Holiday, il giorno che è santo
Il testo che presentiamo si riferisce a quella fase dell’attività che Grotowski sviluppò tra il 1970 e il 1978, comunemente nota come “parateatro”, o “teatro della partecipazione”, secondo una sua definizione degli anni novanta.
A cura di Carla Pollastrelli
Il testo che presentiamo si riferisce a quella fase dell’attività che Grotowski sviluppò tra il 1970 e il 1978, comunemente nota come “parateatro”, o “teatro della partecipazione”, secondo una sua definizione degli anni novanta.
Nel 1970, quando annunciò che non avrebbe più diretto spettacoli, Grotowski era all’apice della fama mondiale. Se la prospettiva del tempo ha permesso di individuare gli elementi di coerenza e di continuità nelle diverse tappe del suo cammino creativo, nei primi anni settanta l’abbandono del teatro segnò una rottura clamorosa.
La fase post-teatrale definì un nuovo orientamento nella ricerca di Grotowski e del Teatro Laboratorio: il superamento dell’idea di prodotto-spettacolo, della divisione tra attore e spettatore e della relazione regista-attore nella prospettiva della “cultura attiva”. Fin dalle prime battute di Holiday l’autore fa piazza pulita di ogni possibile riferimento al teatro e accenna invece agli “uomini che camminavano nei dintorni di Nazareth duemila anni fa” in cerca di ciò che è essenziale nella vita: “È la pienezza dell’uomo che è gettata sul piatto della bilancia”. Questo orientamento non serviva a definire un programma filosofico o speculativo, ma un nuovo campo di esperienze dove fosse possibile – per coloro che partecipavano – abbandonare la “corazza” delle convenzioni, delle maschere e dei ruoli sociali, delle ipocrisie e delle paure, e di conseguenza fosse possibile l’incontro tra esseri umani non divisi. Pertanto la proposta della “cultura attiva” ha determinato nell’arco di pochi anni una radicale riorganizzazione del Teatro Laboratorio: l’affiliazione di persone nuove, giovani (“la generazione parateatrale”), accanto all’ensemble degli attori; l’acquisizione di spazi di lavoro situati nella natura e la messa a punto di nuovi progetti autenticamente interattivi. Parola d’ordine era la partecipazione attiva. Nessuno era ammesso come osservatore, nemmeno giornalisti e critici.
Grotowski mise in campo tutto il suo credito di artista acclamato nel mondo per conquistare le condizioni necessarie a una ricerca pratica così radicale nella sfera della “cultura attiva”. Se il clima di quegli anni ci riporta al diffondersi globale della “contro-cultura”proveniente dalla West Coast e all’apparire della New Age, le esperienze parateatrali si caratterizzano per un approccio estremamente rigoroso, per nulla indulgente alle good vibrations o all’idea di incontro come generico “star bene insieme”.
In Italia, le attività parateatrali approdarono per la prima volta nell’autunno del 1975 a Venezia, al Festival della Biennale Teatro. Qui, nell’arco di circa due mesi, il Teatro Laboratorio realizzò un programma articolato che comprendeva vari workshop, lo Special Project, incontri di lavoro con giovani gruppi teatrali. Mentre Milano, per iniziativa del Centro di Ricerca per il Teatro, diventò nel 1979 il polo di diversi progetti parateatrali che ebbero luogo sistematicamente nel corso dell’anno.
Il testo, che ha il carattere di “manifesto” della ricerca praticata da Grotowski in quegli anni, è la traduzione dall’inglese di Holiday (święto): The day that is holy, la versione definitiva, autorizzata dall’autore, pubblicata in The Grotowski Sourcebook, a cura di Richard Schechner e Lisa Wolford, Routledge 1997. La prima versione di Holiday era apparsa in polacco nella rivista “Odra” nel 1972 con il titolo Święto (Il giorno che è santo) e poi tradotta in inglese, francese e italiano. Come emerge dalla nota informativa (di cui è autore Grotowski) che precede la redazione finale, si tratta piuttosto di un testo “palinsesto”, ricostruito dall’assemblaggio di vari interventi sullo stesso tema – originati da conferenze, incontri, seminari e mai composti a tavolino – con l’intento di elaborarne la stesura definitiva, ben più ampia della prima versione del 1972.
Questo scritto è incluso nel terzo volume dell’edizione italiana dei Testi 1954-1998 di Jerzy Grotowski, la prima a vedere la luce dopo l’edizione polacca del 2013. L’edizione italiana – a cura di Carla Pollastrelli che ne è anche traduttrice – si articola in quattro volumi usciti per i tipi de La casa Usher nella collana Oggi, del teatro, curata dal Teatro di Pontedera. I sottotitoli dei quattro volumi fanno riferimento alle tappe essenziali del percorso creativo di Grotowski e sono nell’ordine: La possibilità del teatro, Il teatro povero, Oltre il teatro, L’arte come veicolo.
