I tedeschi

Alla “Nazione” organizzai un piccolo centro di appuntamenti e di informazioni. D’accordo con me, un usciere mio amico faceva entrare nella stanza d’aspetto coloro che chiedevano di vedermi. Passati molti mesi venne al giornale anche Lina Fanciullacci. Non la conoscevo, ma somigliava tanto a suo fratello che capii subito chi era. Da giorni non sapeva più nulla di Bruno; preoccupata, non era riuscita a prendere contatti con il partito. L’aveva mandata da me Rosai che aveva ospitato a lungo Fanciullacci ferito nella casa di via dei Benci. Capivo la sua angoscia, ma la rimproverai con dolcezza di essere venuta lì: si infrangevano le regole cospirative più elementari con gravi pericoli per altri compagni. Immaginavo che Bruno fosse stato arrestato dagli uomini di Carità insieme con parecchi altri gappisti: uno di loro, Romeo, era stato preso, picchiato e torturato, aveva fatto nomi e indicato la piazza dove i nostri compagni si riunivano. Detti a Lina un appuntamento per l’indomani mattina in un altro posto promettendole di informarmi sulla sorte di Bruno, e non era facile perché molti compagni dirigenti stavano giustamente nascosti o si erano allontanati da Firenze per lasciar passare la sfuriata della polizia. Riuscii a sapere che i gappisti arrestati erano stati uccisi a percosse e a pugnalate a “Villa triste”. Non rimaneva che cercare al cimitero di Trespiano, e lo dissi a Lina. Quello stesso pomeriggio, in quattro compagni, De Grada, Marta Chiesi, Lina e io, andammo al camposanto. Nel piazzale, ammucchiati l’uno contro l’altro, alcuni nudi, altri con i soli pantaloni, stavano i cadaveri dei gappisti, un groviglio che riempiva di sgomento. Io e De Grada cominciammo a spostare i cadaveri. All’infuori di Chianesi con il dorso colpito da pallottole, avevano il corpo straziato da pugnalate.
Trovammo Bruno: un taglio sulla fronte, il volto viola e sul basso ventre decine di ferite. Guardai Lina: immobile, con il volto irrigidito, taceva. Marta Chiesi svenne. Quando tornò in sé, ci avviammo verso il tramvai per tornare in città. In via Bolognese, dinanzi a “Villa triste”, il covo di Carità, cercai di distrarla: mi fissò a lungo. Capivo che voleva dirmi: “Come li vendichiamo?”. Le dissi: “Se ce la faremo, ormai è tutto inutile”. Marta svenne di nuovo. ma in piazza del Duomo. Dovevo accompagnare Lina nelle vicinanze di casa sua. Quando la lasciai mi baciò. De Grada accompagnò Marta, in via dei Servi dove abitava, un breve tratto da percorrere, ma la ragazza svenne ancora e rimase stravolta per parecchi giorni, ed era una compagna che aveva sempre dimostrato molto coraggio.
