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I mondi del lavoro nella pan-sindemia

Illustrazione di Fabian Negrin
3 Agosto 2021
Valeria Piro

Come parlare di lavoro e delle sue trasformazioni a seguito della pan-sindemia da Covid 19? Varie possono essere le analisi che tentano di individuare le tendenze generali, mettere in fila i dati, rintracciare le questioni politicamente centrali del cosiddetto “mondo” del lavoro. Permettetemi, invece, di usare un’altra strategia narrativa: partire da alcune storie e da alcuni contesti lavorativi per entrare nel merito delle dinamiche che riguardano alcuni specifici “mondi” del lavoro. Per descrivere le recenti trasformazioni ho immaginato, infatti, due storie idealtipiche che possono servire per dare una fotografia delle situazioni lavorative che tante e tanti di noi si trovano o si sono trovati ad esperire. Non si tratta di storie vere, ma di racconti verosimili poiché gli elementi che li compongono sono tratti da ricerche realizzate negli ultimi anni con diversi colleghe e colleghi, attraverso la raccolta di interviste, storie di vita, osservazioni negli stabilimenti, negli uffici, e nelle sedi sindacali prevalentemente nel Nord Italia. Attraverso questa strategia narrativa si corre forse il pericolo di riprodurre dei ‘personaggi’ (anziché delle persone), di ricadere in alcuni luoghi comuni e stereotipi e di non riuscire a fornire un quadro generale, utile ad ipotizzare strategie di intervento. Tuttavia, a rischio di sembrare banali e riduttivi, per parlare di lavoro non si può prescindere, a mio avviso, dal racconto dalle routine e delle esperienze concrete di lavoratori e lavoratrici italiane/i e migranti.

La prima persona che incontriamo è Samuel, un uomo di origine ghanese, che ha circa 60 anni e vive e lavora da più di 30 anni in provincia di Modena. Samuel svolge in Italia diversi lavori, formali e informali. Quando arriva a Modena, un suo amico lo mette a conoscenza del fatto che per trovare lavoro in questa zona deve rivolgersi a una cooperativa. A differenza dei giovani italiani che portano i loro CV alle agenzie interinali, Samuel si accorge che per gli stranieri, come dicono in molti, “c’è solo la cooperativa”. Attraverso un suo amico ghanese viene assunto nel distretto modenese delle carni, in uno stabilimento dove vengono macellati bovini (circa 1.600 al giorno, che significa circa 200 l’ora) e prodotti hamburger per noti fast food. Nello stabilimento lavorano circa 1000 dipendenti, 600 persone in produzione, di cui 400 assunti attraverso cooperativa. Samuel, in particolare, trova lavoro in un reparto che si chiama tripperia, e la sua mansione è quella di svuotare lo stomaco degli animali dalle feci, pulendo una trippa ogni 3-4 minuti. Il capo della cooperativa è un libanese che si fa chiamare Michael, presidente di una cooperativa che si chiama Fantasia. Michael assume Samuel con un contratto da facchino a 7 euro l’ora. Nonostante il compenso orario sia basso, Samuel è molto contento, perché lavora parecchie ore al giorno e grazie agli straordinari riesce a portare a casa una busta paga di 2.000-2.500 euro al mese, paga l’affitto e manda una parte dei suoi guadagni in Ghana. Per farlo, però, lavora su doppi turni (mattina e pomeriggio, oppure pomeriggio e notte). Lui conta circa 300/320 ore di lavoro al mese anche se, secondo il suo contratto da facchino, dovrebbe lavorare massimo 168 ore. Quasi metà dello stipendio gli viene pagata a mano, in nero, oppure in busta paga, attraverso una voce esentasse, che si chiama “Trasferta Italia”. Se ha la sfortuna di ammalarsi, deve comunque andare al lavoro perché la cooperativa non paga la malattia. Se l’azienda subisce dei cali produttivi, Samuel viene lasciato a casa senza essere pagato. In buona sostanza, Samuel e i suoi colleghi ogni sera ricevono un messaggio che li informa su quante ore (e se) lavoreranno il giorno successivo.

