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I Balcani occidentali, ancora sulla soglia

30 Ottobre 2021
Francesco Martino

“Il futuro dei Balcani è all’interno dell’Ue”. Era il giugno 2003 quando, al termine di uno storico vertice dell’Unione Europea tenuto a Salonicco, i rappresentanti dei paesi membri facevano una promessa solenne a quelli dei Balcani occidentali, reiterata poi come un mantra negli anni successivi: vi sosterremo nel processo di integrazione, perché senza di voi la costruzione della casa comune europea non è completa.

In quei mesi l’atmosfera a Bruxelles era segnata da ottimismo: l’Unione si preparava fiduciosa al “big bang”, il grande allargamento del 2004, con l’integrazione di ben dieci nuovi paesi – quasi tutti nell’Europa centro orientale – a cui si aggiungeranno poi Romania e Bulgaria nel 2007. Assorbire anche i Balcani occidentali, che con l’espansione a est diventavano un’enclave interna, sembrava un compito forse non semplice, ma sicuramente alla portata dell’Ue.

Anche perché le società degli stessi Balcani occidentali, nonostante alcune persistenti voci scettiche, esprimevano a grandissima maggioranza la volontà di entrare nell’Ue, e in tempi rapidi, se possibile. Dopo un decennio drammatico e sanguinoso, segnato dalla guerra fratricida nei paesi dell’ex-Jugoslavia, ma anche dall’implosione delle istituzioni in Albania, che aveva portato nel baratro il paese, la graduale inclusione di tutti i paesi della regione nell’Ue sembrava ai più come la strada naturale per risanare le ferite degli anni Novanta e tornare alla sospirata normalità. Stabilità politica, risanamento economico, possibilità di viaggiare: per i cittadini dei Balcani occidentali, provati, stanchi, marginalizzati, l’Unione significava questo e molto altro ancora.

Col passare degli anni, però, le promesse di Salonicco – ribadite ad ogni vertice successivo – sono diventate sempre più sbiadite, ripetute più per inerzia che per convinzione. L’entusiasmo di inizio anni 2000 si è affievolito e, soprattutto dopo l’integrazione più faticosa del previsto di Bulgaria e Romania, è prevalso un generale stato di apatia e sfiducia verso la capacità di raggiungere l’obiettivo dichiarato.

“Fatica da allargamento”: questa l’espressione, a metà tra la diagnosi medica e la frase ad effetto, che media e think-tank che si occupano dell’area hanno iniziato a utilizzare sempre più spesso per descrivere la situazione. Se escludiamo l’ingresso della Croazia nel 2013, il percorso di avvicinamento dei restanti paesi dei Balcani occidentali ha infatti rallentato sempre più vistosamente, fino ad arenarsi del tutto o quasi.
Il percorso di integrazione si è trasformato in una maratona il cui traguardo invece di avvicinarsi sembra allontanarsi, con sei paesi riuniti loro malgrado sotto l’etichetta di Balcani occidentali – “Western Balkans” – ribattezzata informalmente “Restern Balkans” col tipico sarcasmo pungente ed auto-ironico dei balcanici.

Non è semplice riassumere le peripezie attraversate in questi decenni da ognuno dei sei stati rimasti sulla soglia dell’Unione. In modo poco sorprendente, a essere rimasti più indietro sono i paesi usciti lacerati dai conflitti armati degli anni Novanta. La Bosnia-Erzegovina innanzitutto, trasformata dalla pace di Dayton del 1995 in una “pseudodemocrazia-etnica” dei separati in casa, in cui ogni tentativo di riforma funzionale delle istituzioni è ostaggio dei veti incrociati tra le due entità emerse dalla guerra, la Federazione bosgnacco-croata e la Republika Srpska a maggioranza serba.

In modo poco sorprendente, a essere rimasti più indietro sono i paesi usciti lacerati dai conflitti armati degli anni Novanta.