Alla “Nazione” da amici e colleghi fidati mi ero fatto dare le loro cassette della posta: ci tenevo esplosivi, bombe, pistole, manifestini. Nessuno poteva sospettare che quelle cassette servissero da nascondiglio. Il secondo piano del palazzo era occupato dai tedeschi della Propaganda Staffen. Quasi sempre vi si trovavano soltanto un giovane tenente e il suo attendente, un austriaco di oltre quarant’anni. Quando sonava l’allarme aereo egli si precipitava per le scale e si rifugiava nella sala delle rotative. L’usciere gli diceva: “Avete scatenato la guerra e ora morite di paura”. Il soldato si fermava e, incurante del rumore delle fortezze volanti che traversavano il cielo della città, invelenito gridava: “Io non volevo la guerra, sono austriaco e non tedesco. Maledetti nazisti. Io non volevo la guerra. Nemmeno il tenente voleva la guerra” e picchiava violenti pugni sul banco dell’usciere. Il tenente Muller, si chiamava così, era un giovane tranquillo che parlava poco, stava solo nella sua stanza, con la porta sempre spalancata davanti a una scrivania piena di carte e di timbri. I fascisti e i nazisti saccheggiavano i bar e i caffè, Muller, se aveva voglia di bere, dava i denari all’attendente e lo mandava a comprare una bottiglia di cognac. Un giorno vidi sulla scrivania una pila di lasciapassare verdi uguali a quelli che avevano rilasciato a noi giornalisti: la stanza era vuota, presi un po’ di quei cartoncini e la sera li consegnai a Rossi. Potevamo riempirli con nomi falsi, ma non era possibile fabbricare un timbro se non avevamo l’originale. Dissi a Rossi che con pazienza, quando avessi scoperto quale fosse, avrei potuto per qualche ora sottrarre il timbro al tenente e poi rimetterlo a posto. Il redattore capo della “Nazione” mandava sempre me da Muller se occorreva sottoporre alla sua censura alcune notizie sulla guerra. Riuscii a prendere il timbro, lo portai a Tagliaferri in via del Moro, il quale lo consegnò a un artigiano esperto in quel mestiere che ne prese l’impronta con la cera. Dopo ventiquattro ore rimisi il timbro sulla scrivania. Quando gli portai di nuovo alcune notizie da esaminare, Muller mi disse: “Sono spariti quindici lasciapassare e per un giorno un timbro”. Lo guardai in silenzio. In quel momento entrò nella stanza un ufficiale tedesco, alto e bruno, lo avevo visto altre volte in tipografia, che chiese a Muller un volume dell’Enciclopedia Treccani. “A che ti serve?” gli chiese il tenente. “Gli americani hanno bombardato San Marino e io non so nulla di San Marino” rispose l’altro. “Un bombardamento forte?” chiese Muller. “No, sembra una sola bomba”. Mi misi a ridere; era chiaro: soltanto i nazisti potevano avere sganciato la bomba per poi addossare la responsabilità agli americani. L’ufficiale che aveva portato la notizia se ne andò con il volume della Treccani. Guardai Muller. Egli non riprese il discorso sui lasciapassare e sul timbro. Mi disse: “Perché ride? Un giorno o l’altro la porto in Polonia”. Fissai, oltre le sue spalle, la carta dell’Europa appesa alla parete. “Faccia presto, della Polonia gliene rimane ormai poca” gli risposi. Sorrise, lesse le notizie, ci mise il visto e, per la prima volta, mi diede la mano. Pochi giorni prima dell’emergenza, davanti al Bottegone, vidi Muller. Indossava un abito leggero, marrone chiaro, e calzava scarpe bianche e marroni. Doveva aver disertato e trovato un rifugio. Questi tedeschi, si consegnarono al fato? Chi sa quanti dei loro ufficiali di stanza a Firenze conoscevano Muller. Anche un altro tenente tedesco, antinazista, Alexander, rifugiatosi in casa di Rosai insieme con Fanciullacci, tutti i pomeriggi usciva a fare una passeggiata, e pur vestito con abiti civili, si vedeva da lontano che era un tedesco, dal taglio dei capelli, dal portamento, dal passo militaresco. “Cammina come un cavallo” diceva Ottone. Fu lui che ci aiutò a liberare le nostre nostre compagne dal carcere femminile. Andai incontro a Muller. Avrei voluto dirgli lealmente: “Lasciapassare e timbro li ho presi io”. Quando fui a pochi passi da lui mi sorrise, alzò appena una mano, poi si voltò dall’altra parte come per dire: “Basta così”.
