I cinocefali, un romanzo sui giovani russi

Kirill, Valerij e Denis, ventenni moscoviti con le vite sottosopra e in cerca di facile guadagno, vengono spediti da un uomo misterioso nel dimenticato villaggio di Kalitino. Il loro compito è quello di prelevare dalla chiesa locale un raro affresco che raffigura un San Cristoforo “cinocefalo”: con la testa da cane. I tre pensano ad un lavoro facile, rapido, ma la loro supponenza cittadina non tarda ad essere sbugiardata. La realtà del luogo si rivelerà presto più contorta di quanto appaia, lasciando intravvedere ombre inquietanti e minacce sovrannaturali.
Queste le premesse de I cinocefali (Voland, 2020) di Aleksej Ivanov, per la prima volta pubblicato in traduzione italiana. Ivanov viene presentato dall’editore come “uno dei migliori eredi della grande tradizione letteraria russa”, e per molti versi lo è. Quello che sembra un perfetto incipit per un horror da manuale o per la più classica delle serie TV, conduce in realtà all’interno di un’operazione letteraria complessa e stratificata, che intreccia forma e contenuto in maniera abile e consapevole.
Il primo livello è quello del gioco dei punti di vista. Fin dall’inizio s’intuisce che il protagonista è il giovane Kirill, e si è tentati di far coincidere la sua voce con quella dell’autore. Viene da pensare di trovarsi davanti ad un normale romanzo di intrattenimento un po’ furbo, alla Stephen King, con tuttalpiù qualche tratto mimetico e pittoresco. In effetti, di intrattenimento Ivanov ne ha fatto tanto nella sua carriera. Tuttavia, man mano che il racconto avanza, si inizia a comprendere che l’autore ha intenzioni meno trasparenti, e non intende parlare di sé. Parla invece dei giovani russi contemporanei, ovvero quelli della generazione successiva alla sua: Ivanov nasce nel 1969, in Russia il romanzo è uscito nel 2010.
Figli della caduta dell’Unione Sovietica, si tratta di ragazzi cresciuti a pane e cultura “occidentale” d’importazione. Vengono presentati come completamente privi di contatti con qualsiasi forma di passato, senza storia e senza famiglia. Questo ha come principale conseguenza una pressoché totale alienazione sia dalla realtà circostante, sia da sé stessi. Venuti su in un mondo che aveva una gran fretta se non di dimenticare, almeno di dimenticarsi, sono il frutto di un oblio generalizzato. Roman Arturovič, uno dei pochi personaggi adulti e consapevoli con cui il protagonista arriva a confrontarsi, racconta di essere stato bambino sotto l’Unione Sovietica e dice che da allora gli uomini sembrano aver “perso interesse verso lo spazio”. Pur alludendo ai cosmonauti, il doppio senso è evidente. L’interesse smarrito è quello per la realtà, per lo spazio culturale nel suo complesso. Mossa da un sentimento opposto a quello dell’horror vacui, secondo Ivanov la società russa contemporanea ha finito col creare un vuoto attorno a ciascun individuo, privandolo quasi completamente di strumenti per interpretare ciò che lo circonda. I tre protagonisti cercano di supplire ad un simile vuoto creando narrazioni alternative: Valerij sfoggia un intellettualismo conservatore e disumanizzante; Denis (che preferisce farsi chiamare col suo teutonico nickname da giocatore di ruolo: Guger) si rifugia nell’universo medievalizzante dei videogiochi online, al quale riconosce un senso e un ordine di cui il “mondo di fuori” gli sembra privo; Kirill, il più recettivo dei tre, ha in testa un’accozzaglia di luoghi comuni sul passato e riferimenti alla cultura pop – statunitense, anzi, rigorosamente Hollywoodiana – di cui non è molto convinto nemmeno lui. Tutti e tre carburano a caffè e ramen istantaneo, parlano un russo “inglesizzato” e reputano internet la loro principale finestra sul mondo: sono stati scelti per la missione tramite lo studio dei loro profili LiveJournal, una piattaforma di blog personali.
