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I futuri incerti dei rifugiati eritrei in Etiopia

Foto di Marco Gualazzini
29 Aprile 2021
Aurora Massa

Nel febbraio del 2021, l’Arra (l’agenzia governativa che in Etiopia si occupa dell’accoglienza dei rifugiati) ha annunciato la chiusura dei due campi di Shimelba e Hitsats, collocati nella regione del Tigray, in cui vivevano migliaia di rifugiati eritrei. Tale chiusura è una delle numerose conseguenze del conflitto esploso il 4 novembre del 2020 tra il governo federale di Addis Ababa e la leadership regionale tigrina del Tigray people’s liberation front (Tplf) che per quasi trent’anni ha tenuto le redini del Paese. Benché mentre scrivo il Tigray sia ancora in gran parte isolato, l’impatto devastante del conflitto sulla popolazione civile, inclusi i rifugiati eritrei accolti nella regione, è confermato dai media locali e internazionali, dagli organismi umanitari e non governativi, oltre che da numerose testimonianze dirette e indirette. 

Firmataria delle principali convenzioni internazionali sul diritto di asilo, nonché partner europeo nelle politiche di contenimento della migrazione, l’Etiopia è uno dei Paesi africani che ospita il più alto numero di rifugiati – la stima, al 2019, era superiore ai novecentomila –, provenienti principalmente da nazioni limitrofe come la Somalia, il Sud Sudan e l’Eritrea. Prima del novembre 2020, i rifugiati eritrei registrati in Etiopia erano poco meno di duecentomila, la metà dei quali risiedevano in quattro campi aperti in successione in Tigray tra il 2004 e il 2013 per offrire alloggi e assistenza alle centinaia di migliaia di persone che negli anni Duemila sono fuggite dal servizio nazionale illimitato e dalla deriva repressiva del governo di Asmara. 

Tra il 2013 e il 2014 ho trascorso circa un anno a stretto contatto con i rifugiati eritrei che, grazie a speciali permessi del governo, erano stati autorizzati a uscire dai campi e a trasferirsi nella città di Mekelle, capoluogo della regione del Tigray, per ragioni di studio o di ricongiungimento famigliare. Ero in Etiopia per svolgere la ricerca etnografica alla base del mio dottorato in antropologia e condividere con i rifugiati la vita quotidiana e i racconti sul passato, i desideri e le paure, le frustrazioni e le aspirazioni, gli immaginari sull’Altrove e sul futuro è stata la mia principale occupazione. Grazie ai social media ho inoltre mantenuto stretti contatti con molte delle persone che hanno preso parte al mio lavoro, benché molti di loro si trovino ora in Europa, nel Nord America o nella penisola arabica.

La maggior parte dei rifugiati che ho incontrato a Mekelle erano “giovani” uomini e, in misura minore, “giovani” donne alla ricerca di un futuro migliore. Ho scritto giovani tra virgolette per chiarire che con gioventù non intendo un periodo della vita definito sulla base di criteri anagrafici, ma una congiuntura biografica socialmente, relazionalmente e politicamente definita. A causa del servizio nazionale obbligatorio in Eritrea, infatti, molti di loro non erano riusciti a raggiungere quelle tappe (tra cui sposarsi, fare figli, diventare economicamente autonomi e in grado di supportare la propria famiglia) che localmente stabiliscono il passaggio all’età adulta. Il loro sentirsi “bloccati nell’adolescenza” si riproduceva anche in Etiopia dove l’obbligo di risiedere nei campi e il divieto di lavorare impedivano qualsiasi forma di inserimento sociale e di autonomia. Come mi ha spiegato Robel, un rifugiato di 34 anni che aveva trascorso quattro anni nel campo di Mai Aini e che, nel periodo in cui risiedevo a Mekelle, studiava giornalismo all’università, “l’aspetto peggiore del vivere nei campi è diventare vecchi senza fare nulla”. 