Avevo già in tasca la busta gialla che avrei dovuto aprire al momento dell’emergenza. Rossi mi aveva detto: “Non so ancora quello che dovrai fare, o rimanere in centro e occupare la “Nazione” con una squadra di partigiani, o essere spedito in un altro posto”. Il problema del giornale era stato risolto; comprato il tedesco che avrebbe dovuto rendere inagibili le tre rotative gettando nei rulli alcuni sacchetti di sabbia, era facile prenderne possesso. Avrei più volentieri combattuto. Nella busta trovai l’ordine di recarmi alla tipografia del partito, in via del Palazzo Bruciato, a Rifredi. Sul ponte del Mugnone, dinanzi a via dello Statuto, avevano già preso posizione i tedeschi, con due mitragliatrici a ogni lato e altri soldati sul marciapiede armati di mitra e di bombe. Indossavo pantaloni estivi colar kaki e una camicia azzurra. Nella mano sinistra tenevo una scatoletta di cartone bianco con dentro la pistola, due caricatori e la fascia tricolore del Comitato toscano di liberazione. Camminai diritto verso i tedeschi che si scostarono per lasciarmi passare. Nella tipografia trovai gli amici Orazio Barbieri e Luigi Sacconi e una decina di operai. Quando tolsero la corrente elettrica non potemmo più stampare né numeri dell’“Unità” in formato ridotto, sulla quale pubblicavamo le notizie di tutte le violenze, di tutti i delitti, che i tedeschi compivano a Rifredi, né manifestini, né manifesti invitanti alla lotta. Barbieri, che voleva raggiungere l’Arno e vedere dove gli alleati si fossero attestati, e Sacconi se ne andarono. La tipografia era bene armata, nascosta da un vialetto alberato, ma di lì non sarebbe stato possibile combattere. Il dietro era addossato a un alto caseggiato e non avremmo avuto una strada per indietreggiare. Radunai gli operai e chiesi loro che intenzioni avessero. Alcuni erano anziani e decisero di tornarsene a casa. Io, Aldo Dugini e i più giovani entrammo in una squadra d’azione popolare, ma sembrandoci che pochi avessero voglia di rischiare ci rifugiammo nella casa di Dugini in via della Cernaia. Ogni tanto uscivamo per accertarci di quello che facevano i tedeschi. La zona era abbastanza tranquilla, le strade piene di abitanti. Talvolta i tedeschi, da piazza della Vittoria, sparavano raffiche di mitragliatrice quando la strada era deserta. Entravano nelle ville lungo il Mugnone, sparavano dalle finestre oltre il fiume, gettavano fuori quello che trovavano, soprattutto stoviglie, riempivano di cocci gli argini verdi d’erba. Quando si erano sfogati se ne stavano calmi per qualche giorno. Avevano ucciso soltanto un uomo che rimaneva, con il suo vestito scuro, disteso bocconi nella poca acqua.
Una mattina, mentre sedevamo sugli scalini della porta di casa, venne un giovane del partito d’azione che già conoscevo e disse ad Aldo: “C’è un ufficiale dell’aviazione, badogliano, che muore di fame. Noi non possiamo aiutarlo, e voi? Sta in via delle Cinque Giornate al numero 4”. “Abbiamo poche uova conservate sotto la calce e farina gialla che un compagno ha trovato nella casa di un fascista fuggito al Nord. Possiamo portargliene un po’” rispose Dugini. Dalla nostra casa a via delle Cinque Giornate il tragitto era breve. “Questi tipi credono a tutti. Non sarà mica un’imboscata?” disse Aldo. Sull’imbrunire, uno dietro l’altro, rasente i palazzi, ci avviammo verso la casa indicataci. Giunti al quadrivio di via Crispi, dovevamo voltare a sinistra. Mentre tentavo di accertarmi, oltre l’angolo della strada, che non ci fossero tedeschi, dall’altro lato una signora affacciata alla finestra che poteva vedere meglio di noi ci fece un fischio. Mentre mi giravo, dalla parte del Mugnone qualcuno sparò un solo colpo; la pallottola mi sfiorò la testa e batté nel muro, sentii un leggero calore. Temetti di essere stato colpito, ma non