I profughi palestinesi hanno il diritto di tornare. Gli israeliani dovrebbero capirlo

Traduzione di Giovanni Pillonca
Peter Beinart è professore di giornalismo e scienze politiche alla Newmark School of Journalism della City University of New York. Cura una newsletter settimanale, The Beinart Notebook, ed è direttore della pubblicazione “Jewish Currents”, dove è stata pubblicata l’11 maggio 2011 una prima versione di questo articolo, con il titolo “Teshuva: A Jewish Case for Palestinian Refugee Return”, che è poi stato ripreso dal New York Times il 12 maggio e dal Guardian, il 18.
Il 15 maggio scorso si commemorava la Nakba e i 700.000 Palestinesi espulsi da Israele nel 1948. La ricorrenza ha avuto una risonanza speciale poiché ha coinciso con la tentata espulsione di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, fattore che insieme alle cariche della polizia nella Spianata delle Moschee ha contribuito a innescare la violenta crisi che ha travolto Israele e la Palestina.
Con tale commemorazione si ricorda il passato e si sostiene la speranza che tale catastrofe possa essere superata, con il ritorno a casa dei profughi palestinesi e dei loro discendenti. Nella mia comunità, in Israele e nella diaspora, al contrario, i leader ebrei chiedono ai Palestinesi di dimenticare il passato e andare avanti.
Tra gli Ebrei, il rifiuto di dimenticare il passato – o di accettarne il verdetto – è motivo di profondo orgoglio. “Dopo essere stato esiliato con la forza dalla loro terra, il popolo ha mantenuto fede ad essa durante la sua dispersione”, proclama la Dichiarazione di indipendenza israeliana. Lo Stato di Israele costituisce “la realizzazione” di questo “sogno secolare”.
Perché sognare il ritorno è lodevole per gli Ebrei e patologico per i Palestinesi? Porre la domanda non implica che i due sogni siano simmetrici. Le famiglie palestinesi che piangono città come Jaffa o Safed vissero lì di recente e ricordano dettagli intimi delle loro case perdute. Esse hanno subito la spoliazione sulla propria pelle. Gli Ebrei, che per secoli hanno manifestato il proprio dolore in occasione di Tisha B’Av – la ricorrenza che ricorda la distruzione del Primo e del Secondo Tempio e quella di Gerusalemme – possono solo immaginarla.
“Non hai mai smesso di sognare”, ha detto una volta il poeta palestinese Mahmoud Darwish a un’intervistatrice israeliana. “Ma il tuo sogno è più lontano nel tempo e nello spazio… Io sono un esule da soli 50 anni. Il mio sogno è vivido, fresco”. Darwish notava un’altra differenza cruciale tra la dispersione ebraica e quella palestinese: “Voi avete creato il nostro esilio, noi non abbiamo creato il vostro”. Noi Ebrei, più di altri, dovremmo capire quanto sia offensiva la richiesta di rinunciare alla propria patria e di assimilarsi in terre straniere.
I leader ebrei continuano a insistere sul fatto che, per raggiungere la pace, i Palestinesi devono dimenticare la Nakba. Ma è più corretto dire che la pace verrà quando gli Ebrei la ricorderanno. Quanto più ricorderemo perché i Palestinesi se ne sono andati, tanto meglio capiremo perché meritano di avere la possibilità di tornare.
Anche per molti Ebrei che si oppongono con forza alle politiche israeliane in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, il sostegno al ritorno dei profughi palestinesi rimane un tabù. Ma se è sbagliato considerare i Palestinesi come non cittadini ai sensi della legge militare in Cisgiordania, e se è sbagliato imporre un blocco agli abitanti di Gaza che nega loro le necessità vitali, è sicuramente sbagliato anche espellerli e impedire loro di tornare a casa. Per decenni, gli Ebrei progressisti hanno opposto a questo argomento morale uno pragmatico: i rifugiati palestinesi dovrebbero tornare solo in Cisgiordania e Gaza – indipendentemente dal fatto che questi siano i luoghi di provenienza – come parte di una soluzione a due stati che dia sia ai Palestinesi sia agli Ebrei un Paese tutto loro.
