicodipendenti, dei baby killer, degli anziani soli. Sono gli aspetti di periferia che hanno un senso.
Dovremo ricominciare a recuperare questa cultura dei comportamenti. Se vogliamo capire l’Italia bisogna avere il coraggio che avevamo noi quando giravamo le borgate romane per capire perché succedevano determinati comportamenti. Da lì abbiamo iniziato il percorso per comprendere la realtà italiana. Il filo rosso che conduce alla piena comprensione della società non sta nelle grandi medie della normalità, sta invece nella capacità di capire le vibrazioni della periferia anche quando sono devianti.
Ora non c’è nulla che ci viene da fuori. Non siamo riusciti a prendere i germi d’innovazione che c’erano, specialmente nella dimensione comunitaria e trasformarli in una professione che aiuta a crescere l’Italia, non una professione che aiuta a provvedere a un singolo bisogno di una persona che sta all’interno di una logica istituzionale data. L’istituzionalizzazione è la vera tentazione e i1 rischio del secolo.