provavo dolore. Mi carezzai la testa, guardai la mano, era sporca di cenere. La pallottola mi aveva sfiorato lasciandomi tra i capelli una perfetta striscia bianca, come se me li avesse rasati un barbiere. Ci ritirammo in fretta, facendo un ampio giro perché nessuno vedesse in quale casa entravamo. Ci riprovammo il giorno dopo e riuscimmo a raggiungere la casa dove stava l’aviatore. Era un piccolo villino a due piani con le finestre chiuse. Dissi ad Aldo: “Parlerò io, tu stai dietro di me. Se tossisco o ti faccio cenno estrai la pistola”. Misi la mia dentro la camicia per afferrarla meglio e sonai il campanello. Il cancello e la porta si aprirono. Entrammo e salimmo le scale. Ci accolse un giovane biondo, basso, la faccia lentigginosa i grandi occhiali neri. Vestiva con eleganza. Mi pregò di sedere su uno sgabello e si adagiò dinanzi a me su una larga poltrona. Eravamo nel soggiorno della casa che sul fondo piegava ad angolo retto. Di là potevano apparire altre persone. Aldo stava in piedi dietro di me e mi sfiorava. Lo toccai con un gomito. “Attenzione” volevo dirgli. Dinnanzi a noi apparve, senza fare alcun rumore, una ragazza, anche lei bionda, elegante, bella. Nessuno dei due sembrava soffrire la fame. Demmo alla ragazza il pacchetto con le uova e la farina. “Non abbiamo altro” le dissi. Il giovanotto confermò di essere un aviatore badogliano che con la sua ragazza si era rifugiato in quel villino per non farsi deportare al Nord dai tedeschi. Il suo racconto mi lasciava perplesso. Lui ci raccontò che il villino era la residenza di un console della milizia fascista. Aprì il cassetto di un mobile e ne trasse alcuni album di fotografie nelle quali era ritratto il console in vari atteggiamenti e in diverse divise: bianca, nera, grigioverde. In altre era circondato da donne che alzavano bicchieri, ridenti, scollate, come se stessero per iniziare un’orgia. Erano documenti interessanti che avrei preso volentieri. Mi alzai e tesi la mano al giovane. Lui disse: “Comunisti ne conosco altri: Marta Chiesi, De Grada, Susini, Bilenchi. Li ho incontrati nel convento di San Marco alle riunioni che facevamo con padre Lupi”. Padre Lupi ci aveva aiutato molto, aveva ospitato ebrei, gappisti, vestendoli da domenicani. Ma riunioni con lui nel convento non ne avevamo mai tenute. Lo incontravo, quando ce ne era bisogno, in casa di Marta Chiesi dove andava ogni giorno. Gli altri erano miei compagni e amici. Gli dissi: “Noi non siamo comunisti. Delle persone che ha nominato lei conosco soltanto Bilenchi per altre ragioni: se non sbaglio si chiama Romano ed è alto e biondo”. “Preciso, ci ho parlato spesso” disse l’aviatore. Prima che partissimo voleva regalarci un rotolo di stoffa azzurra scura, di scadente qualità, serviva per le divise degli avieri, e per mostrarcelo andò a prenderlo in un’altra stanza. Rifiutammo quel dono.
Uscimmo. “Quando ha fatto il tuo nome, stavo per prendere la pistola” disse Aldo. “È chiaro che non è un badogliano. Mi piacerebbe arrestarlo e accertare chi è. È molto losco, ma ora non possiamo fare nulla” gli risposi. Dopo pochi giorni andai a trovare Sanguinetti all’albergo Melegnano. Incontrai l’aviatore che usciva, lo stesso abito, gli stessi grandi occhiali neri. Non doveva avermi riconosciuto, anche perché ero pulito e vestito bene. Non lo fermai, non mi interessava più. Una mattina mi recai in questura, occupata dai partigiani. In una grande stanza, seduto in un angolo, attorniato da una ventina di compagni, c’era l’aviatore. Non aveva gli occhiali, ma era di certo lui. Un giovane gli diceva: “Fosti proprio te, per primo, a colpirmi in faccia con lo scudiscio”. L’altro taceva. “Chi è?” chiesi a un partigiano. “Un seviziatore della banda Kock. Ora lo sistemiamo noi” mi rispose. Me ne andai; erano già in parecchi a occuparsi di lui.