Questi frammenti sono tratti da testi di Grotowski del 1972, basati in parte sulla trascrizione stenografica delle sue conferenze alla Town Hall di New York City il 12 dicembre 1970 e alla New York University il 13 dicembre 1970. Brevi passaggi sono stati tratti anche dal discorso di Grotowski dell’11 ottobre 1972 al seminario franco-polacco di Royaumont in Francia e dalla sua conferenza del 23 ottobre 1971 a Wrocław. La sequenza dei paragrafi segue quella delle domande poste dal pubblico.
Holiday: in polacco święto, questa parola nell’antico significato usato da Grotowski non ha un preciso equivalente in inglese. Non ha alcuna connotazione di vacanza o di giorno feriale, ma è direttamente imparentata con la parola “sacrum” o “santo”. Per quanto riguarda il suono, somiglia molto alla parola polacca światło, che vuol dire “luce”, ma non c’è alcun rapporto etimologico diretto. Święto non ha necessariamente attinenza con una religione in particolare e, sebbene abbia una connotazione fortemente sacrale, si usa anche in senso secolare. In ogni modo, sta a indicare qualcosa di speciale, eccezionale, extra-quotidiano.
Certe parole sono morte, anche se continuiamo a usarle. Tra tali parole ci sono: spettacolo, rappresentazione, teatro, pubblico ecc. Ma che cosa è vivo? Avventura e incontro: non quali che siano; ma che vi si compia quello che vorremmo ci succedesse e poi che succeda anche ad altri tra noi. Perché questo avvenga, di che cosa abbiamo bisogno? Per cominciare di un luogo e dei nostri; e poi che vengano anche i nostri che non conosciamo. Quindi per cominciare non dovrei essere solo e poi non dovremmo essere soli. Ma cosa vuol dire i nostri? Sono quelli che respirano “la stessa aria” e – si potrebbe dire – condividono i nostri sensi. Che cosa è possibile insieme? Il giorno che è santo.
La prima domanda che è stata posta è la domanda di un attore. Ha detto che il motivo stesso per cui si fa teatro gli impedisce di abbandonare realmente la corazza. Ha detto anche che è il bisogno di essere approvati dagli altri a far sì che l’attore mantenga la sua corazza. Sì, certo, credo che i motivi che ci hanno portato a fare teatro non siano limpidi. C’è chi vuole fare teatro in quanto impresa commerciale e c’è chi vuole essere acclamato in pubblico o acquisire una posizione o ricevere regali dall’alta società. D’altra parte sappiamo che in questo c’è qualcosa non solo di disonesto ma anche di sterile. Un uomo (człowiek) che offre la presenza del suo corpo in cambio di un guadagno materiale – in un senso o nell’altro – per questo stesso fatto si mette in una posizione falsa; oggi ancor più che in passato quando era una professione evidente nella sua ambiguità, simile a quella del buffone. D’altronde, anche la vita intorno sembrava più semplice, più stabile; atrocità si commettevano allora come sempre, ma sembravano lontane. Ognuno poteva sviluppare in sé la sensazione di occupare una posizione stabile nel mondo. Anche il mondo si considerava più o meno stabile – per quanto erroneamente – e riteneva che esistessero regole del gioco più o meno stabili, credenze più o meno stabili. Ma i tempi sono cambiati, anche a voler considerare un fenomeno singolare accaduto duemila anni fa nella periferia dell’immenso impero che abbracciava l’intero mondo occidentale, così com’era allora: alcuni uomini camminavano per lande deserte in cerca della verità. Cercavano in accordo con lo spirito di quei tempi che, a differenza di quello dei nostri tempi, era religioso. Ma se c’è una somiglianza tra quel tempo e il nostro, sta nel bisogno di trovare un senso. Se manca quel senso, si vive nella paura continua. Si pensa che la paura sia causata da eventi esterni, e non c’è dubbio che sono essi a scatenarla, ma quel qualcosa cui non riusciamo a tener testa fluisce da noi, è la nostra debolezza e la debolezza è mancanza di senso. Per questo c’è una connessione diretta tra coraggio e senso. Gli uomini che camminavano nei dintorni di Nazareth duemila anni fa – erano piuttosto giovani, ma ce ne siamo dimenticati e tradizionalmente sono rappresentati come vecchi sin dall’inizio – parlavano di cose strane e talvolta si comportavano incautamente, ma c’era nell’aria un bisogno di rifiutare la forza, di rifiutare i valori dominanti e di cercare altri valori sui quali poter costruire una vita senza menzogna. Se ho osato fare riferimento a quel momento, è per rilevare che – con tutte le differenze – quanto sta succedendo nel nostro secolo non succede per la prima volta e che noi non siamo i primi a perseverare nella ricerca. Ma se perseveriamo nella ricerca, ci sono cose che non si possono fare con la coscienza pulita: per esempio, salire su un palco e fingere, recitare una tragedia o una commedia per essere applauditi, giorno dopo giorno sforzarsi diligentemente di non perdere il proprio impiego, farsi avanti sulla ribalta, tenersi stretti a qualcuno che ci lancerà… Se sentiamo che questo è futile, già non è male, perché la situazione diventa meno falsa. Ma mille possibilità di fuga sono in agguato; fuga dalla vita, in realtà. Per esempio, se invece di impegnarci in politica, si fa politica a teatro, allora questa è una fuga ovvia; se invece di rivelarci per quello che siamo, fino in fondo, si sfruttano la nudità e il sesso come elementi decorativi, o quasi come nella pornografia, allora questo è peggio della fuga. Si potrebbero moltiplicare questi esempi. Si può inventare una nuova filosofia, lanciare nuovi nomi, proclamare nuovi metodi, praticare qualche tipo di esercizi e una sorta di dieta macrobiotica – in altre parole – si può trovare sempre qualcosa di nuovo per se stessi, delle apparenze.