Tutto questo, con l’avanzare del romanzo, fa via via apparire lo stile sotto una luce diversa. Si tratta sì di un linguaggio mimetico, ma non solo della parola bensì del pensiero e delle strutture mentali dei protagonisti. Alla Salinger, insomma: il collegamento con Il giovane Holden è quasi istintivo. Ciò che leggiamo viene direttamente dalla testa di Kirill, senza (apparenti) filtri interpretativi. E Kirilll, almeno inizialmente, non è capace di esprimersi in altro modo, parla e pensa in termini di intrattenimento di massa.
Ogni cosa inizia a cambiare, a stravolgere le narrazioni, nel momento in cui i tre entrano a contatto con una dimensione altra, che esula quasi completamente dagli schemi a loro congeniali e perfino dalle idee che si erano fatti sulla provincia. Un altro dei pregi del romanzo è proprio questo: Ivanov prende il grande topos letterario della campagna russa, lo chiama per nome e cognome e lo destruttura completamente, con intelligenza. Col coraggio e la sicurezza di uno che in provincia è nato e cresciuto, l’autore ci dice che quell’“altra dimensione” romantica e pittoresca non esiste più. Se mai è esistita. È piuttosto un ambiente semi-infernale, distesa grigia eternamente in fiamme a causa delle miniere di torba. Ma, al contempo, non è soltanto un covo di uomini e donne alcolizzati, abbruttiti, bestiali, come invece si immagina chi vive nelle grandi città. Si tratta piuttosto di un luogo che “ha perduto la vecchia cultura della campagna russa senza acquisire la modernità della città”. Un luogo dunque apparentemente senza passato, esattamente come i giovani moscoviti, che però ha conservato “intuitivamente” archetipi culturali pregressi in forma più immediata rispetto a quanto può avvenire in un crogiolo di realtà diverse come quello di una metropoli. E che, in virtù della sua scarna semplicità, costituisce un micro-universo che riproduce con estrema chiarezza uno scontro tra due mondi segnato dalla reciproca incomunicabilità. Sempre Roman Arturovič riassume il tutto dicendo “Qui ci sono solo due comunità, la vostra e la loro.”. Il tema generazionale si intreccia quindi con quello del conflitto tra luoghi. Anzi, tra loci: lachiave della metafora è soprattutto antropologica, e viene splendidamente resa da una riflessione sull’architettura russa: l’unica al mondo prevalentemente in legno, va in pezzi nell’arco di una generazione ma per ciò stesso ha modo di conservare gli archetipi originali rinnovandone continuamente la forma.
I protagonisti percepiscono tutto ciò, ma, mentre Valerij e Denis scelgono di rimanere arroccati nelle loro certezze, Kirill si espone. Seppur profondamente inquietato dalla scoperta di un rovescio della medaglia così vasto, a lui del tutto precluso fino a quel momento, è curioso. Quando arriva a trovarsi a contatto diretto con eventi sovrannaturali a cui prima non avrebbe mai creduto, opta per la strada della ricerca. O meglio, ne sente l’urgenza. Certo, il santo con la testa di cane attecchisce facilmente nella sua immaginazione forgiata da licantropi e mutanti. Però accanto a questo si fa strada la consapevolezza che dietro a un simbolo del genere si addensano significati che lo riguardano da vicino. Attraverso le svariate e confuse interpretazioni che gli abitanti di Kalitino danno dei cinocefali, Kirill percepisce l’eco di qualcosa che non sa identificare, di forze che non conosce e che pure gli si muovono sotto la pelle. E l’unico modo per porre rimedio al terrore e alla destabilizzazione che questa vaga consapevolezza causa è andare fino in fondo, fronteggiare la bestia faccia a faccia. Salvo poi scoprire (niente spoiler!) che il vero mostro, nebuloso, inafferrabile e molto più grande di ciascun individuo è quello della Storia, della cultura che si stratifica nei secoli creando movimenti tellurici micidiali.
Il percorso di scoperta passa per varie fasi: inizialmente il ragazzo si orienta attraverso stereotipi, cercando e trovando conferme di una sua visione della provincia come luogo degradato e ostile. L’unica vera minaccia gli sembra Šestakov, signorotto del luogo, che mai vediamo e che pure immaginiamo alla perfezione, tanto è caratteristico. È l’unico che Kirill, di riflesso, considera superiore agli abitanti in quanto parzialmente affiliato all’universo moscovita. Si vergognerà di sé stesso quando le sue ricerche lo porteranno a scoprire che l’uomo è tuttalpiù l’ennesimo prodotto dell’epoca: stereotipo del “nuovo ricco”russo, quasi un personaggio gogoliano, che guarda tutto e tutti con superiorità dall’alto del suo villino kitsch arredato in stile impero. Come tutti gli altri abitanti non si sognerebbe mai di mettere in dubbio la sacralità della televisione: solo che la sua non è a tubo catodico ma ha uno schermo al plasma Panasonic. E nel suo seminterrato non nasconde lupi mannari pronti a divorare chiunque gli disobbedisca, ma l’occorrente per festini sadomaso.
