Harry Potter con(tro) Peter Pan
Il mirabile lavoro di Niccolò Argentieri, La più grande avventura. Figure del tempo nelle storie di Peter Pan e Harry Potter (Bonanno, Roma 2013, pp. 140) è un’opera di carattere filosofico, dedicata al concetto di tempo. Preso atto che il tempo è la variabile fondativa della nostra esperienza, Argentieri la affronta in modo mediato e non astratto, attraverso due narrazioni e due personaggi che sono diventati archetipi. Peter Pan e Harry Potter – celebri quanto fraintesi nella vulgata che deriva da quella celebrità – con le loro date di nascita parallele, uno a esordio e apertura del XX secolo, l’altro del XXI secolo, diventano nel suo discorso due poli fondanti, opposti e insieme interconnessi, intorno a cui si costruisce non solo l’esperienza del tempo che l’essere umano fa, ma anchela stessa esperienza di costruzione di sé e della propria identità, che dentro il tempo della sua vita è costretto a compiere.
La sindrome di Peter Pan e il generico “successo” che caratterizza Harry Potter non rendono certo giustizia alla complessità delle due figure e del legame che intrattengono con il loro tempo storico. Peter Pan che fugge dall’Inghilterra vittoriana, troppo seria e grigia, in un complesso (e doloroso) rifiuto, non si può ridurre a infantilismo: la sua è una sospensione dell’esperienza che ferma i propri passi, e lui è un personaggio che affonda le sue radici nella psiche individuale e nell’accettazione (o non accettazione) dell’ordine del mondo e dei rapporti umani al di fuori dei Giardini di Kensington. Harry Potter, che un secolo dopo abbandona la scuola in cui, anche lui, sta crescendo e formandosi, non è solo un personaggio avventuroso e famoso, lontano dal mondo babbano: quella che ingaggia con Voldemort è una tragica battaglia per la vita e per la morte.
Ripercorrendo il discorso di La più grande avventura,mi concentrerei soprattutto sul secondo personaggio, la cui vasta diffusione tra lettori giovani lo rende anche un notevole strumento di comunicazione simbolica e intergenerazionale. Condividere una storia spesso, parlare attraverso lo schermo riflettente di una narrazione, è più fruttuoso che fare prediche: in una narrazione punti di vista diversi si incrociano, si scontrano, convivono.
Per la saga di Harry Potter, Argentieri propone l’interessante categoria di neoromanzo di formazione. Il romanzo di formazione (senza “neo”) è genere soprattutto ottocentesco; è il genere che tematizza la giovinezza e la sua straordinaria condizione di passaggio, ad uso e consumo della borghesia trionfante e autocompiacente. Il romanzo di formazione si inscrive in quel campo di lotta tra chi vuole e sceglie di essere il giovane eroe-protagonista, e chi accetta di essere o gli è permesso di essere dalla società in cui vuole entrare. Da Wilhelm Meister al Rosso e il nero, dalle Illusioni perdute all’Educazione sentimentale, i capolavori del romanzo ottocentesco mettono in scena le molte variabili possibili di ciò che un giovane può o vuole essere in quella società (o non può, o non vuole essere).
Sul destino del genere nel Novecento, i critici danno pareri discordi. Franco Moretti, che ne è il maggiore teorico, sostiene che esso muoia con l’Ottocento: nel secolo successivo diviene impossibile risolvere nell’interiorità dell’individuo il conflitto tra la spinta all’autodeterminazione e quella alla socializzazione (che è poi l’operazione simbolica compiuta dal romanzo di formazione). Altri invece ritengono che, tutto sommato, nel Novecento come nell’Ottocento, il romanzo di formazione continui a essere una miscela di illusioni e disinganno, speranze e smarrimento: stessi ingredienti in proporzioni diverse. Certo è che alla fine del Novecento sembra venir meno un polo fondamentale nel percorso di formazione: gli adulti. Gli adulti diventano poco attraenti, o poco adulti: sembra quasi che il polo opposto alla giovinezza non sia più quello della maturità ma piuttosto l’orrida vecchiaia, e nessuno vuole fare la parte del vecchio ormai privo di possibilità: tutti vogliono sostare nella giovinezza e nelle sue infinite potenzialità. La scelta deresponsabilizzante di Fréderic nell’Educazione sentimentale, il desiderio della gioventù di “essere se stessa” e dunque di “conservarsi in quanto gioventù” (Moretti) è diventato il gesto di un’intera società. E se tutti vogliono fare come i giovani, chi si scontra con i giovani? E per entrare in quale società adulta devono scendere a compromessi i giovani, se gli adulti sono diventati tutti aspiranti giovani dediti a una chimerica libertà assoluta e sciolta dai compromessi?
All’inizio del nostro secolo, la saga di Harry Potter è una versione allargata e aggiornata al presente del romanzo di formazione, che segue il percorso di un individuo dall’infanzia alla maturità, attraverso l’adolescenza. Come Pip in Grandi speranze,Harryè un orfano disadattato e infelice; come un ragazzo moderno è anche alle prese con la sua immagine, con la sua fama e il suo successo, che lo precedono nella scuola di Hogwarts, è potenzialmente un mitomane (lo capisce Rita Skeeter), deve dare una consistenza profonda a quella fama superficiale o liberarsene per trovare la verità.