I tedeschi lasciarono Rifredi. A tenere il fronte del Mugnone erano poco più di un centinaio, qualcuno non arrivava a vent’anni, comandati da un tenente e da un sottotenente. Avevano un solo carro armato Tigre e alcune autoblindo sequestrate agli italiani. Mal vestiti e poco armati si opponevano a eserciti immensi. Negli ultimi giorni sembravano impazziti. Entravano a gruppetti nelle case, chiedevano: “Partizan, Partizan” come non avessero altro in mente. Si facevano dare camicie e pantaloni, e parecchi di loro, se non avessero avuto una mitraglietta a tracolla o una pistola alla cintola, sarebbero apparsi giovani della zona. C’era un tedesco vestito come me: ci scambiavano spesso l’uno per l’altro, non pochi fuggivano mentre passavo benché non avessi armi in mostra.
La mattina prestissimo sentimmo sferragliare il Tigre e dopo un po’ gente gridare. Io e Aldo ci vestimmo e uscimmo. Le strade erano piene di persone. Molte, più di mille, rimaste bloccate oltre il Mugnone dall’emergenza, correvano verso il ponte dello Statuto che era stato fatto saltare. Da Rifredi giungevano uomini e donne che gridavano: “Siamo liberi. I tedeschi se ne sono andati”. La gente si ammassò sull’argine del fiume che era quasi in secca. Il parapetto che ci stava di fronte era alto e nessuno sarebbe riuscito a scalarlo. La gente aumentava. Vicino alle macerie del ponte, sul letto del Mugnone, qualcuno, forse i tedeschi, aveva costruito una passerella di pietre. Traverso quella avremmo potuto andare dall’altra parte. Dissi a un giovane: “C’è bisogno di una scala”. Mi guardò stupito. “È giusto, non ci avevo pensato” disse e correndo voltò in via della Cernaia. Tornai sull’argine. All’improvviso un uomo dette un pugno a un altro, che se ne stava tranquillo, con le mani in tasca, e guardava il Mugnone. “È un fascista” gridò quello che lo aveva colpito. In parecchi si scagliarono contro l’uomo, che era magro, basso, curvo. Entrai nella calca seguito da Aldo. “Che fascista eri? Hai fatto del male a qualcuno?” dissi. “Ero nella milizia ferroviaria. Mi arruolai tardi” rispose. “Fermi. Teneva i borsaioli lontano dai treni” dissi. “Ma tu chi sei?” mi chiese quello che aveva tirato il pugno. La gente intorno a noi gridava e spingeva. Mi infilai nel braccio sinistro la fascia tricolore del Comitato di liberazione nazionale che tenevo in una tasca. Presi la pistola dall’altra tasca. Lo scalmanato scomparve tra la folla. Giunse, insieme con un ragazzo che lo aiutava, quello che era corso a cercare una scala, e tutti tacquero. Io, Aldo, l’uomo e il ragazzo scendemmo sul fiume, lo traversammo, appoggiammo la scala al muro: arrivava oltre la spalletta. Dissi alla gente di mettersi in fila e di cominciare a salire, con calma, perché la scala non si spezzasse. Il passaggio durò fino alle sei e mezzo. Infine salimmo, Aldo, il milite che non si staccava da me e in ultimo io. Lasciammo la scala lì: avrebbe potuto servire per qualcun altro. Il milite ci ringraziò e si diresse verso il viale Milton. Io e Aldo proseguimmo. Dalle piante che stavano dietro la vasca della fortezza uscì un ufficiale tedesco, un capitano, basso, tarchiato. Fissò le fasce tricolori e le pistole. “Siamo comunisti e partigiani” gli dissi. Il tedesco socchiuse gli occhi, parve ingollare saliva. “Non