È la relazione con Liza, una ragazza del villaggio che desidererebbe scappare, che dà a Kirill la chiave di volta per una completa evoluzione, portandolo ad addentrarsi (pur non senza ripensamenti) in territorio nemico uscendone sorprendentemente indenne. Il cinocefalo non cessa di esistere, rimanendo presente in quanto archetipo – “funzione sociale mascherata da santo” – e anche grazie ad un humus culturale che il giovane condivide del tutto inconsapevolmente con Kalitino e i suoi padri scismatici. Interessante a questo proposito la parentesi di approfondimento sulla storia dello scisma religioso russo, resa attraverso l’escamotage delle ricerche internet del protagonista. In una sovrapposizione di punti di vista anche il lettore insieme a Kirill mette insieme i pezzi di una realtà che molto probabilmente non conosce, o di cui ha soltanto sentito parlare.
Lo scioglimento finale vede un Kirill maturato, che addirittura si stizzisce e s’imbarazza se gli si ripropongono le citazioni pop che lui stesso dispensava a piene mani (anche solo nel pensiero!) fino a poco prima. Si tratta di una conclusione che porta esplicitamente al centro della narrazione il discorso sulla cultura, sempre adombrato ma svelato e sviscerato solo nelle ultime pagine. Lo stesso termine “cultura” viene ad assumere due significati diversi: quello di bagaglio di conoscenze, attitudine critica nei confronti del mondo, e quello antropologico di insieme di segni e archetipi volti sia a normare sia a decodificare la realtà. Le due accezioni sono, naturalmente, interconnesse. Lo spirito critico si forma anche a seconda dei condizionamenti sociali, e non può evitare di essere influenzato da essi; la cultura in senso antropologico necessita di spirito critico per poter essere compresa e posta in prospettiva. Kirill capisce che è grazie a questo genere di comprensione che è passata la paura dell’ignoto; ma allo stesso tempo si rende conto di essere stato vittima di un intreccio di suggestioni dalle quali gli è difficile liberarsi. Le suggestioni unite alla paura rappresentano un pericolo enorme, un errato utilizzo del “materiale culturale”, per cui l’istinto ha la meglio e dà vita ai cinocefali di turno. Per difendere gli inesperti da simili scivoloni Ivanov mette in campo la figura professionale (inventata) del “dangerologo”, una sorta di artificiere dei simboli pericolosi che provvede a metterli in sicurezza. Non prima, però, di aver osservato la loro influenza su tre o quattro cavie. Antropologi, insomma, che però ricordano agenti di polizia segreta: Kirill chiede se non siano dell’FSB (attuale equivalente del KGB), esi sente rispondere che sono dell’Ermitage. Si definiscono uomini di cultura, ma studiano e sezionano l’essere umano e la sua realtà in maniera consapevolmente asettica. L’eterno quesito sulla distanza della ricerca viene risolto da Ivanov in modo piuttosto sbrigativo: da un lato lo studio dell’uomo rassicura, rende consapevoli, aiuta a contestualizzare; dall’altro è quasi matematico che finisca col riprodurre forme di potere, e il rischio della disumanizzazione è dietro l’angolo. Alla fine dei conti pare calzante la metafora del videogiocatore Denis-Guger: la vita e le interazioni umane come gioco di ruolo, con tutti i segni e i simboli del caso. Punto di vista piuttosto russo, se ricordiamo che qualsiasi campo di studi – volente o nolente – in Russia è sempre stato in stretti rapporti col potere. Ciò si dica soprattutto per le scienze umane, la cui storia in Russia è stata singolare: si sono affermate piuttosto tardi, in epoca sovietica. Prima, a fare da mediatrice e interprete della realtà era prevalentemente la letteratura. E forse a suo modo continua a farlo, con romanzi come I cinocefali.