Ma anche il Kosovo, che nonostante la dichiarazione di indipendenza del 2008 e l’appoggio decisivo degli Stati Uniti ha ottenuto un riconoscimento incompleto a livello internazionale. A disconoscere la sovranità di Pristina non sono solo Serbia, Russia e Cina ma – tra gli altri – anche cinque stati membri dell’Ue. A confermare la condizione di fanalino di coda nel processo di integrazione europea, il Kosovo è rimasto l’unico paese dei Balcani occidentali a conservare l’obbligo dei visti d’ingresso verso lo spazio comune europeo.

Qualche passo più avanti si trovano l’Albania e la Macedonia del nord, a cui solo all’inizio del 2020 è stato concessa l’apertura dei negoziati, senza però potervi dare davvero seguito. Tirana e Skopje, che procedono agganciate una all’altra, sono rimaste al palo dopo il veto della Bulgaria nei confronti della Macedonia del nord per questioni identitarie e storiche irrisolte tra i due paesi. Un veto amaro, che segue quello ventennale imposto sempre a Skopje dalla Grecia per l’annosa questione del nome “Macedonia” – che Atene ritiene patrimonio storico e culturale ellenico – risolto nel 2019 col trattato di Prespa e l’aggiunta della specifica geografica “del nord” al nome costituzionale del paese.

I più avanti nei negoziati per l’adesione, pur essendo molto lontani dal completamento, sono invece Serbia e Montenegro. Date le dimensioni e il ruolo egemone nella regione, la Serbia viene considerata spesso il candidato più appetibile per l’integrazione. Belgrado però è la capitale meno euro-entusiasta dell’area, e il presidente Aleksandar Vučić – dominatore autoritario della scena politica serba da un decennio – non disdegna di flirtare apertamente con Mosca e Pechino.

Il vero ostacolo al percorso europeo di Belgrado, però, resta il conflitto con Pristina. Dagli accordi di Kumanovo del giugno del 1999 con cui si è posto fine ai bombardamenti della Nato, la posizione della Serbia non è cambiata di molto. Belgrado non riconosce l’indipendenza della sua ex provincia, ma partecipa ai tavoli avviati dall’Ue alla ricerca di una soluzione politica al conflitto. Pur consapevole che si tratta di un passaggio indispensabile per diventare un paese membro dell’Ue – con un capitolo negoziale specifico dedicato ai rapporti col Kosovo – Belgrado non mostra oggi l’intenzione di voler affrontare fino in fondo la questione.

Inaspettato primo della classe è invece il Montenegro, nonostante si sia emancipato solo da un anno dal monopolio politico di Milo Đukanović, per trent’anni padre-padrone della piccola repubblica adriatica. In questi decenni il paese è riuscito a compiere innegabili passi in avanti, pur non essendosi ancora liberato da corruzione, violenza politica e spaccatura della società tra chi vuole mantenere forti i tradizionali rapporti con la Serbia e chi invece vorrebbe allontanarsene definitivamente.

Nel complesso, un quadro con più ombre che luci, evidenziato dall’ultimo vertice Ue-Balcani occidentali di Brdo pri Kranju in Slovenia, all’inizio di ottobre 2021: i paesi membri dell’Ue hanno faticato addirittura a convenire sull’opportunità di inserire esplicitamente il termine “allargamento” nei documenti ufficiali, con la Francia e alcuni paesi nord-europei contrari e l’Italia a caldeggiare la necessità di tenere le porte aperte. Alla fine ha vinto la linea pro-integrazione, ma ancora una volta senza alcun calendario concreto.

Per i paesi dei Balcani occidentali lo sforzo di integrazione europea ha rappresentato in questi decenni un vettore fondamentale e costante, sia per la politica che per le società civili. Ma il tormentato sogno europeo non esaurisce certo le complesse dinamiche che hanno investito e continuano ad investire l’area. Una delle evoluzioni geopolitiche più significative è strettamente legata al raffreddarsi degli entusiasmi europeisti. Mentre l’Unione guardava ai Balcani occidentali con crescente distacco, altre potenze regionali o globali hanno aumentato in modo visibile il proprio investimento politico, economico e geo-strategico nell’area. Due, la Russia e la Turchia, sono da sempre coinvolte nelle questioni balcaniche per prossimità geografica ed eredità storica e culturale. Dopo le batoste rimediate nella regione negli anni Novanta, Mosca ha ricostruito la propria sfera di influenza nella regione utilizzando innanzitutto lo strumento delle forniture energetiche e stringendo una forte collaborazione col governo di Belgrado. Pur incapace di ostacolare frontalmente le posizioni di forza dell’Occidente e la graduale espansione della Nato nei Balcani, la Russia ha sfruttato con successo crescente le debolezze euro-atlantiche, mettendone in evidenza le molte contraddizioni.

