I braccianti di Boreano
degli insegnanti della scuola di italiano di Boreano
Boreano, un pugno di casolari e una chiesa in mezzo a una distesa di campi nel comune di Venosa (Potenza), propaggine di quella Piana dell’Ofanto che si insinua tra le colline lucane e le Murge pugliesi, a pochi chilometri da Cerignola e dallo stabilimento Fiat di Melfi, è un luogo da cui si possono raccontare le vicende, le contraddizioni e i fallimenti dell’agricoltura meridionale negli ultimi decenni.
I campi sono dominati dalla Masseria Rapolla, ormai quasi abbandonata; l’ultima proprietaria della masseria è ricordata dagli anziani come la “signorina”, che negli anni quaranta affrontava “con il mitra” le centinaia di braccianti che occupavano i suoi terreni. Negli anni cinquanta la Riforma agraria espropriò buona parte delle sue proprietà e divise i terreni tra i braccianti poveri – almeno quelli che non avevano la tessera del Pci. In ogni podere fu costruito un casolare, con l’idea che i disoccupati, diventati contadini, sarebbero andati a vivere a Boreano. In realtà, la Riforma non diede vita a un’agricoltura capace di assicurare un reddito a quei contadini, i casolari e la chiesa si svuotarono presto, molti emigrarono o tornarono in paese.
Sessant’anni dopo, quei casolari abbandonati raccontano un’altra agricoltura. Tra i cereali, i vigneti e gli uliveti, a Boreano e in tutta la Piana, come nel vicino foggiano, si coltiva, ormai da quarant’anni, il pomodoro da industria, destinato soprattutto ai conservifici campani. E, da almeno vent’anni, i casolari sono abitati da lavoratori soprattutto africani, in particolare originari del Burkina Faso, che passano qui l’estate per cercare qualche giornata di lavoro nella raccolta. Tra loro ci sono operai, licenziati dalle fabbriche del Nord o in cassa integrazione, e ragazzi di seconda generazione alla ricerca di impiego; per altri, invece, Boreano è una delle tappe del lavoro agricolo stagionale, dopo la raccolta delle fragole nel casertano o delle angurie nel Salento e prima di andare a Rosarno per la raccolta invernale degli agrumi. Condizioni di vita e di lavoro sono ormai note: i casolari non hanno luce e acqua corrente e sono lontani dai centri abitati; i caporali impongono la propria mediazione per lavorare, sottraendo ai braccianti una quota non piccola dei salari; le paghe sono a cottimo, i contributi non vengono pagati.
Questa complessa situazione ci ha messo di fronte a una domanda: che tipo di intervento sociale è possibile pensare e praticare in questi territori, con i braccianti migranti?
Sull’esempio di alcune esperienze realizzate a Nardò, nella Piana di Gioia Tauro e nel “Grand Ghetto” tra Foggia e San Severo (cfr. gli articoli “Sud e migranti”, Gli Asini febbraio 2012; “Radio Ghetto e i raccoglitori di pomodoro”, Gli Asini agosto 2012; “Rosarno tre anni dopo”, Lo straniero agosto 2013), abbiamo dato vita a una scuola di italiano per i lavoratori stagionali, nelle campagne, a poca distanza dai casolari. Così, nell’estate 2013, la chiesa abbandonata del borgo di Boreano è diventata lo spazio fisico che ha ospitato ogni sera, da metà agosto fino a fine settembre, da 30 a 60 tra braccianti africani e ragazze e ragazzi italiani. Luogo di insegnamento e apprendimento della lingua italiana, e, man mano che passavano le settimane, anche molto altro: luogo in cui ci si scambia idee, si organizzano assemblee per discutere delle condizioni di vita e di lavoro; uno spazio per fare teatro, per proiettare film, per ritrovarsi insieme. Un’esperienza che si è ripetuta, sebbene con successo e caratteristiche differenti, anche nell’estate 2014.
Oltre che da singoli – alcuni residenti in paese, altri, la maggior parte, emigrati – e da associazioni dei paesi lucani limitrofi (Venosa, Palazzo San Gervasio, Lavello), la scuola è stata resa possibile da volontari provenienti da tutta Italia, succedutisi settimanalmente a sostegno del progetto. Qualcuno ha già esperienze di insegnamento di italiano o di lavoro politico con i migranti, altri sono impegnati nel consumo critico e nel promuovere acquisti di prodotti senza sfruttamento, qualcun altro ha semplicemente un amico che gli ha parlato di questa esperienza. Nella chiesa mancano luce e acqua, così alcuni devono dedicarsi a trasportare il generatore di corrente, le prolunghe e i faretti.