In uno schema in cui fluisce molta cultura popolare di fine secolo, da Guerre stellari a Indiana Jones in lotta con i nazisti, Harry affronta una serie di prove, incontra alcune figure di genitori e fratelli adottivi (adulti che si comportano da adulti…), che lo aiutano a capire chi è, a ricostruire l’immagine del proprio passato familiare e scegliere il proprio futuro [Qui chi non ha ancora letto il romanzo in sette parti della Rowling e vuole leggerlo, salti al capoverso successivo]. Compie le sue scelte e conclude la sua socializzazione fino al massimo grado di normalità immaginabile: il matrimonio, i figli… Ma prima c’è stata la scuola e la fuga da scuola, l’avventura e il pericolo, la caccia solitaria agli Horcrux (solitaria, perché da un certo punto in poi nessun adulto può più essere d’aiuto).
Nonostante la grande presenza dell’avventura, il romanzo è in realtà tremendamente serio, e il successo di qualcosa di così serio fa pensare che forse tutti i discorsi sull’apatia e irresponsabilità dei giovani siano discorsi di adulti disperati perché non sono più giovani, di adulti nostalgici che pensano non ci sia nulla di importante da contrapporre all’apatia e all’irresponsabilità. La Rowling invece congeda i giardini di Kensington dove resta ad abitare per sempre Peter Pan, senza però negarne l’esistenza, il fascino e la pericolosità.
Harry Potter è una nuova variante del romanzo di formazione, che piace prima di tutto a chi si sta appunto formando (e quelli che a priori lo liquidano senza averlo letto sono soltanto snob). Il personaggio che è diventato un’icona pop (il “maghetto”), pur parlando il linguaggio del presente, è in realtà in netta controtendenza con esso, non solo perché il suo è un Bildungsroman in tempi in cui nessuno vuole più assumersi responsabilità, ma anche perché il completamento del suo percorso prevede l’accettazione della morte. Il suo nemico, Voldemort, è ossessionato dalla morte fino a diventare schizofrenico nel tentativo di ingannarla (come il nostro tempo, che canta il desiderio di essere for ever young). [Qui chi vuole leggere il romanzo della Rowling salti nuovamente al capoverso successivo] Harry lo sconfigge perché invece non ha paura della morte, e non ha paura perché al fondo della sua identità trova simbolicamente un legame interpersonale – quello stesso legame con la madre negato a Peter Pan e a Barrie –, che a sua volta se ne tira dietro altri. Non ha paura perché sceglie questa “strada dei legami”, sceglie di proteggere la vita di chi gli sta vicino: dei doni della morte, che chiudono la saga nel suo settimo volume, rinuncia alla bacchetta invincibile e alla pietra della resurrezione,e conserva solo il mantello della invisibilità, che serve appunto a proteggere (ed è un caro ricordo).
È proprio la questione della morte che rende il conflitto tra Voldemort e Harry qualcosa di ben diverso dal solito scontro manicheo tra bene e male, e che rende Voldemort un erede triste e sconfitto di Peter Pan. Non a caso è la morte “la più grande avventura” che dà il titolo al volume, riprendendo un’espressione curiosamente condivisa da Peter Pan con il preside di Hogwarts, Albus Silente. Peter e Harry si muovono in due concezioni del tempo diverse e tuttavia complementari, nelle quali la morte sembra trovare una diversa collocazione. Peter Pan sta nel tempo circolare del mito ed Harry Potter nel tempo lineare della biografia individuale e del romanzo.
Le figure classiche del tempo (retta e circonferenza) vengono legate tra di loro in modo originale da Niccolò Argentieri, con gli strumenti della topologia geometrica, che mettono in evidenza un rapporto poco intuitivo. Tutti i punti che costituiscono una circonferenza possono essere proiettati su una retta, tranne uno: un fatto che capovolge l’idea comune dell’infinità della retta e completezza conchiusa del cerchio (alle pagine 13-14 del volume, la spiegazione matematica, cristallina nella sua chiarezza, di quello che mi rendo conto di dire qui come fosse un dogma religioso).
La morte potrebbe essere allora il punto mancante della circonferenza che non si può proiettare sulla retta. Il capovolgimento è suggestivo: la morte sembra essere contenuta nel cerchio e non può essere proiettata sulla retta: la retta, la figura geometrica di Harry Potter, che a differenza di Peter Pan accetta la morte, non prevede il punto di fuga della morte, che resta imprigionato nel cerchio di Peter Pan. Come se il tempo di una vera esperienza fosse sempre circolare e retto, come se il senso della nostra esperienza fosse sempre immanente e trascendente. Retta e circolo partecipano una dell’altro, e forse il percorso lineare di Harry Potter non è interrotto come quello circolare di Peter Pan, ma continua in altre linee, forse Harry Potter continua a portarsi dentro il suo Peter Pan. Accettare la morte permette a Harry di vivere nella realtà, cosa che non è possibile per Peter e per tutti quelli che portano dentro di sé solo Peter Pan.