Le cose iniziano a farsi ancor più difficili quando Samuel non riceve più lo stipendio per alcuni mesi. Michael scompare per qualche tempo dall’azienda, per poi tornare e far firmare ai facchini un nuovo contratto. Adesso la cooperativa si chiama “Nuova fantasia”, ma niente sembra cambiato, né lo stipendio, né le 300 ore di lavoro. Anche se la “Nuova fantasia” è intestata a un signore tunisino (“un prestanome”, lo chiamano), è sempre Michael che si occupa di reclutare personale e di organizzare il lavoro. A seguito del formale cambio di appalto, Samuel non riceve il tfr, ma questo non gli sembra molto problematico. Il vero problema si presenta, invece, con una lettera dell’agenzia delle entrate che chiede a Samuel di pagare circa 5.600 euro di multa perché ha ricevuto diversi compensi attraverso la voce “Trasferta Italia”, pur non essendo mai stato effettivamente in trasferta. Samuel chiede delucidazioni a Michael, ma, dal momento che la cooperativa “Fantasia” non esiste più, Michael non risulta più legalmente responsabile di quella frode, lasciando a Samuel l’onere di pagare la multa. È allora che Samuel decide di rivolgersi ad un sindacato. Quando deve scegliere il sindacato da frequentare, Samuel non ha dubbi: i suoi compagni di squadra gli spiegano che ci sono diverse organizzazioni: quelle “per gli italiani”, che si occupano poco dei lavoratori in cooperativa, e poi i sindacati “dei migranti” – marocchini, tunisini, ghanesi, srilankesi, qualche albanese… qualsiasi nazionalità, ma tutti lavoratori di cooperativa e tutte persone migranti. Attraverso il sindacato Samuel scopre che diverse voci nella sua busta paga sono di fatto irregolari. Scopre che gli operai diretti, quasi tutti italiani, sono assunti con un contratto da “industria alimentare”, con un salario di 12-14 euro l’ora a seconda della loro mansione professionale, ricevono una “indennità freddo”, hanno tredicesima e quattordicesima e se si ammalano o si infortunano (cosa molto frequente, poiché si lavora in ambienti freddi e umidi, in velocità e maneggiando coltelli) possono prendersi un giorno di malattia pagata o ricevere un indennizzo.

Questo è avvenuto per quasi 30 anni, a partire dalla metà degli anni ’90, ed avviene tutt’ora con piccoli aggiustamenti, che abbiamo provato a raccontare anche su questa rivista, nel numero di marzo 2021, descrivendo un sistema di lavoro in appalto che interessa numerosi settori, dalla macellazione alle pulizie, dalla logistica all’industria manifatturiera. Nel solo distretto modenese delle carni si stima che siano oltre 5mila i lavoratori in cooperativa, tutti migranti. Più in generale, si stima che siano circa 1,3 milioni i lavoratori delle cooperative in Italia.

Con l’arrivo del Covid, Samuel vorrebbe poter rimanere a casa, ma essendo un “lavoratore essenziale” è costretto ad andare al lavoro. Teme molto per la sua salute, perché in reparto si lavora vicini, e ovviamente, in un primo momento, a marzo-aprile 2020, senza dispositivi di sicurezza. Nessuno lo osanna però come avviene per i medici ed altre figure: Samuel è soltanto un “facchino della logistica”. Continua a frequentare il sindacato, che negli ultimi mesi ha intensificato le sue azioni dimostrative, i picchetti e gli scioperi, perché le condizioni di lavoro con il Covid peggiorano, dato che a quanto già raccontato si aggiunge un rischio serio per la salute. Durante e dopo il Covid, le azioni aumentano anche in solidarietà con altri lavoratori, sempre facchini, che lavorano nella logistica (sia per cooperative in appalto alle multinazionali del commercio online, sia nei magazzini, ad esempio quelli della grande distribuzione). Negli ultimi mesi, durante i picchetti, non si incontrano davanti ai cancelli solo la Digos e la celere in antisommossa che difende l’azienda, ma anche delle “squadracce” di picchiatori, pagate dell’azienda ma che la polizia lascia agire indisturbate, che con bancali e mattoni si accaniscono contro i manifestanti. Questo perché le misure prese finora – denunce per violenza privata, sanzioni amministrative pesantissime, rischio di perdita del permesso di soggiorno a seguito del decreto Salvini – non hanno comunque fermato le proteste. Il livello di violenza è così alto che qualcuno dice “qui ci scappa il morto”. E in effetti il morto ci scappa: si chiama Adil Belakhdim, ha 37 anni ed è il coordinatore del Si-Cobas di Novara, che viene brutalmente assassinato il 18 giugno 2021 da un camion davanti al magazzino della Lidl di Biandrate di fronte al quale stava facendo un picchetto.

Lasciamo il modenese e spostiamoci in Veneto, dove incontriamo Monica, che ha 45 anni, due figli e un compagno, e che da circa 20 anni lavora per una grande compagnia di assicurazioni, per 10 anni come consulente esterna adesso assunta direttamente. Un contesto meno distante dal lavoro che immagino facciano tanti lettori e lettrici di questa rivista; ed è forse più semplice, quindi, immedesimarsi nelle routine quotidiane di Monica che nell’ultimo anno sono drasticamente cambiate. Monica è una dei tanti lavoratori e lavoratrici che per diversi mesi ha lavorato prevalentemente da casa. L’Istat stima che nell’anno della pandemia si è passati da poche decine di migliaia a oltre 4 milioni di lavoratori da remoto (considerando sia autonomi sia dipendenti). Quello di cui tanti lavoratori hanno fatto esperienza è spesso una forma di telelavoro (e non, come erroneamente si sostiene, di smart working) ossia un trasferimento della prestazione lavorativa da remoto, secondo orari e modalità solitamente stabiliti dall’azienda.