La scuola inizia attorno alle diciotto. Dopo il lavoro, a poco a poco i braccianti e i volontari, nonché numerosi ospiti ogni sera, si ritrovano nello spiazzo antistante la chiesa. La scuola inizia con un cerchio di benvenuto, momento di accoglienza fondamentale per conoscersi attraverso il gioco, presentarsi, imparare a chiamarsi per nome. Come ci insegna l’esperienza di Asinitas, il momento di convivialità e conoscenza reciproca rappresenta la soglia necessaria per la costruzione di un ambiente amichevole e rilassato e per favorire l’interazione tra i componenti del gruppo. Quando il grande portone di legno della chiesa si apre l’ambiente è accogliente, nonostante le pareti scrostate, le finestre senza vetri e l’altare disfatto sul fondo. Sui tavoli c’è da bere e da mangiare e i muri si riempiono di cartelloni colorati preparati con i braccianti, ora in veste di studenti: la sagoma del corpo umano, gli autoritratti, la mappa del mondo. La scuola prende forma giorno dopo giorno e assomiglia a chi la costruisce, racconta le storie di chi vi partecipa.
L’arrivo dei braccianti a scuola è discontinuo, dipende dal lavoro, dalla fatica, dalla possibilità di farsi una doccia nei casolari senz’acqua corrente, dalla necessità di inseguire qualcuno che paghi i salari arretrati. Nell’attesa che inizi l’attività del giorno, sui grandi tavoloni di fortuna si possono trovare fumetti, silent-books, giochi linguistici, tutto materiale didattico che cerca di rendere il più possibile concreta e manipolabile la lingua (come gli alfabetieri mobili e tattili di ispirazione montessoriana) e che consente allo studente di autocorreggersi senza l’intervento dell’insegnante. Materiale costruito collettivamente durante le ore di programmazione delle attività pomeridiane o a scuola. L’ambiente e il materiale didattico è pensato, organizzato e strutturato per permettere agli studenti di lavorare anche in modo autonomo: leggere, scrivere, ripetere, associare parole a immagini; o anche solo per stimolare chiacchiere informali e conoscersi meglio. Mamadou, il più assiduo degli studenti, arriva spesso prima degli altri per esercitarsi nella lettura; talvolta reclama la presenza di un insegnante distratto. Quando si comincia il lavoro collettivo, una grande tenda colorata divide la chiesa in due parti: una per il gruppo “base”, l’altra per il gruppo “avanzato”. L’obiettivo che ci siamo dati è quello di stimolare l’auto-narrazione, il racconto dei propri bisogni espressi e inespressi, l’iniziazione, il viaggio e il cambiamento, ma anche i propositi per l’avvenire, i sogni e le aspettative. Tutto questo viene suggerito attraverso una metodologia che privilegia l’apprendimento esperienziale, l’educazione attiva, il coinvolgimento dell’intera persona e l’utilizzo di un linguaggio multiplo: quello verbale ma anche quello del corpo, l’attività manuale, le immagini e l’utilizzo di input autentici e contestualizzati. La lezione si conclude con un prodotto finito: un collage, un piccolo testo scritto, un manufatto, tutte espressioni di un percorso che non è solo linguistico.
Soprattutto nel gruppo “avanzato”, si affrontano anche temi legati al lavoro e ai documenti di soggiorno, sia a livello didattico (ad esempio la costruzione di un curriculum con le precedenti esperienze lavorative dei braccianti) sia, man mano che i rapporti di fiducia si consolidano, riflettendo sulla situazione di precarietà abitativa e di sfruttamento e, infine, rompendo l’ultimo tabù, quello del caporalato, di cui pochissimi vogliono parlare per timore di perdere il lavoro.
É così che, gradualmente, dopo un mese di scuola e discussioni, a metà settembre 2013 prende forma un percorso assembleare: durante o dopo la scuola ci si riunisce per discutere, per denunciare, per costruire insieme un’azione rivendicativa. Alla fine, insegnanti e studenti scrivono una lettera indirizzata al Prefetto di Potenza per denunciare i problemi da loro quotidianamente vissuti, proporre soluzioni, chiedere un incontro. Il Prefetto accetta e una delegazione di braccianti lo incontra ai primi di ottobre, dopo la chiusura della scuola e dopo una festa finale che dura tutta la notte, e prima di lasciare Boreano per andare a cercar lavoro altrove.
Dopo l’estate si susseguono mesi passati a lavorare con i pochi rimasti in Basilicata e a mantenere i rapporti con tutti gli altri, organizzare iniziative di finanziamento, lavorare alla preparazione della scuola di italiano per l’estate seguente e ad altri progetti (tra cui la festa in piazza a Venosa, la produzione di pomodori e salsa di pomodoro con alcuni braccianti, la costruzione di una squadra di braccianti che cercasse lavoro senza caporale). Mesi nei quali abbiamo riflettuto sugli intrecci creatisi tra percorso didattico e percorso assembleare, su come fosse andata sfumando la distinzione tra momento educativo e momento politico, insomma su come la forma del fare politica fosse andata rispecchiando le pratiche d’insegnamento.