La dimensione temporale costituiva un aspetto cruciale della quotidianità e delle esperienze dei rifugiati in Etiopia, nei campi come in città. Spesso impegnati a occupare il tempo sottraendolo al vuoto dell’inattività, molti di loro consideravano le attività svolte in Etiopia (inclusa l’istruzione universitaria) come non funzionali a quella ricerca di una vita e di un futuro migliori che muoveva la loro migrazione. Nelle loro parole, una “buona vita” coincideva non solo con il benessere materiale rispetto alle ristrettezze vissute nei campi, ma soprattutto con la possibilità di divenire e essere riconosciuti come adulti, di aiutare le proprie famiglie rimaste in Eritrea, di godere di maggiori libertà e di un più solido senso di sicurezza. Questa condizione di immobilità sociale ed esistenziale alimentava la sensazione di essere “fuori sincrono” rispetto alle proprie aspettative, ma anche “fuori posto”, accrescendo il desiderio di raggiungere luoghi che ritenevano “migliori”, ossia in cui si aspettavano di poter realizzare le proprie speranze per il futuro. Di conseguenza, a causa della carenza di canali di mobilità regolare, la migrazione verso l’Europa lungo canali irregolari è stata un’opzione scelta da molti, nonostante la consapevolezza dei rischi.

“l’aspetto peggiore del vivere nei campi è diventare vecchi senza fare nulla”

In quel periodo, inoltre, le conseguenze della guerra del 1998-2000 tra Etiopia e Eritrea si traducevano in una condizione di no war no peace tra i due Paesi che si incarnava nei vissuti dei giovani eritrei nella sensazione di essere rifugiati in un contesto in cui erano, al contempo, nemici, modellando sentimenti di insicurezza e instillando il timore di vedere il proprio status revocato. Tra i giovani che ho conosciuto a Mekelle, la condizione ossimorica di essere rifugiati e nemici si concretizzava spesso in pratiche di nascondimento volte a occultare il proprio status e la propria origine, pratiche che paradossalmente erano rese possibili dalle “somiglianze” tra la popolazione locale e i rifugiati. Benché Etiopia ed Eritrea siano contesti plurali caratterizzati dalla compresenza di lingue, religioni e gruppi etnici, gli altipiani del Tigray e dell’Eritrea sono abitati in prevalenza da persone di religione cristiano-ortodossa che parlano la stessa lingua (il tigrino) e condividono l’organizzazione politica, il sistema di gestione delle terre, le strutture parentali e altre configurazioni sociali. Esse sono legate da un passato comune, da una fitta trama di relazioni famigliari, ma anche da una lunga storia di conflitti in cui la guerra del 1998-2000 costituisce la punta di un iceberg. Limitando il nostro sguardo al periodo postcoloniale, l’Etiopia è infatti “l’altro” rispetto al quale il nazionalismo eritreo si è modellato e lo storico oppressore contro cui la trentennale guerra di indipendenza eritrea è stata combattuta.  

La complessità dei rapporti tra Eritrea e Tigray e tra Tigray ed Etiopia prendeva forma, nelle parole e nelle relazioni sociali dei rifugiati che ho incontrato, nell’alternanza tra le retoriche della fratellanza e dell’inimicizia, della somiglianza e delle differenze costruite su diversità spesso minute eppure percepite come incolmabili. In questa cornice, c’era chi come Kiflu, un giovane di ventisei anni oggi rifugiato in Canada, pur vivendo a casa di suo padre, cittadino etiopico, e avendo trovato un buon lavoro, stava molto attento a non rivelare a nessuno di essere un rifugiato eritreo e si affannava alla ricerca di un’occasione per migrare dove la sua nazionalità non avrebbe rischiato di creare problemi a lui e alla sua famiglia.  