Anche il ruolo di Ankara si è gradualmente trasformato, e non nella direzione sperata dalle élite europee. A lungo l’influenza nei Balcani della Turchia – membro Nato e ancora ufficialmente paese candidato all’Ue – è stata vista come complementare a quella europea. Il carattere sempre più autoritario del regime dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, soprattutto dopo le proteste di Gezi Park (2013) e il fallito golpe del 2015, hanno però allontanato le strade di Bruxelles e Ankara, e fatto della Turchia una presenza ambigua nella regione, sospesa tra collaborazione e competizione.

Nuovo e potenzialmente dirompente è l’arrivo della Cina nei Balcani occidentali e nell’Europa sud-orientale nel suo complesso. Spinta soprattutto dalla sua strategia di espansione economica e commerciale, Pechino ha fatto della regione il punto di attracco in Europa dell’ambiziosa “Belt and Road Initiative”, la nuova “via della Seta” pensata per interconnettere i due estremi del continente euro-asiatico. Una scelta accompagnata da crescenti investimenti e finanziamenti diretti soprattutto ad ammodernare le reti infrastrutturali, al prezzo di crescente dipendenza delle fragili economie balcaniche verso il gigante cinese.

Influenze emerse in modo ancora più visibile dall’inizio della pandemia, quando sia la Federazione russa che la Cina hanno messo in campo un’aggressiva “diplomazia Covid”, fatta prima di medicinali e materiali di prima necessità e poi di vaccini, che anche grazie allo sforzo propagandistico hanno messo in ombra gli impacciati impegni – benché ben più consistenti – messi in atto nell’area dalla Commissione UE.
Dopo essere stati a lungo motore di un sostenuto fenomeno di emigrazione verso i paesi più ricchi del continente, alimentato dalla precaria situazione politica ed economica ereditata dagli anni Novanta, a partire dagli anni 2010, i Balcani nel loro complesso si sono trasformati anche in una terra di transito attraversata da migranti diretti verso l’Ue.

La crisi migratoria su quella che ha preso il nome di “rotta balcanica” a partire dal 2015 ha contribuito ad evidenziare il rapporto sempre più ambiguo tra l’Unione e i paesi dei Balcani. Con la chiusura formale della rotta, arrivata col controverso accordo tra Ue e Turchia del marzo 2016, che ha di fatto esternalizzato la gestione dei migranti ad Ankara in cambio di una contropartita economica, i Balcani occidentali sono diventati la frontiera esterna dell’Ue. Simbolo ed epicentro di questa nuova realtà è diventato il confine esterno dell’Ue tra Croazia e Bosnia-Erzegovina, dove migliaia di persone, soprattutto afgani, continuano a cercare una strada d’ingresso verso l’Unione. E se a parole il timone di Bruxelles era sempre diretto verso la stella polare del rispetto dei diritti umani e il consolidamento della democrazia, nella pratica i paesi dell’Ue hanno favorito la militarizzazione dei confini e l’innalzamento, fisico e simbolico, di muri e barriere. Per anni numerose Ong hanno denunciato respingimenti violenti e illegali portati avanti dalla polizia croata: un’accusa grave, che il governo di Zagabria ha a lungo respinto, per poi ammettere recentemente a mezza voce pesanti responsabilità, che però ricadono in gran parte sulla complessiva politica di gestione del fenomeno migratorio a livello europeo.

