I filantrocapitalisti e le ferite alla democrazia

Incontro con Gli Asini
Nicoletta Dentico si occupa di Health Justice per la Society for International Development. L’abbiamo incontrata per discutere con lei delle questioni poste dal suo recente libro Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (EMI, 2020).
Una ferita alla giustizia sociale
Le storie dei filantropi che ho approfondito – da Ted Turner a Bill e Melinda Gates, dai Clinton ai “nuovi arrivati” Zuckerberg e Bezos – sono molto diverse l’una dall’altra, ma hanno dei tratti comuni. Il primo di questi tratti è la ferita che essi portano alla giustizia sociale. I filantropi sono nella maggior parte dei casi imprenditori di successo che hanno costruito le loro gigantesche corporation su due presupposti. Il primo è un monopolio brevettuale: Gates, Bezos, Zuckerberg sono riusciti a mettere in piedi una potenza di fuoco commerciale in virtù di regole, stabilite dai governi in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), che permettono alla produzione di conoscenza di essere privatizzata e all’innovazione di essere costruita intorno a monopoli – e quindi ad abusi di posizione dominante – che durano vent’anni. Il secondo presupposto è che, grazie anche a questo abuso, essi possono permettersi tutta una gamma di strategie fiscali per pagare meno tasse possibile. Va rilevato che in genere i governi negli ultimi decenni hanno varato politiche fiscali che avvantaggiano le grandi multinazionali, riducendo la percentuale di tassazione a cui sono sottoposte, al prezzo di crescenti disuguaglianze sociali. A questo scenario occorre aggiungere che i grandi tycoon adottano ulteriori strategie di elusione o evasione fiscale; ad esempio, mettere i loro brevetti come asset intangibili nei paradisi fiscali oppure, appunto, creare fondazioni. Per la legislazione degli Stati Uniti, chi fa filantropia gode di agevolazioni enormi, e fare donazioni è tanto più premiante quanto più ricco sei (mentre le piccole associazioni con piccoli donatori non sono riconosciute). Quindi, chi ha una grande fondazione come quella di Gates o Zuckerberg, si ritrova con almeno un terzo dei proventi totalmente defiscalizzati. Se pensiamo che la Fondazione Gates è partita con un gruzzolo di 15,5 miliardi di dollari nel 2000 e che la Microsoft e la Fondazione Gates hanno avuto per oltre quindici anni vite parallele (soltanto a marzo 2020 Bill Gates è uscito definitivamente da Microsoft), vediamo che privato profit e privato no profit interagiscono in maniera complementare, con grandi benefici sui due fronti. Evitare il pagamento delle tasse è una delle cifre portanti di queste grandi operazioni di filantropia del tempo della globalizzazione, e anche una delle strategie più efficaci. Un esempio piuttosto diverso è quello della Fondazione Clinton: in questo caso non abbiamo a che fare con monopoli o brevetti, ma con la ideazione di uno schema di affari e influenza collegato a una famiglia sui generis come quella dei Clinton, e più chiaramente all’agenda politica di Hillary Clinton. La filantropia è stata la carta vincente dell’arricchimento finanziario della famiglia Clinton. Tramite la loro fondazione, Bill e Hillary hanno creato un vero e proprio “sistema di scambio” tra donazioni e affari, per cui i grossi finanziatori, alcuni privi di scrupoli, si agganciavano alla agenda umanitaria e alla reputazione mondiale dei Clinton per entrare con loro in paesi ad alto potenziale di investimento, spesso in un evidente conflitto di interessi talora in contrasto con la politica della amministrazione americana, di cui Hillary era segretaria di stato. Il gioco ambiguo tra sfera economica e sfera politica è stato gestito dai Clinton con tale nonchalance che neanche il presidente Obama è riuscito a far valere il rispetto di clausole di trasparenza imposte alla Fondazione ad inizio di mandato nel 2008.