Nella paura che è legata alla mancanza di senso, rinunciamo a vivere e cominciamo diligentemente a morire. La routine prende il posto della vita e i sensi – rassegnati – si abituano all’indifferenza. Di tanto in tanto ci ribelliamo, ma è solo per amore delle apparenze. Facciamo un gran chiasso, creiamo uno scandalo – non troppo violento, di solito, così che non minacci la nostra posizione, qualcosa di sufficientemente banale da poter essere accettato dagli altri con simpatia. Per esempio, ci ubriachiamo fino a perdere coscienza. Questo guscio, questo involucro, sotto cui ci fossilizziamo, diventa la nostra esistenza – ci induriamo e diventiamo rigidi, e cominciamo a odiare coloro nei quali balena ancora una piccola scintilla di vita. Questo avvolge tutte le nostre cellule e la paura di esporsi o che qualcuno ci tocchi è ancora più grande. Vergogna della pelle nuda, della vita nuda, di noi stessi e, nello stesso tempo, spesso, una totale spudoratezza laddove si tratta di mettere tutto questo in vendita al miglior offerente, come al mercato. Noi non ci amiamo, non amiamo più noi stessi; odiando gli altri tentiamo di curare questa mancanza di amore.
Con grande energia, pur nascondendo la nostra cupezza, ci diamo da fare con il nostro funerale. Quante operazioni sono necessarie, che sforzo, che rituale. E che cos’è questa morte? Vestire, coprire, possedere, fuggire, nobilitare il proprio fardello. Ma che cosa resta, cosa vive? La foresta. Abbiamo un detto in Polonia: Noi non c’eravamo – la foresta c’era; non ci saremo – la foresta ci sarà. E allora, come essere, come vivere, come generare come fa la foresta? Posso anche dirmi: sono acqua pura che scorre, acqua viva; e allora la sorgente è lui, lei, non io: lui che vado a incontrare, davanti al quale non mi difendo. Solo se lui è la sorgente, io posso essere l’acqua viva.
E adesso poche parole a proposito della morte, per così dire, finale. Alcuni dicono che l’uomo durante l’agonia vede la sua vita intera in un lampo, tutto quello che vi è stato di essenziale – una sorta di film. Non so se sia vero, ma supponiamo che sia così. Cosa pensate che vedremo in quel momento? Che cosa è importante, che cosa tornerà? Il momento in cui hai comprato un’automobile, quando il tuo capo ti ha elogiato, o quando un tiro che hai giocato è riuscito e ti sei sentito migliore degli altri perché sei stato più furbo?
Sono seduto di fronte a qualcuno che è simile a me e a molti di voi. Sento un bisogno, così tangibile che sembra potersi toccare con le dita, eppure non riusciamo a trovare le parole per definirlo. Gli faccio una domanda dopo l’altra – le domande che in realtà io stesso mi pongo: lui risponde e quando sento che non saprei dire se è la sua risposta o la mia, annoto quello che dice. E così gradualmente emerge la descrizione del nostro bisogno:
Essere “guardati” (sì, “guardati” e non “visti”); essere guardati, come è guardato un albero, un fiore, un fiume, il pesce in quel fiume.
Per quanto tempo si può continuare con la vita nella falsità, gettando fumo negli occhi alla gente, fingendo? Rinunciare alle fantasie, a quel “cosa posso aspettarmi?”; scendere sulla terra e tendere la mano – non è una mano pulita, non importa, ciò che importa è il calore del corpo. Togliersi abiti e occhiali e immergersi nella fonte.