La gestione del lavoro e della vita familiare diventa per Monica un inferno durante il lockdown: il suo compagno lavora in camera da letto, mentre lei lavora in sala, così, mentre risponde alle mail, riesce a dare una mano ai suoi figli durante la didattica a distanza e occuparsi dei pasti. Nelle pause – poche – stende la lavatrice. Durante la pausa pranzo, lavora comunque davanti al PC, che tiene sempre accesso e collegato alla VPN aziendale per evitare ramanzine da parte del suo responsabile. La sera non stacca prima delle 18, a volte capita di rispondere al telefono anche dopo le 20, e spesso di lavorare nei weekend. Però, dal momento che il suo lavoro la appassiona, dice, è lei stessa a “scegliere” di lavorare. Di fatto, se non risponde al telefono o alle mail è assalita da un gran senso di colpa, anche perché i suoi colleghi sono solitamente connessi e il lavoro le sembra costantemente in aumento.

Nell’ultimo anno, per numerose/i lavoratrici e lavoratori (e su questo dato troviamo grande unanimità nelle ricerche in corso) il lavoro si è esteso, penetrando nelle case, negli spazi domestici, ancora di più nella vita delle persone e, come un gas, ha preso possesso di tutto lo spazio disponibile. I carichi di cura sulle famiglie sono aumentati, a causa della chiusura delle scuole, della difficoltà di fare affidamento su reti parentali e amicali e soprattutto dei pochi bonus messi a disposizione dallo stato. E il carico di lavoro di cura non retribuito, come sappiamo, è distribuito in maniera diseguale per genere all’interno delle coppie, il che ha portato a un aumento di lavoro soprattutto per le donne.

Monica vorrebbe continuare l’esperienza del lavoro da remoto dopo la pandemia? Probabilmente no, perché le manca il suo spazio, uno spazio in cui non è mamma e compagna, ma ha un suo tempo – seppur non sia completamente un ‘tempo per sé’. Non tutte le sue colleghe e i suoi colleghi, però, concordano sulla volontà di ritornare a lavorare in presenza. Si concorda invece sul fatto che il lavoro da remoto è arrivato per restare, magari almeno per qualche giorno a settimana. E questo apre nuove prospettive di regolazione e contrattazione sindacale.

Una novità nella vita di Monica, in effetti, è proprio il sindacato: non vi si era mai rivolta, ma adesso, per capire se le spettano ancora i buoni pasto, se ha diritto ad un bonus per il riscaldamento della casa e allo straordinario pagato, le sembra importante avvicinarsi alle organizzazioni sindacali. In più, le assemblee al momento si svolgono online, il che significa che per partecipare Monica non deve alzarsi dalla scrivania, con il suo capo ufficio a fianco, e per questo motivo si sente molto più libera di frequentare tali spazi, seppur virtuali. In diversi contesti lavorativi (ad esempio nel settore informatico), negli ultimi mesi, si è assistito ad un aumento della partecipazione sindacale che è cresciuta da poche decine a centinaia di persone nelle assemblee all’interno dei luoghi di lavoro.

A partire da queste due storie, cosa possiamo dire rispetto alle trasformazioni del lavoro a seguito della pan-sindemia? In primo luogo, negli ultimi mesi si è acuita una tendenza già in atto: una polarizzazione tra chi ha potuto lavorare da casa, proteggendo sé stesso e i propri cari dal virus (attorno ad un 30% della forza lavoro); e chi invece non ha potuto permettersi di farlo. La composizione di questo 70%, ossia di persone che lavorano nei servizi essenziali – sanità, logistica, pulizie, servizi alla persona, industria alimentare, agricoltura, costruzioni – vede un’ampia presenza di lavoratori e lavoratrici migranti. Questi ultimi, che nei mesi di pan-sindemia hanno visto intensificato il proprio lavoro, sono quindi tra coloro che hanno corso maggiori rischi di contrarre il virus.

In secondo luogo, nei diversi contesti lavorativi, anche a seguito di una maggiore digitalizzazione, il lavoro si è ulteriormente esteso, è penetrato nelle case e nella sfera domestica (anche questa una tendenza di lungo corso). L’intensificazione del lavoro, dunque, non è una questione che ha riguardato solo i lavoratori essenziali, ma più in generale tutta la forza lavoro.

In terzo luogo, in alcuni settori (soprattutto quelli che sono stati repentinamente interessati dal lavoro da remoto), si è assistito ad un maggiore avvicinamento di alcuni lavoratori e lavoratrici ai sindacati, inclusi quelli confederali.

Infine, è aumentato il conflitto sociale, così come è aumentato il livello di violenza padronale e di stato contro i lavoratori e le lavoratrici. L’omicidio di Adil è l’esempio più chiaro e scioccante, perché la perdita di una vita è senza dubbio sconvolgente. Ma l’attacco alla dignità e alle condizioni di lavoro è in corso da decenni in Italia. Con buona pace dei sindacati confederali che su alcuni settori non solo hanno fallito e perso presa, ma si sono posti in aperto contrasto con i sindacati di base, scendendo a patti anche con le aziende, se è necessario, pur di frenare quest’aumento di conflittualità, considerato come una minaccia all’ordine pubblico e non come una presa di coraggio (non solo di parola) di lavoratori e lavoratrici.


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