L’esito dell’assetto istituzionale previsto per le fondazioni statunitensi – un modello, peraltro, a cui si ispirano tutte le legislazioni dei paesi occidentali, tranne la Svezia – è un dispositivo fiscale con cui i “benefattori” con enormi ricchezze sottraggono risorse alla fiscalità generale. In altre parole, sono i cittadini a sovvenzionare la loro filantropia, senza aver neppure voce in capitolo su come usare queste ricchezze per beneficenza. E oltre la narrazione sulla loro generosità, vale la pena chiedersi come mai questi filantropi, pur “donando” una grande percentuale delle loro ricchezze, continuano ad arricchirsi. Per anni Gates e Bezos si sono contesi la posizione di uomo più ricco del mondo. E nel 2006 Warren Buffett, allora il secondo uomo più ricco del mondo, regalò alla Fondazione Gates oltre 30 miliardi di dollari, prendendo in mano di fatto la gestione di una articolata strategia di investimenti finanziari del trust della Fondazione, i cui enormi proventi vengono usati per le erogazioni della Fondazione a finanziamento dei progetti. Il paradosso è che la Fondazione Gates, malgrado un profilo altissimo nel campo della salute, annovera tra i suoi maggiori investimenti operazioni finanziarie in corporations dannose alla salute, come Coca Cola, Wal-Mart o le case farmaceutiche protagoniste di politiche commerciali inique.
Le ferite alla democrazia
I filantropi, potendo mettere in campo enormi disponibilità finanziarie, hanno con le loro donazioni stravolto i processi di decisione democratica in molti campi: educazione, salute, agricoltura.
La Fondazione Gates e a seguire quelle di Bezos e Zuckerberg, ad esempio, hanno un’agenda molto chiara sulla scuola negli Stati Uniti: stravolgere quello che resta della scuola pubblica in nome della digitalizzazione. In maniera ancora più importante, le fondazioni filantropiche hanno penetrato e occupato le organizzazioni internazionali. Le agenzie delle Nazioni Unite in primis, forse la parte più debole della governance globale, ma ancora oggi l’espressione di una democrazia su scala internazionale possibile, comunque l’unica che abbiamo rispetto a Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Omc. In queste istituzioni, il filantrocapitalismo sta operando la sua grande trasformazione. La Fondazione Gates ad esempio – oggi realtà di riferimento per chi faccia ricerca scientifica e cooperazione sanitaria – ha portato dentro l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) i valori e le prassi del mondo corporate, anche per definire le priorità di intervento. La Fondazione Gates non ha mai sostenuto – anzi, ha per molto tempo contrastato in maniera palese – il rafforzamento di sistemi sanitari nazionali pubblici e universalistici – questo sì, sarebbe sostenere la democrazia! – perché nella logica di mercato questo approccio non risulta sufficientemente pagante. L’investimento in un sistema sanitario non dà un ritorno immediato, risulta inafferrabile e di lungo periodo, mentre la logica di Gates è quella di fare interventi quantitativamente misurabili secondo indici di performance stabiliti, da riportare in un report alla fine dell’anno. La Fondazione Gates ha operato una azione trasformativa sull’agenda della salute, imponendo programmi verticali su singole patologie, con soluzioni tecniche che rispondevano alla definizione di uno specifico problema, e creando entità ibride, pubblico-private, per intervenire su quello specifico problema. I temi della salute pubblica sono stati depoliticizzati: non prendo più in considerazione i determinanti della malattia (sociali, ambientali, legali, ecc.), non mi chiedo più perché quel bambino muore di malaria; intervengo invece sul problema con soluzioni ad hoc, generalmente farmaceutiche.
Un vulnus grave alla democrazia è poi rappresentato dall’apparato di organizzazioni pubblico-private degli ultimi vent’anni. Queste partnership pubblico-private fanno concorrenza alle istituzioni pubbliche ma sono entità di diritto privato, che stipulano appunto contratti di natura privatistica inaccessibili per legge, protetti dal segreto. Sono state create perlopiù in risposta alla burocrazia istituzionale e alla percepita lentezza dei processi democratici, anche dentro l’Onu. Immaginate il contrasto: da un lato l’Oms, che ha 194 stati membri, dove ogni stato conta un voto e può prendere la parola in una discussione politica su malaria o aids, ad esempio; dall’altro lato un’entità pubblico-privata formata da 4-5 stati, con 4-5 aziende e due organizzazioni non governative che trattano un singolo problema, e solo quello. È ovvio che l’Oms ha dinamiche più lente rispetto all’entità piccola e focalizzata, ma la democrazia perde. La mia ipotesi è che le fondazioni filantropiche abbiano creato ad arte questa tensione. Sono convinta che siano loro i broker del passaggio su scala globale, non solo nel campo sanitario, dagli assetti istituzionali democratici intergovernativi in cui erano gli stati a decidere le politiche, verso una fase di multilateralismo di mercato e poi oggi di “multistakeholderismo”, la vera cifra della governance internazionale. I filantropi sono i tessitori della transizione laddove la politica internazionale era più debole, alle Nazioni Unite. Le agenzie dell’Onu, già sottofinanziate, non hanno avuto scelta. La filantropia si è portata dentro la compagine Onu i principali attori della globalizzazione, le grandi multinazionali, a cui l’Onu nel giro di poco tempo ha aperto le braccia, facendole entrare nelle dinamiche di governance. Per questa torsione così repentina noi oggi assistiamo a panel intergovernativi in cui aziende come Nestlé o Mars parlano del cibo. In questo rafforzamento ideologico del “multistakeholderismo” assistiamo alla creazione di una commissione sulla digitalizzazione a capo della quale il Segretario Generale dell’Onu inserisce la Fondazione Gates e la Fondazione Ali Baba.