So che adesso dovrei rispondere in maniera più “tecnica”, perché è stata posta una domanda di questo genere. Quello di cui sto parlando trascende il contatto psicofisico come lo vedeva Stanislavskij? Volete che dica che l’ho trasceso? Ho troppo rispetto per Stanislavskij per dirlo. Un tempo lo consideravo mio padre.
Stanislavskij si chiedeva come allestire testi teatrali, come mettere in scena una pièce senza tradire le intenzioni dell’autore e l’esperienza umana dell’attore. Se un attore recita Amleto, dovrebbe intendere tutto quello che succede nel dramma come circostanze date: dovrebbe pensare che ci sono paesi che sono come prigioni, che l’atmosfera in tali paesi è eccezionalmente tesa, che il principe ereditario ama molto sua madre ma forse ama ancor più suo padre, che suo padre è morto assassinato, ecc. Tutte queste sono le circostanze. Stanislavskij domandava all’attore: che cosa faresti se ti trovassi in quella situazione? Nel primo periodo, chiamiamolo psicologico, Stanislavskij poneva l’accento più sulla domanda: che cosa proverai, cosa sentirai? Nel secondo periodo – quello delle azioni fisiche – metteva piuttosto l’accento sulla domanda: che cosa faresti? Come ti comporteresti? Si potrebbe dire che l’attore, dal materiale della sua stessa natura, dovrebbe costruire l’immagine della parte, i suoi tratti. Penso che con Stanislavskij il teatro – in quanto arte dell’attore – abbia raggiunto il suo apogeo. Non era forse diviso l’uomo in questo genere di lavoro? Sì, certo e Stanislavskij sembrava presupporlo. Diceva, per esempio, che l’attore dovrebbe avere due prospettive: l’obiettivo del suo lavoro (ciò che esso darà allo spettatore) e quello che fa e pensa il personaggio che egli crea. Ci sono tuttavia diverse interpretazioni in proposito: per esempio, la prima prospettiva era descritta da Stanislavskij anche come una sorta di strategia creativa. L’attore sa già che il personaggio morirà nella scena finale della pièce – questa è la prospettiva dell’attore – quindi come deve preparare la morte?
Che cosa, per esempio, distingue quello cui noi tendiamo dalla sapienza di Stanislavskij, quella genuina sapienza del mestiere? Per noi la domanda è: che cosa vuoi fare con la tua vita? E allora: vuoi nasconderti o rivelarti? C’è una parola che in molte lingue ha un doppio significato: la parola scoprire. Scoprire se stessi significa trovare se stessi e nello stesso tempo scoprire ciò che era coperto: svelare. Se vogliamo scoprire noi stessi (come una terra finora sconosciuta), dobbiamo s-coprirci (svelare, rivelare noi stessi). “Ritrovare – svelare”. C’è qualcosa di straordinariamente preciso in questo doppio significato.
Non importa se senti che per te un dramma scritto è indispensabile come punto di partenza. Va bene. Forse sì, forse no. Ma se Amleto è per te un terreno vivo, puoi misurarti anche con lui; non in quanto personaggio, ma come se fosse un raggio di luce che cade sulla tua esistenza, che ti illumina così che non mentirai, non reciterai.
Che cosa intendeva Stanislavskij per azioni fisiche? Le vedeva come un comportamento ordinario, quotidiano: sto guardando, vi vedo, mi chiedo che cosa dire, mi concentro, rifletto di nuovo, di nuovo vi guardo, controllo il modo in cui reagite – sono le azioni fisiche essenziali, ma includono anche il mettersi a sedere, camminare, ascoltare, azioni diverse. Stanislavskij esigeva dall’attore che cercasse in esse una logica, la logica delle azioni, la consequenzialità del comportamento, e il motivo per cui in un dato momento avrebbe dovuto fare questo e non quest’altro.
Ma in quello che mi è prossimo, in quello verso cui tendiamo, le azioni quotidiane sono importanti? Talvolta, forse, sì; altre volte, no, affatto. In generale, tuttavia, le azioni ordinarie, quotidiane, che per Stanislavskij erano fondamentali, e giustamente nel suo caso, nella nostra prospettiva sono piuttosto mezzi con cui nella vita ci nascondiamo o ci muniamo di una corazza. Considerate il modo in cui vi comportate con i vostri amici al caffé come una rinuncia alla corazza? Eppure ognuno di voi deve averlo provato, quando è stato sincero fino in fondo – quello che gli succedeva non era ordinario, e non succedeva quando parlava, o quando parlava soltanto, ma quando era interamente nudo, come nell’amore vero, che non è solo ginnastica, ma ci pervade tutti interi, fino a farci perdere di fronte all’altro. Quello che facciamo allora è ordinario? Certo, ci sono azioni derivate dall’abitudine, ma non le più importanti. Perché non è ordinario? Perché in questo caso, quando tocchiamo, tocchiamo davvero, mentre quando tocchiamo nella vita quotidiana, pensiamo già a qualcos’altro.