Alcuni tra noi avevano iniziato questa esperienza con la speranza di costruire un rapporto forte tra militanti-insegnanti e braccianti-studenti. Un rapporto politico. E contemporaneamente uguale importanza si è data al percorso didattico. L’esperienza ci ha confermato che il carattere di sperimentazione delle pratiche e tecniche di insegnamento e le modalità d’interazione orizzontali tra insegnanti e studenti hanno anticipato e poi accompagnato i modi delle discussioni assembleari: radicalmente paritetici e aperti entrambi.
Una relazione cresciuta in una scuola e continuata poi anche con altre forme, nella difficile e mai compiuta costruzione di un “noi” (la Scuola di italiano di Boreano) che comprendesse insegnanti e studenti, abitanti del territorio e persone esterne (braccianti e volontari), bianchi e neri, italiani e africani (un “noi” ancora incompiuto di cui anche questo articolo è figlio).
A testimoniare ciò è il nome che l’associazione ha scelto di darsi sin dalla sua nascita: Fuori dal ghetto, ciascuno fuori dal proprio ghetto, la città e la campagna, per incontrarsi e dar vita a un luogo materiale e a un modo di stare assieme realmente comuni. L’incontrarsi, certo non senza difficoltà e tensioni, è stata la pratica e l’obiettivo con cui questo progetto è nato. Percorso insieme umano ed educativo, relazionale e politico, nutritosi dell’attiva partecipazione di tutte le persone che lo hanno attraversato, sporadicamente o assiduamente.
Estate 2014
Nonostante l’esperienza accumulata, il lavoro comune e le amicizie cresciute nel corso dei mesi, ripetere la scuola di italiano nell’estate 2014 non è stato facile, sia per le dinamiche interne al gruppo sia per i cambiamenti intervenuti negli ultimi mesi. Da metà agosto, quando, come sempre, i casolari hanno ricominciato a essere abitati, la chiesa di Boreano è tornata a essere sede della scuola. Tuttavia, i braccianti interessati sono stati molti meno, tra i 10 e i 15 ogni sera, a fronte di numeri molto più alti nell’estate precedente. In particolare, hanno frequentato la scuola soprattutto i “ragazzi del Nord”, scesi a lavorare nelle campagne senza troppa convinzione – per pagarsi gli studi superiori o per un piccolo reddito dopo il diploma; mentre i braccianti, quelli che fanno il giro delle raccolte, quelli per i quali il pomodoro è una importantissima fonte di reddito, hanno frequentato la chiesa di Boreano molto meno. Ancor meno sono stati quelli che si sono impegnati in un percorso politico, che pure, tra non poche difficoltà, ci ha portato in due occasioni a incontrare il sindaco di Venosa e a presentargli alcune rivendicazioni
Abbiamo ragionato molto assieme ai braccianti sulle difficoltà loro e della scuola. Anzitutto, la raccolta del 2014 sembra aver impegnato per più giorni e in maniera più intensiva i lavoratori rispetto all’anno precedente; in secondo luogo, i caporali si sono sentiti disturbati dalla scuola e dalla presenza dei bianchi, che mettevano in discussione la loro posizione di potere, e avrebbero minacciato i loro braccianti: chi frequenta la scuola e i bianchi non va a lavorare, o va a lavorare in condizioni peggiori. Ma anche le istituzioni ci hanno messo in difficoltà: a partire da giugno, infatti, la Regione Basilicata – come la vicina Puglia – ha costituito una “task force” per risolvere l’emergenza, ormai ventennale, degli stagionali, stanziando centinaia di migliaia di euro per una serie di misure tra le quali la creazione di due centri di accoglienza per i braccianti. Un intervento che, pur continuando a insistere su una gestione emergenziale della questione bracciantile, ha presentato qualche aspetto di novità e di interesse. I centri di accoglienza, però, sono stati aperti con estremo ritardo – quello di Venosa il 20 settembre, a pochi giorni dalla fine della raccolta – e dopo un balletto di promesse di accoglienza, ricatti sulla fornitura di acqua ai casolari, minacce di sgombero, incertezze su quali e quanti migranti potessero essere accolti che ha reso per più di un mese la situazione nei casolari molto confusa. Nota amara: l’ingresso ai centri è stato sempre categoricamente negato ai volontari.
La scuola, così, stretta tra le difficoltà interne, le minacce dei caporali e il difficile rapporto con l’intervento istituzionale, ha retto come poteva, cercando da un lato di assicurare una continuità educativa ai pochi allievi e dall’altro, assieme alle associazioni presenti sul territorio, di monitorare la situazione nelle campagne.
Dopo il successo del 2013, la scarsa partecipazione del 2014 ha tuttavia portato gli insegnanti, i volontari e i pochi braccianti presenti con continuità ad interrogarsi su come proseguire queste attività, sul senso e sulla reale efficacia del lavoro sociale, didattico e politico fatto a Boreano.