Ma ogni anno che passa, mentre Israele rafforza ulteriormente il suo controllo su tutto il territorio compreso tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, espandendo gli insediamenti, questa alternativa diventa sempre più irrealistica. Non ci sarà uno Stato palestinese sovrano e vitale in cui i rifugiati possano andare.
Ciò che resta dell’opposizione al ritorno dei profughi palestinesi è una serie di argomenti storici e legali, spacciati da leader israeliani e ebrei americani, sul perché i Palestinesi meritassero la loro espulsione e non abbiano ora il diritto di porvi rimedio. Questi argomenti sono non solo poco convincenti ma profondamente ironici, poiché chiedono ai Palestinesi di ripudiare i principi stessi della memoria intergenerazionale e della restituzione storica che gli Ebrei considerano sacri. Se i Palestinesi non hanno il diritto di tornare in patria, nemmeno gli Ebrei ce l’hanno.
Le conseguenze di questi sforzi per razionalizzare e seppellire la Nakba non sono teoriche. Sono le questioni in gioco per le strade di Sheikh Jarrah. I leader israeliani che giustificano l’espulsione dei Palestinesi oggi per fare di Gerusalemme una città ebraica stanno semplicemente parafrasando le organizzazioni ebraiche che hanno trascorso diversi decenni a giustificare l’espulsione dei Palestinesi nel 1948 al fine di creare uno stato ebraico.
Il ritorno dei profughi costituisce quindi qualcosa di più del semplice pentimento per il passato. È un prerequisito per costruire un futuro in cui Ebrei e Palestinesi godano di sicurezza e libertà nella terra che ogni popolo chiama casa.
Concentrandosi sul comportamento dei leader arabi, per giustificare la conquista, l’establishment ebraico tende a distrarre da ciò che la Nakba ha significato per la gente comune. Più si affronta il bilancio umano della Nakba, più diventa difficile razionalizzare ciò che è accaduto allora e opporsi alla giustizia per i rifugiati palestinesi ora. In circa 18 mesi, le forze sioniste cacciarono dalle proprie case oltre 700.000 individui, più della metà della popolazione araba della Palestina mandataria. Spopolarono più di 400 villaggi palestinesi e i quartieri palestinesi di molte delle città e dei paesi misti israelo-palestinesi. In ognuno di questi luoghi, i Palestinesi hanno sopportato orrori che li hanno perseguitati per il resto della loro vita.
L’entità della sottrazione è sorprendente. Quando l’ONU approvò il suo piano di partizione nel novembre 1947, gli Ebrei possedevano circa il 7% del territorio della Palestina mandataria. All’inizio degli anni ’50, quasi il 95% della terra di Israele era di proprietà dello Stato ebraico.
All’espulsione seguiva generalmente il furto. Nel giugno 1948, Ben-Gurion lamentava il “saccheggio di massa a cui partecipavano tutti i settori della comunità ebraica del paese”. Le autorità israeliane normalizzarono subito il saccheggio. Nel luglio 1948, Israele creò l’ente statale Custodian for Deserted Property, autorizzato a distribuire case, terreni e altri oggetti di valore che i fuggiaschi avevano dovuto abbandonare. I funzionari dei kibbutz “chiedevano a gran voce la terra araba”, e il governo israeliano ne affittò loro la gran parte a settembre, usando il Jewish National Fund come intermediario. Nelle aree dei villaggi palestinesi abbandonati, il JNF creò parchi nazionali.
L’entità della sottrazione è sorprendente. Quando l’ONU approvò il suo piano di partizione nel novembre 1947, gli Ebrei possedevano circa il 7% del territorio della Palestina mandataria. All’inizio degli anni ’50, quasi il 95% della terra di Israele era di proprietà dello Stato ebraico.
Dal momento che è stata necessaria l’espulsione dei Palestinesi per creare uno stato ebraico vitale, molti Ebrei temono – con buone ragioni – che rettificare quell’espulsione metterebbe a rischio lo stato ebraico stesso.