L’accordo di pace del 2018 tra il primo ministro etiope Abiy Ahmed e il presidente dell’Eritrea Isayas Afewerki ha di certo rimodellato questo quadro, ma solo in parte. La temporanea apertura delle frontiere, che sono state per vent’anni chiuse e presidiate militarmente, ha provocato un incremento del flusso di eritrei in fuga dalla dittatura, grazie alla possibilità di uscire dal Paese senza costi né rischi. In questo frangente, molte donne e bambini hanno lasciato il Paese con la speranza di potersi ricongiungere con mariti e padri residenti in Etiopia, in Europa e in Nord America. Altrettanti sono stati i giovani che hanno fatto richiesta di asilo o che, almeno inizialmente, hanno deciso di non registrarsi all’Arra, per paura che il processo di pace si traducesse in un programma di rimpatri e deportazioni. Se la condizione di nemici aveva posto sino a quel momento i rifugiati eritrei in una posizione scomoda rispetto al governo etiope, la pace non ne ha migliorato la condizione. Al contrario, li ha resi vulnerabili alle possibili ingerenze del governo di Asmara dal quale sono fuggiti. Inoltre, benché tra il 2019 e il 2020 le politiche di accoglienza dei rifugiati siano divenute più inclusive, grazie all’adesione dell’Etiopia alla New York Declaration for refugees and migrants adottata dall’Unhcr nel 2016 e volta a favorire l’autosufficienza dei rifugiati e il loro inserimento nel tessuto sociale, l’implementazione di queste misure procede a rilento e nulla ancora è concretamente cambiato nelle possibilità per il futuro che i rifugiati possono intravedere in Etiopia. Oltretutto, i ripetuti annunci di chiusura del campo di Hitsats e la sospensione del riconoscimento dello status di rifugiato attraverso il meccanismo di prima facie (che rendeva l’ottenimento del diritto di asilo immediato) hanno contribuito a mantenere alto il senso di insicurezza.

L’accordo di pace del 2018 tra il primo ministro etiope Abiy Ahmed e il presidente dell’Eritrea Isayas Afewerki ha di certo rimodellato questo quadro, ma solo in parte.

Queste paure si sono concretizzate negli ultimi cinque mesi, durante il conflitto che si è aperto in Tigray e che è ancora in corso. I rifugiati e gli spazi da loro abitati sono stati investiti non solo dai diffusi combattimenti e dalla sospensione degli aiuti umanitari per lunghe settimane (mettendo gli abitanti dei campi in una situazione di particolare fragilità), ma anche da attacchi e violenze mirate. Benché la partecipazione dell’esercito eritreo ai disordini in Tigray sia stata smentita da entrambi i governi, la distruzione dei campi di Shimelba e Hitsats che ha portato alla loro chiusura è da più parti attribuita proprio ai soldati di Asmara, accusati peraltro di aver perpetrato saccheggi e uccisioni in diverse zone della regione. Molti dei rifugiati in precedenza accolti in quei due campi hanno cercato riparo negli altri due campi, nelle città vicine o in Sudan, mentre chi è scappato in città al di fuori del Tigray, quali Addis Ababa, Gondar e Bahir Dar, è stato forzosamente riportato indietro. Di alcuni invece si è persa traccia, alimentando il timore che vi siano stati dei rimpatri forzati in Eritrea, come lo stesso portavoce dell’UNHCR ha più volte paventato in questi mesi. Contemporaneamente, la penetrazione dei servizi segreti eritrei nel tessuto politico etiope e per le strade di Addis Ababa e delle altre città è diventata massiccia, ampliando ben oltre i confini regionali del Tigray la percezione di insicurezza e paura vissuta dai rifugiati.

Quelle incertezze per il futuro che negli anni della mia ricerca costituivano un elemento centrale della vita quotidiana dei rifugiati eritrei sono divenute più profonde. In uno scenario in cui il percorso di pacificazione, il futuro politico del Tigray, la ridefinizione dei rapporti tra i governi di Asmara e di Addis Ababa e la rimodulazione dei flussi migratori nella regione sono difficili da prefigurare, il futuro dei giovani rifugiati eritrei in Etiopia appare dunque ancor più nebuloso.


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