sono una Ss, non sono nazista” disse. “Vieni con noi” gli dissi. Dopo pochi passi, mi toccò un braccio, si fermò e mi disse: “Se mi dai un vestito borghese ti regalo questa”. Da sotto la giacca sfilò una borsa da donna, vecchia, nera, fatta a uncinetto. L’aprì, dentro c’erano parecchi gioielli e un biglietto da visita con un nome e un cognome e un indirizzo, piazza San Lorenzo n. 4. “Hai rubato questi gioielli. Avete saccheggiato le case del centro. E di questa donna che ne avete fatto?” dissi. Lo guardai in faccia. “Non ti do un vestito, non ti faccio fuggire. Se avete ucciso la donna, la pagherai” aggiunsi. “Voi siete combattenti italiani, mi arrendo a voi, sono vostro prigioniero di guerra. Non mi fate del male” disse. “Se la donna è viva e non sei stato tu a rubarle la borsa, ti consegneremo agli inglesi” gli dissi. “Agli inglesi no, voglio essere consegnato agli americani. Dammi la tua parola d’onore” disse. “Parola di partigiano. Ti consegneremo agli americani” gli dissi. Stavamo per entrare in piazza Indipendenza. Un uomo che conoscevo perché avevo abitato in via di Barbano, uscì da una porta e mi disse: “Non passate dalla piazza. All’imbocco di via Nazionale ci sono gli inglesi. Vi disarmano subito”. Tornammo indietro, allungammo il cammino, e traversando via Santa Caterina d’Alessandria ci dirigemmo verso via San Gallo. All’inizio di via Nazionale scorgemmo trincee di sacchetti di sabbia e altri sacchetti posti sul balcone di un albergo, soldati con l’elmetto schiacciato, alcune mitragliere. Da quasi un mese sostavano lì senza voler passare il Mugnone. Via San Gallo era piena di gente, dalle finestre ci chiedevano: “Dove sono i tedeschi?”. “Se ne sono andati stanotte alle tre” rispondevamo a ogni passo. “Ma è vero?” “È vero, è vero, noi veniamo da Rifredi” dicevamo. A molte finestre apparvero bandiere tricolori e la strada si faceva sempre più colma di gente. Arrivati davanti alla questura, fummo assaliti da un gruppo di uomini. “C’è un tedesco” si misero a gridare, e minacciavano di farlo a pezzi. “Sono un ufficiale partigiano, abbiamo preso prigioniero questo tedesco e lo consegneremo al comando americano. Gli abbiamo dato la nostra parola d’onore”. Eravamo pressati da tutte le parti e quegli uomini diventavano sempre più violenti. Non ho mai sopportato di vedere un uomo picchiato da due altri uomini, e noi ormai eravamo circondati da decine di persone. “Guarda come si può morire. E può anche darsi davvero che questo poveraccio non sia nazista”. Io e Aldo spingemmo il tedesco verso il muro, lo coprimmo con il nostro corpo, misi la pallottola in canna e puntai la pistola su l’uomo che aveva gridato per primo. “Noi non siamo nazisti e non dobbiamo fare come i nazisti. È prigioniero di guerra. Il primo che si muove gli sparo” dissi ed ero deciso a sparare. Dalla questura uscirono alcuni partigiani, tra i quali c’era un poliziotto, un compagno, il brigadiere Innocenti, che nella clandestinità aveva lavorato con me. Gli spiegai quello che stava accadendo. “Hai ragione” mi disse, e lui e i suoi compagni dispersero la gente. Proseguimmo per via Ginori ed entrammo in piazza San Lorenzo, salimmo le scale del palazzo indicato nel biglietto da visita che era dentro la borsa, cominciammo a bussare a tutte le