Ho sostenuto in precedenza (in Yavne: A Jewish Case for Equality in Israel, “Jewish Currents”, luglio 2020) che gli Ebrei potrebbero non solo sopravvivere, ma prosperare, in un Paese che sostituisce il privilegio ebraico con l’uguaglianza secondo la legge. Una ricchezza di dati comparativi suggerisce che i sistemi politici che danno a tutti una voce nel governo in genere si dimostrano più stabili e più benefici per tutti. Ma per molti Ebrei, nessuna quantità di dati comparativi può superare la profonda paura che, in un mondo post-Olocausto, solo uno stato controllato dagli Ebrei possa garantire la loro sopravvivenza. E, anche nelle migliori circostanze, molti troverebbero profondamente irritante il passaggio da uno stato del genere a uno che trattasse Ebrei e Palestinesi allo stesso modo. Una tale impresa richiederebbe la ridistribuzione della terra, delle risorse economiche e del potere politico e, forse altrettanto dolorosamente, una riconsiderazione dei miti amati sul passato israeliano e sionista. In questo momento storico, è impossibile sapere come possa avvenire una transizione così fondamentale, o se mai accadrà.
Per garantire che questa resa dei conti non arrivi mai, il governo israeliano e i suoi alleati ebrei americani hanno offerto una serie di argomenti legali, storici e logistici contro il ritorno dei profughi. Tutti hanno una cosa in comune: se si applicassero a un gruppo diverso dai Palestinesi, i leader ebrei probabilmente li liquiderebbero come immorali e assurdi.
Quando i rifugiati non sono Palestinesi, i leader ebrei non si limitano ad accettare questo principio, ma lo sostengono. Come è avvenuto per l’accordo di Dayton nel 1995: “Tutti i rifugiati e gli sfollati hanno il diritto di tornare liberamente alle loro case di origine” e “di veder restituite loro le proprietà di cui sono stati privati nel corso delle ostilità”. L’American Jewish Committee (AJC) non solo ha approvato l’accordo di Dayton, ma ha sollecitato che venga attuato dalle truppe statunitensi. I leader ebrei sostengono anche il diritto al ritorno e al risarcimento per gli Ebrei espulsi dalle terre arabe.
Non solo Israele e i suoi alleati insistono sul fatto che non ha alcun obbligo legale o storico di rimpatriare o risarcire i Palestinesi, essi affermano, inoltre, che ciò è impossibile. Ma questo è smentito dai fatti. Più di 50 anni dopo l’Olocausto, le organizzazioni ebraiche hanno negoziato un accordo grazie al quale le banche svizzere hanno pagato più di 1 miliardo di dollari per rimborsare gli Ebrei i cui conti avevano espropriato durante la Seconda guerra mondiale. Se gli Ebrei derubati in massa negli anni ’40 meritano riparazioni, sicuramente lo meritano anche i Palestinesi.
Lo stesso vale per quanto riguarda il ritorno a casa dei profughi palestinesi. Gli studiosi palestinesi hanno iniziato a immaginare cosa potrebbe essere necessario per assorbire i rifugiati palestinesi che vogliono tornare. Un’opzione sarebbe quella di costruire dove un tempo sorgevano gli ex villaggi palestinesi poiché circa il 70% delle terre di quelli spopolati e distrutti nel 1948 rimangono disponibili. Per i Palestinesi non interessati alla ricostituzione dei villaggi rurali distrutti, ci sarebbero altre due opzioni, entrambe somiglianti alla strategia israeliana per la colonizzazione degli immigrati sovietici negli anni ’90.
Quando gli Ebrei immaginano il ritorno dei profughi palestinesi, molto probabilmente immaginano i Palestinesi che espellono gli Ebrei dalle loro case. Alla domanda sugli Ebrei che vivevano in case precedentemente palestinesi, Edward Said, nel 2000, rispose che era “contrario all’idea che le persone lascino le proprie case” e che “una soluzione umana e moderata dovrebbe essere trovata in cui le rivendicazioni del presente e quelle del passato siano conciliate”.