Forse considerate come metafore tutto quello di cui vi sto parlando adesso. Non sono metafore. È qualcosa di tangibile e pratico. Non è una filosofia, ma qualcosa che si fa; e se qualcuno pensa che si tratti di un modo di formulare i pensieri, si sbaglia. È esperienza, deve essere presa alla lettera. Che si tratti di metafore… è proprio qui che comincia la differenza e qui è il cuore della difficoltà. È sufficiente capire che sto tentando – per quanto ne sono capace – di toccare l’esperienza dell’incontro, l’incontro con l’essere umano (czlowiek), per poter evitare questa parola: metafora… Sto parlando allora di un modo di vivere, di essere, più che di teatro?
Il comportamento di quella gente nelle lande deserte, che ho menzionato all’inizio, o le pratiche dello yoga o del buddismo, appartengono forse ad altre epoche? È successo in un’altra epoca e pertanto appartiene a un’altra epoca. Possiamo comprendere quella gente perché siamo arrivati a un punto simile, ma siamo incapaci di formulare una risposta a parole. Un’analisi di questo fenomeno ci porterebbe troppo lontano dal tema della nostra conversazione. Tuttavia, mi si permetta di dire che qualcosa rimane uguale in tutte le epoche, o per lo meno nei periodi in cui la gente è consapevole della propria condizione umana, ed è la ricerca. La ricerca di ciò che è essenziale nella vita. Per designarlo si sono inventati nomi diversi e in passato questi nomi avevano un’intonazione religiosa. Non credo di poter inventare nomi religiosi, per di più non sento affatto il bisogno di inventare parole. Ma la domanda su che cosa sia essenziale nella vita, che alcuni di voi possono ritenere astratta, è realmente di grande importanza. Molti la respingono; si sentono in dovere di sorridere come se stessero facendo pubblicità a un dentifricio. Ma perché sono così tristi? Forse si sono lasciati sfuggire qualcosa nella vita? Forse non si sono mai posti l’unica domanda che avrebbero dovuto porsi. Bisogna porsela. E la risposta? Non la si può formulare, la si può dare solo con un atto.
Ci diamo molto da fare per non trovare una risposta a questa domanda. Vogliamo imparare i modi: come recitare? Come fingere nel modo migliore di essere qualcosa o qualcuno? Come recitare i testi classici e quelli moderni? Come recitare i testi tragici e quelli comici? Ma se impariamo come fare, non riveliamo noi stessi; riveliamo solo il saper fare. E se qualcuno cerca i modi derivanti dal nostro presunto metodo, o da qualche altro metodo, lo fa non per abbandonare la corazza, ma per trovare asilo, un porto sicuro, dove poter evitare l’atto che sarebbe la risposta. Questo è il punto più difficile. Si lavora per anni e si vuole sapere di più, acquisire maggiori abilità, ma alla fine non si deve imparare ma disimparare, non sapere come fare ma sapere come non fare, e affrontare sempre l’atto. Rischiare la sconfitta totale, non una sconfitta agli occhi degli altri, cosa meno importante, ma la sconfitta di un dono mancato, vale a dire di un incontro fallito con l’altro, ovvero con se stessi.
L’uomo indossa forse di nuovo la corazza dopo che ha compiuto l’atto di sincerità carnale – dopo che ha deposto la sua armatura nell’incontro di cui parlo – e quando torna, per così dire, alla vita di ogni giorno? Per avvicinarsi all’“impossibile”, bisogna essere in qualche modo realisti. È possibile non nascondersi nella vita? È meglio se non ci nascondiamo, ma immaginiamo una situazione in cui avrete rifiutato tutti i mezzi di dissimulazione, ma gli altri non lo avranno fatto… forse si deve cominciare con certi luoghi speciali. Sì, penso che ci sia il bisogno urgente di un luogo dove non ci nascondiamo e dove siamo quelli che siamo, in tutti i sensi possibili della parola. Vuol dire che rimaniamo in un circolo vizioso – che la vita qui è differente da lì? No, penso che questa esperienza uscirà dal luogo di cui ho parlato e andrà fuori, uscirà da una piccola apertura, da un buco, da una finestra, da una porta, si insinuerà all’esterno.