In un contesto internazionale evidentemente complesso, le società dei Balcani occidentali continuano a fronteggiare sfide interne alquanto consistenti mostrando anche non pochi elementi di vitalità. Dal punto di vista politico, il perdurare di un contesto di instabilità ha contribuito all’emergere di leadership forti e dal carattere spesso autoritario e illiberale. Figure che hanno segnato profondamente gli ultimi decenni come Aleksandar Vučić in Serbia, Milo Đukanović in Montenegro, Nikola Gruevski in Macedonia del nord, Edi Rama in Albania, Hashim Thaçi in Kosovo, Milorad Dodik in Republika Srpska: nonostante le innegabili differenze, hanno mostrato alcuni tratti comuni, come la tendenza a fagocitare le istituzioni, tenere sotto controllo i media, mantenere attraverso radicati fenomeni corruttivi una rete clientelare a sostegno del proprio sistema di potere. E non hanno esitato a riattizzare con marcato opportunismo politico la fiamma dello scontro etnico e nazionale quando necessario. Anche perché gli sforzi di una vera riconciliazione post-bellica nella regione, nonostante il forte investimento internazionale, hanno prodotto risultati solo parziali. Nonostante i ritardi e alcune innegabili ambiguità, il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia voluto dalle Nazioni Unite per giudicare i principali responsabili dei crimini commessi durante le guerre degli anni Novanta ha ottenuto alcuni innegabili successi. Personaggi di spicco come l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, i leader serbo-bosniaci Radovan Karadžić e Ratko Mladić, il generale croato Ante Gotovina, il comandante militare bosgnacco Naser Orić e quello kosovaro Ramush Haradinaj sono stati portati in giudizio, mentre il massacro di Srebrenica del 1995 è stato riconosciuto esplicitamente come “genocidio” nelle sentenze della corte.

Le accuse di parzialità “etnica” – soprattutto da parte serba – e la forte distanza tra l’operato del tribunale e le aspettative delle vittime hanno però spesso rafforzato vittimismi contrapposti, faticando a offrire una narrazione condivisa del conflitto. Una dinamica che si è riproposta anche in tentativi più recenti, come l’istituzione della Corte speciale per i presunti crimini della guerriglia kosovara (UÇK), i cui primi processi sono partiti nel settembre 2021.

Ma le sfide da affrontare nella regione hanno, naturalmente, anche carattere sociale ed economico. Tutti i paesi dei Balcani occidentali affrontano il grave problema dello spopolamento, avviato con le migrazioni degli anni Novanta e mai interrotto nei decenni successivi. Spostamenti forzati di popolazione dovuti alle guerre ex-jugoslave, ma anche massicce migrazioni verso l’estero, così come dalle campagne ai principali centri urbani, spinte dalla ricerca di migliori condizioni di vita. Una combinazione che ha indebolito il tessuto sociale e produttivo, impoverendo i Balcani occidentali di quelle risorse umane tanto necessarie per risanare e far ripartire l’economia, la società e la politica.

Ma non tutto è resa e abbandono: le società della regione continuano a offrire segni importanti di vitalità, complessità, dinamismo, riuscendo a tratti a mobilitarsi per difendere interessi comuni e superare barriere e incomprensioni. Ad esempio nella difesa dell’ambiente e degli spazi comuni: nel corso degli anni, iniziative dal basso sono cresciute e hanno ottenuto risultati importanti nella difesa dei fiumi – minacciati dalle pressioni per un loro sfruttamento energetico intensivo – dall’Albania alla Bosnia-Erzegovina, ma anche in Montenegro e Kosovo.

Belgrado, invece, è insorta contro i piani di speculazione edilizia che, sotto l’ombra degli interessi difesi dal governo centrale, hanno investito un quartiere della capitale sul fiume Sava. “Ne da(vi)mo Beograd!”, “Non cediamo Belgrado!”, ma anche “Non lasciamo affondare Belgrado!”, è lo slogan di chi è sceso in strada per difendere non solo il quartiere, ma anche la democrazia. Uno slogan che sintetizza il sentimento mai spento non solo di una città, ma anche di una fetta importante delle società balcaniche, e che continua a rispecchiarsi nell’ideale europeo, a prescindere dalle alchimie politiche che porteranno i Balcani occidentali a divenire o meno – in un futuro che resta incerto – parte integrante dell’Unione europea.

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