La Fondazione Gates in vent’anni è riuscita a penetrare nel profondo l’Oms, di cui è il secondo finanziatore in assoluto (sia direttamente, sia attraverso partnership pubblico-privato). Si tratta di una presenza invasiva che esercita la propria egemonia anche attraverso la collocazione di personale – la attuale responsabile della comunicazione dell’Oms era in precedenza addetta alle relazioni internazionali della Fondazione Gates – o attraverso la strategia dei “consulenti esterni” – McKinsey e non solo – che vengono assunti con “non remuneration contracts”, che cioè lavorano per l’Oms ma sono pagati direttamente dalla Fondazione Gates. L’Oms, l’unica istituzione pubblica internazionale con il mandato del diritto alla salute per tutti nel mondo, finisce così per essere completamente infiltrata da interessi che confliggono con l’interesse pubblico. Finanziata spesso dalle fondazioni o dalle case farmaceutiche, anche alcune espressioni della cosiddetta “società civile” rischiano ormai di essere strumento nelle mani di interessi privati.
Intanto, negli ultimi anni, Bill Gates punta in un certo senso a superare la politica delle donazioni al terzo settore per orientare gli investimenti verso una rete di aziende strategiche all’agenda della Fondazione: le aziende farmaceutiche, così come colossi come Syngenta e Monsanto per l’agenda di Gates sull’agricoltura.
Il ruolo della Fondazione Gates nella crisi sanitaria da Covid-19
A Bill Gates va riconosciuto il merito di essere arrivato preparato più di ogni altro alla pandemia del Covid-19. Che gli scienziati aspettassero il “big one”, un virus pandemico a livello globale, era noto da tempo, quantomeno grazie al libro Spillover di David Quammen, del 2012. Quella di Gates non è quindi stata una profezia. Grazie ai suoi rapporti con la comunità scientifica, soprattutto quella che si occupa di malattie infettive, che è in buona parte finanziata dalla sua Fondazione, egli ha preso molto sul serio lo scenario preconizzato anche a Seattle nel 2015. Ha mandato parecchi segnali di allerta su questa minaccia alla comunità internazionale, scrivendo articoli, facendo interventi. In pochi lo hanno ascoltato. Ma lui si è organizzato, almeno dal 2015, con una rete di investimenti nel campo della tecnologia mRna per i vaccini, piccole case farmaceutiche allora sconosciute come BioTech e Curevac. Ha rinsaldato rapporti con la Cina e con l’India, chiamandosi fuori dalla guerra fredda fra Stati Uniti e Pechino. Non è un caso dunque se oggi in tutte le iniziative internazionali sul Covid-19 – Access to Covid-19 tools accelerator (Act accelerator) per velocizzare l’accesso ai rimedi contro Covid-19 – la Fondazione Gates compare insieme a Oms, Commissione Europea, Banca Mondiale. Ormai, nell’immaginario collettivo, viene riconosciuta alla stessa stregua delle organizzazioni multilaterali. Tutto l’impianto operativo delle iniziative internazionali in materia di vaccini, farmaci, diagnostici contro il Covid è nelle mani delle partnership pubblico-private create da Bill Gates.