Se tutto questo sembra scoraggiante, è perché lo è. In tutto il mondo, gli sforzi per affrontare e riparare i torti storici raramente sono semplici, rapidi, incontrastati o completi.
Ma per quanto complicati e imperfetti possano essere gli sforzi per la giustizia storica, vale la pena considerare cosa succede quando non si verificano. I crimini del passato, se non affrontati, non rimangono nel passato.
Questo vale anche per la Nakba. Israele non ha smesso di espellere i Palestinesi quando la sua guerra per l’indipendenza è finita. Quando conquistò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel 1967, espulse altri 400.000 palestinesi, circa un quarto dei quali viveva solo in Cisgiordania o Gaza perché era lì che le loro famiglie si erano rifugiate nel 1948. Tra il 1967 e il 1994 , Israele si è sbarazzato di altri 250.000 Palestinesi attraverso una politica che revocava le residenze dei Palestinesi di Cisgiordania e Gaza che avessero lasciato i territori per un lungo periodo di tempo. Dal 2006, secondo Badil, un’organizzazione palestinese che difende i diritti dei rifugiati, quasi 10.000 palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est hanno assistito alla demolizione delle proprie case da parte del governo israeliano. Negli anni ’50, 28 famiglie palestinesi costrette da Jaffa e Haifa nel 1948 si trasferirono nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est. Dopo una campagna decennale dei coloni ebrei, all’inizio di questo mese il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha stabilito che sei di loro dovrebbero essere sfrattate. Rifiutandosi di riconoscere la Nakba, il governo israeliano e i suoi alleati ebrei della Diaspora hanno preparato il terreno per la sua perpetuazione. E rifiutando di dimenticare la Nakba, i Palestinesi – e alcuni Ebrei israeliani dissidenti – hanno preparato il terreno per la resistenza che ora sta sconvolgendo Gerusalemme e Israele-Palestina nel suo complesso.
Per gli Ebrei, dire ai Palestinesi che la pace richiede che dimentichino la Nakba è grottesco. Noi Ebrei sappiamo che quando dici a un popolo di dimenticare il suo passato non stai proponendo la pace. Ne stai proponendo l’estinzione.
Al contrario, affrontare onestamente il passato può fornire la base per una vera riconciliazione. Quando il giurista americano di origine palestinese, George Bisharat bussò alla porta della casa che suo nonno aveva costruito e di cui era stato espropriato, per due volte gli inquilini, tra i quali un ebreo newyorkese, gli risposero che lui non aveva mai vissuto lì. Ma dopo che Bisharat scrisse di questa sua esperienza, ricevette un invito da un ex soldato che aveva vissuto per un breve periodo nella casa dopo che le forze israeliane l’avevano sequestrata nel 1948. Quando si incontrarono, l’uomo disse: “Mi dispiace, ero cieco. Quello che abbiamo fatto è stato sbagliato “.
C’è una parola ebraica per il comportamento di quell’ex soldato: teshuvah, che è generalmente tradotto come “pentimento”. Ironia della sorte, la sua definizione letterale è “ritorno”. Nella tradizione ebraica, il ritorno non deve essere fisico; può anche essere etico e spirituale. Il che significa che il ritorno dei profughi palestinesi – lungi dal rendere necessario l’esilio ebraico – potrebbe essere una sorta di ritorno anche per noi, un ritorno alle tradizioni di memoria e giustizia che la Nakba ha cacciato dalla vita ebraica organizzata. “L’occupante e io – entrambi soffriamo per l’esilio”, dichiarò una volta Mahmoud Darwish. “È un esule in me e io sono la vittima del suo esilio”. Quanto più a lungo la Nakba continuerà, tanto più profondo diventerà l’ esilio morale ebraico. Affrontandola direttamente e avviando un processo di riparazione, Ebrei e Palestinesi, in modi diversi, potranno iniziare a tornare a casa.
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