In tutto questo c’è anche qualcosa come lavare la nostra vita. E mi viene in mente in modo molto letterale, tangibile, l’azione di lavare. Anche questo è il giorno santo, essere nel giorno santo, essere il giorno santo. Qui non c’è via d’uscita, si deve parlare per associazioni: ad alcuni sembrerà astratto, persino imbarazzante o ridicolo, per altri sarà tanto concreto quanto lo è per me. Anche da questo possiamo riconoscerci l’un l’altro. E allora, corro questo rischio e vi parlerò delle associazioni. Eccole, sono solo alcune, ce ne sono moltissime: giochi, giocare spensieratamente, vita, i nostri, tuffarsi, volo; uomo-uccello, uomo-puledro, uomo-vento, uomo-sole, uomo-fratello.
Ed ecco quella fondamentale, centrale: fratello. Essa racchiude “a somiglianza di Dio”, la dedizione e l’uomo (czlowiek). Ma anche fratello della terra, fratello dei sensi, fratello al tatto, fratello del sole, fratello della Via Lattea, fratello dell’erba, fratello del fiume.
È stata posta una domanda sull’idea di gesto come segno. In altre parole, esisterebbe qualcosa come il gesto che ha un significato… Ma il contenuto e i mezzi per esprimerlo esistono separatamente? Si deve avere l’idea e poi cercare i mezzi per metterla in pratica? Si pensa comunemente che questo sia l’unico modo. Devo confessare che lo ritengo del tutto falso. Se prendiamo questa via, sin dall’inizio siamo divisi tra pensiero e azione, intenzione e vita; abbiamo a che fare con certe “idee” prefissate e poi cerchiamo il modo di illustrarle. Naturalmente, possiamo costruire in questo modo e ci sarà una logica; possiamo esporre le nostre idee, ma questo artefatto non includerà mai pienamente colui che l’ha prodotto, o colui che viene in contatto con esso, perché non è possibile raggiungere la pienezza se si prende la via delle divisioni. Questo è, aggiungiamo, solo l’aspetto minore di un problema più vasto, quello dell’eterna divisione, rigidamente fissata, tra corpo e anima, una scissione che – in termini più moderni – ha preso il nome di differenza tra mente e corpo, o di distinzione tra ciò che è psichico e ciò che è fisico. Qualcuno ha menzionato “l’atto psichico” che, a quanto si dice, sto cercando, come se l’atto che noi cerchiamo potesse essere solo psichico. In questo atto, o piuttosto nel processo che porta a esso, l’essere umano (czlowiek) agisce con la sua presenza viva.
Qual è la prospettiva che si apre? Una prospettiva che trascende il mestiere dell’attore, con tutta la finzione, con tutto il “recitare”. È la pienezza dell’uomo che è gettata sul piatto della bilancia. Un essere umano nella sua interezza, vale a dire quello che è sensoriale e nello stesso tempo come pervaso di luce.
Può succedere tuttavia che quando avremo raggiunto qualcosa che rivela la nostra vita, vorremo vendere quella cosa agli altri. Ma in quel caso, la condanneremo inevitabilmente alla distruzione: infatti pur rimanendo all’apparenza la stessa, quella cosa sarà completamente distrutta. La schiavitù non lascia spazio alla verità. Quello che importa non è come assicurarsi l’approvazione dello spettatore. Non si deve cercare l’accettazione dello spettatore, ma accettarlo. La parola stessa spettatore, per quel che vale, è “teatrale”, morta. Essa esclude l’incontro, esclude la relazione uomo-uomo (czlowiek–czlowiek). Il nostro coraggio di scoprirci, di s-coprire noi stessi, ha un’altra difficoltà da superare, provocata dagli occhi dello sconosciuto. Non è sufficiente compiere ciò che ci rivela; si deve fare di più: fare sì che succeda, per quanto sia possibile, in piena luce, non furtivamente, ma apertamente. Allora, forse, questo è un “segno”, o lo diventa?
Che cosa vuol dire: non nascondersi? Semplicemente essere interi – “sono quello che sono” – allora la nostra esperienza e la nostra vita si aprono. E ogni esperienza essenziale della nostra vita si realizza per il fatto che qualcuno è con noi. E non importa se quest’altra persona è presente adesso, in questo momento, o è stata presente un tempo, o lo sarà; quella persona è qui adesso, tangibilmente, o esiste come un bisogno che si realizza – lui, lei, l’altro che arriva, emerge dall’ombra, pervade la nostra vita – si realizza nel nostro corpo, dentro di noi in carne e ossa. Siamo come un grande libro dove è iscritta la presenza di altri esseri umani, grazie a questo ogni esperienza importante diventa tangibile. Quando si compie un’esperienza essenziale lo sappiamo: qualcosa mi succede. E succede nel modo più concreto: nei sensi, nella pelle, nelle cellule. Non siamo noi a prenderne possesso, ma prende possesso di noi, e allora tutto il nostro essere trema e vibra. Siamo un flusso vivo, un fiume di reazioni, un torrente di impulsi che abbraccia i nostri sensi e il corpo intero. È questo il “materiale creativo” di cui domandate.