porte, ma nessuno rispondeva, infine all’ultimo piano venne ad aprire una donna anziana. Riconobbe subito la borsa. Le chiesi se era stato il tedesco che ci accompagnava a rubargliela. “No, questo non c’era. Sono entrati tre diavoli biondi, tutti pieni di armi, altissimi. Non avevo mai visto uomini così alti” rispose. Fui colto da un flusso di calore, di benessere, di gioia. “La borsa l’ho presa a un soldato” disse il prigioniero. Avevo visto anch’io il giorno prima dell’emergenza un gruppetto di militi delle SS uguali a quelli descritti dalla donna. Era impossibile che un uomo della statura del nostro prigioniero avesse potuto strappare la borsa a uno di loro, ma non rivolsi al capitano nessuna altra domanda. In piazza del Duomo chiesi a una ragazza dove potevo trovare un comando militare. “A palazzo Davanzati” mi rispose. Ci recammo là. L’ingresso era pieno di partigiani. C’era il comando della divisione Sinigaglia. Scorsi seduti dinanzi a un tavolo Mario Spinella e Raffaellino De Grada che ormai non vedevo da parecchi giorni. Ci abbracciammo. Spiegai al comandante chi era il tedesco e gli chiesi dove risiedeva il comando americano. “Di là d’Arno. Loro non hanno furia, hanno troppa paura di morire” mi rispose. Lo pregai di consegnare l’ufficiale agli americani. Mi dette una ricevuta e la parola d’onore che al prigioniero non sarebbe stata rivolta neppure un’ingiuria. Potevo fidarmi. Chiesi dove era la sede del partito. “Andiamo a salutare Rossi e gli altri e a fare vedere loro che siamo vivi” disse Aldo.
Nel pomeriggio tornai al partito. Giunse un uomo sudato e ansimante. “I tedeschi sono di nuovo a Rifredi” disse e sedette sconsolato. “Sono molti?” gli chiese Rossi. “Sì” rispose l’altro. Credevo poco a quell’uomo: mi sembrava impossibile un contrattacco tedesco, a meno che non fossero giunti rinforzi. Ma i nazisti erano ormai in ritirata. Rossi mi disse: “Già che sei pratico della zona vai a vedere. Ad armi come stai?”. “Ne abbiamo nascoste un po’ in un luogo sicuro ed è facile recuperarle” risposi. Vennero con me sei compagni tra i quali Bibi, uno dei giovani tipografi che avevo conosciuto in via del Palazzo Bruciato e che si trovava nella sede del partito. Camminavamo in fretta, quasi inquadrati. Giunti al Mugnone, si avvicinò un soldato straniero, un italoamericano, e ci chiese chi eravamo e dove andavamo. Ci seguì. I tedeschi erano tre, giovanissimi, con la tuta mimetica, l’elmetto, armati di mitra, coperti di cartuccere. Sparavano contro le case, sulla strada. Rispondendo alle loro raffiche con rari colpi di pistola, li fermammo, piano piano li respingemmo oltre l’abitato. Ripararono dietro il cancello di una villa. Ogni tanto sparavano ancora. L’americano mi disse: “Vado a chiamare un carro armato”. “E come fa a passare il Mugnone? Così rimarremmo qui qualche settimana. Vedrai che quando avranno finito i proiettili se ne andranno” gli dissi. Così fu. I tre giovani ci voltarono le spalle. Camminavano lenti nel mezzo della strada, come se facessero una passeggiata, senza mai voltarsi indietro. “Li inseguiamo. Mi piacerebbe finire questa storia ammazzando un tedesco” disse Bibi. “Ora sarebbe un assassinio. Lasciali tranquilli. Vanno a stare peggio di noi” gli risposi.
(tratto da Romano Bilenchi, Amici, Rizzoli 1988)