La Fondazione Gates e a seguire quelle di Bezos e Zuckerberg, ad esempio, hanno un’agenda molto chiara sulla scuola negli Stati Uniti
La tendenza verso la privatizzazione della gestione della salute sembra inarrestabile, mentre i governi sono non solo subalterni, ma a volte complici. Guardiamo a come l’Europa ha negoziato i contratti per i vaccini con le aziende farmaceutiche. L’Europa non può definirsi un nucleo di paesi sprovveduti, eppure abbiamo fallito nella trattativa con questi colossi. I burocrati europei, per compiacere le aziende farmaceutiche e portare a casa un accordo rapido, hanno violato direttive europee e recenti risoluzioni dell’ONU che impongono la trasparenza in casi di aggiudicazione pubblica. Trattando con il controverso settore farmaceutico hanno accettato la clausola della segretezza. Tra l’altro in questo caso le aziende non sono neanche le vere protagoniste delle innovazioni, ma assicurano in buona sostanza la produzione di massa dei vaccini, di cui detengono i brevetti, nonostante il poderoso finanziamento pubblico – 93 miliardi di dollari in 10 mesi, secondo la KeNup Foundation. Le aziende esercitano ora attivamente la loro pressione per evitare che l’Omc possa sospendere durante la pandemia i brevetti farmaceutici. Nel frattempo Gates sostiene che per quanto riguarda i vaccini la proprietà intellettuale non è un problema. La deroga temporanea agli accordi di proprietà intellettuale, prevista dalle norme del Trips, è perfettamente legale. Nella circostanza del Covid-19 sarebbe un tentativo ineccepibile di democratizzare l’accesso alla scienza e pluralizzare la ricerca, per accelerare la produzione di strumenti contro il virus e temporaneamente ribilanciare l’asimmetria esistente tra la potenza delle aziende e l’impotenza del settore pubblico. Il vaccino AstraZeneca, ad esempio: è stato realizzato dall’Università di Oxford con un progetto di ricerca tutto finanziato dal pubblico. Gli scienziati di Oxford avevano optato per collocare la loro conoscenza su una piattaforma aperta, accessibile a tutti coloro che volessero riprodurre il vaccino. Bill Gates è intervenuto personalmente per sventare questa ipotesi e imporre che la licenza esclusiva fosse data ad AstraZeneca, una delle aziende che collaborano con la Fondazione Gates, e che nella fattispecie si è conquistata una posizione di mercato poderosa. Attraverso la licenza alla indiana Serum Institute, Astra Zeneca vende i vaccini ad alcuni paesi del Sud del mondo imponendo un prezzo molto più alto di quanto non li stia pagando l’Europa. La deroga ai diritti di proprietà intellettuale avrebbe invece anche l’obiettivo di sbloccare questo apartheid vaccinale.
I complottismi
I complottismi sono certamente una questione aperta nel dibattito pubblico. Ritengo però che sia importante dare una spiegazione al perché esistono. A mio parere sono l’esito di due grandi processi. Il primo rimanda precisamente alla privatizzazione della conoscenza scientifica e, in generale, della conoscenza umana. Da 25 anni a questa parte qualunque innovazione è sottoposta a una logica di feudalesimo della conoscenza, che pone una serie di problemi. Porta a una separatezza sempre più tangibile tra scienza e società, tra scienza e politica. La scienza viene percepita nel suo spostamento verso interessi economici e finanziari – lo si è visto con la campagna di comunicazione che nel 2020 le case farmaceutiche, grandi e piccole, hanno sviluppato in merito ai passaggi delle sperimentazioni cliniche sui vaccini. A ogni annuncio corrispondeva un netto effetto di borsa. Di fronte a queste dinamiche è facile comprendere che crescano la sfiducia e lo scetticismo nei confronti della scienza. Questa sfiducia è pesantissima e sarà difficile trasformarla nel tempo. L’altro grande processo che facilita i complottismi, in società travolte dalla complessità e allo sbaraglio, è la digitalizzazione. Le persone tentano di trovare spiegazioni, le cercano su Internet, e i social media diventano l’autostrada per la diffusione di narrazioni che funzionano da scorciatoie. Lo scollamento tra tecnica e politica, tra scienza e società è un grande abisso in cui ci troviamo, oggi. Le ragioni del sospetto talora rischiano di avere qualche fondatezza. L’operazione che ho fatto con il mio libro è stata quella di proporre fonti certe, argomenti, domande, e qualche prova di risposta, per non incorrere in semplici scorciatoie.
Trovo che Covid-19 – che arriva 75 anni dopo la nascita dell’ONU e 25 anni dopo la nascita dell’Omc e mette in tensione due visioni del multilateralismo internazionale, una che afferisce alla logica della pace e dei diritti umani e l’altra alla logica del commercio e del profitto – sia un pedagogo irriducibile ma razionale, che si alimenta delle nostre contraddizioni e delle nostre follie. Per affrontarlo, non saranno sufficienti soluzioni tecniche, non saranno sufficienti i vaccini. Perché la salute – questa fu l’intuizione di chi costituì l’Oms, la prima delle agenzie ONU – è un fondamentale strumento di uguaglianza tra le persone e non ha a che fare con le medicine, ma con la libertà, la democrazia e l’uguaglianza.
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