È facile cedere alla tentazione di inseguire la chiave miracolosa della creatività; è facile presumere che ci siano idee feconde e che si possano insegnare agli altri con facilità. È così che molte persone vedono la funzione dei nostri esercizi; gli stessi esercizi che noi abbiamo considerato solo come una sorta di test per scoprire i punti di resistenza del nostro organismo. O altrimenti: quegli esercizi avevano un senso perché, basandoci su di essi, potevamo talvolta recuperare la fiducia nel nostro organismo – essendo la mancanza di fiducia una causa frequente del fatto che siamo divisi. Allora, lo ripeto ancora una volta, questa è un’area in cui abbiamo lottato contro la sfiducia nel nostro corpo – in noi stessi – o, se preferite, in cui abbiamo affrontato certi ostacoli che ci opponevano la massima resistenza. Ho qualche timore che quest’ultima possibilità sia troppo concettuale ormai, sebbene ci sia una parte di verità in essa. In ogni modo gli esercizi non sono né un’introduzione e nemmeno un punto di partenza. Possono prepararci alla ricerca vera e propria, dare una disciplina, dare coraggio – direi – quando affrontiamo le nostre resistenze. Sono come una preghiera prima di qualcosa che si deve compiere; ma se uno prega tutta la vita, invece di fare, non avrà raggiunto un gran che.
Quando si parla di metodo, del metodo di qualcuno che era psicologicamente perspicace come Stanislavskij, logico nella sua linea di pensiero come Brecht, tecnicamente preciso come Mejerchol’d nella sua biomeccanica, di solito si vogliono trovare quelle chiavi miracolose che esenterebbero dal rivelarsi, dal dare una prova manifesta, dall’atto. E quando si parla di un metodo qualsivoglia, del “mio” metodo per esempio, il problema si riduce alla stessa cosa: quasi sempre lo si vede nelle categorie del “saper come fare”. Quando si dice che il metodo di Grotowski esiste in quanto sistema, l’implicazione è che si tratti di un falso metodo. Se è un sistema, e se io stesso l’ho spinto in questa direzione, ho contribuito a un malinteso; ne consegue che ho commesso un errore e che non si deve procedere in quella strada, perché insegna “come fare”, in altre parole, mostra come munirsi di una corazza. Ci muniamo di una corazza per nasconderci; la sincerità comincia laddove siamo indifesi. La sincerità non è possibile se ci nascondiamo dietro abiti, idee, segni, effetti scenici, concetti intellettuali, ginnastica, rumore, caos. Un metodo ha senso se ci spinge ad abbandonare la corazza, non perché è un sistema. Quando abbandoniamo la corazza non è possibile prevedere a priori alcun risultato, sapere cosa e come succederà, perché questo dipende esclusivamente dalla natura di chi compie l’atto. Non si possono assolutamente prevedere le forme a cui arriveremo, i “temi” alla cui tentazione cederemo, i fatti che ne seguiranno. Poiché questo dipenderà da ognuno personalmente. Non c’è una risposta da prendere come una formula cui si debba aderire.
Indispensabile non è il teatro ma superare le frontiere tra te e me; farmi avanti a incontrarti così da non perderci nella folla – o tra le parole, o in dichiarazioni, o tra pensieri finemente precisi.
Ovunque nel teatro professionale si possono vedere i sintomi della sua agonia e nello stesso tempo una battaglia convulsa per riacquistare la fiducia in qualcosa che non ci eccita più. E quando cadiamo preda di dubbi profondi, vogliamo soffocarli con il rumore, con il chiacchiericcio delle forme – o placando la nostra coscienza per mezzo di un nuovo metodo. Ma i dubbi rimangono.
Se qualcuno desidera essere sincero riguardo alla propria vita, dandole in pegno la propria carne e il proprio sangue, si potrebbe supporre che quello che egli rivelerà sarà esclusivamente personale, individuale. Eppure, non è del tutto vero; c’è qui un certo paradosso. Se si spinge la propria sincerità fino al limite, attraversando le barriere del possibile, o dell’ammissibile, e se quella sincerità non si limita alle parole, ma rivela l’essere umano totalmente, essa – paradossalmente – diventa l’incarnazione dell’uomo totale (czlowiek zupełny) con tutta la sua storia passata e futura. È allora superfluo prendersi la briga di analizzare se, e come, esista un’area collettiva del mito, un archetipo. Quell’area esiste naturalmente quando la nostra rivelazione, il nostro atto, arriva abbastanza lontano, e se è concreto.
È stata posta qui una domanda specifica relativa alla responsabilità, in altre parole all’ambito dei rispettivi diritti e doveri del regista e dell’attore, e a proposito della “creazione collettiva”. L’idea di gruppo come persona collettiva deve essere stata la reazione alla dittatura del regista, cioè di qualcuno che detta agli altri cosa devono fare, depredandoli di se stessi. Da qui l’idea di “creazione collettiva”. Tuttavia, la “creazione collettiva” non è nient’altro che un regista collettivo; vale a dire la dittatura esercitata dal gruppo. E non c’è alcuna differenza essenziale se un attore non riesce a rivelarsi – così come è – per colpa del regista individuale, o del regista di gruppo. Perché se il gruppo fa la regia, interferisce con il lavoro di ognuno dei suoi membri in modo sterile, infruttuoso – oscilla tra capricci, caso e compromesso tra tendenze differenti e il risultato sono mezze misure.
Se si suppone che durante le prove l’attore dovrebbe costruire la sua parte in qualche modo al di fuori di sé – se egli ne è semplicemente il materiale – l’essere umano non è libero. Ma chiedetegli di scoprirsi, di rivelarsi con il coraggio di attraversare le barriere, di essere sincero al di là delle parole e al di sopra della misura ammissibile, allora la sua libertà troverà espressione; non si tratta della libertà di fare qualsiasi cosa, a caso, ma della libertà di essere quello che siamo. L’“ordine” rimane, tuttavia, come il letto della corrente: che cos’è quello che abbiamo trovato e cosa non si deve tralasciare per continuare nell’azione? E ancora: come non resistere di fronte a un atto che sembra impossibile compiere? È molto difficile definire precisamente questo processo. Esso comincia realmente a prendere vita se il “regista” rivolge il suo essere all’“attore”, se smette di essere “regista” e si annulla; e d’altra parte, laddove l’“attore” non si nasconde davanti a lui e al suo partner e così non pensa a se stesso, alla sua paura. E non è più un “attore”. Non si può parlare di metodo qui. L’essenziale in questa faccenda intima è chi sta di fronte alla cosa che deve compiere, e nessuno può sostituirlo, nessuno può impegnarsi a farla al suo posto.
Nonostante tutta l’esperienza professionale, quello che è il germe, quell’atto che determina tutto, quello svelamento, non si può trovare tramite la perfezione tecnica, per mezzo del training. È qualcosa che si fa direttamente, qui e ora, oppure ci si rinuncia. Può succedere che qualcuno che sia arrivato da fuori e passi il primo giorno nel nostro gruppo, uno che non abbia mai fatto niente in teatro, grazie alla sua determinazione umana, compia lì per lì la cosa che noi abbiamo cercato per anni. Ma un altro giorno sorgerà un nuovo problema quando quel qualcuno vorrà ripetere l’atto in modo situazionale, “esteriore”, come un trucco, come un effetto, e lì perderà tutto. E noi, con la nostra esperienza del fallimento, dovremmo sapere che è impossibile che la cosa sia “ricostruita” come un effetto, come un trucco. Ma non è del tutto certo che ne siamo consapevoli: la nostra “vita professionale” ci tenta ancora a trasformare tutto in effetto.
Che cosa penso del talento? Ma che cos’è il talento? Di certo c’è solo qualcosa come la mancanza di talento. Un caso del genere si presenta quando qualcuno occupa un posto che – in modo naturale, palese – non gli appartiene. Il talento come tale non esiste, esiste solo la sua mancanza.
Che ruolo gioca il pubblico? Perché preoccuparsi di quale dovrebbe essere il ruolo del pubblico? E cosa vuol dire realmente “pubblico”? Noi facciamo qualcosa e ci sono altri che vogliono incontrarci. Questo non è pubblico, sono esseri umani concreti; alcuni aprono le porte, altri vengono all’incontro, tra noi succederà qualcosa. Questo è più importante che avere un’idea sul “pubblico” e il suo ruolo. Cos’è che dobbiamo fare e quali persone vogliamo incontrare? E cos’è che succederà a noi e tra noi? Queste sono le domande che ci poniamo continuamente, ogni volta; in tal caso il posto di coloro che sono venuti da noi emergerà da solo.
Uno slogan è echeggiato qui: Il teatro e la Chiesa stanno morendo. Torno ancora una volta su questo problema perché per me è molto importante. Abbiate pazienza, se ripeto certi esempi che mi sono molto prossimi. Gli uomini condividevano il pane e sentivano di condividere Dio. Condividevano Dio. E noi sentiamo il bisogno di condividere la vita, condividere noi stessi, così come siamo, interi, condividere il fratello, e se si è fratello – essere come pane non come uno zuccherino. Bisogna essere come pane, che non cerca di lusingare, ma è quello che è e non fa resistenza. Qual è il cammino? Come rivolgersi al fratello come se ci rivolgessimo a Dio? E poi – come diventare fratello? Dov’è la mia nascita – come fratello?