Guerra nei Balcani trent’anni dopo: dove l’Occidente fallì

Domenica, 4 maggio 1980. Si stava concludendo il lungo ponte del I maggio. Nel tardo pomeriggio i cittadini erano oramai rientrati a casa e proprio in quel momento tutte le stazioni radiofoniche e televisive jugoslave trasmisero la notizia che “il grande cuore del compagno Tito aveva smesso di battere”. Una ondata di cordoglio attraversò la Federazione. A Spalato si stava giocando una delle partite di cartello del campionato di calcio. La locale formazione dell’Hajduk affrontava gli storici rivali della Stella rossa di Belgrado. Quando la partita venne interrotta molti giocatori scoppiarono in lacrime, mentre dagli spalti si alzò il canto “Compagno Tito, noi ti giuriamo che non abbandoneremo la tua strada”.
Il feretro del Maresciallo venne portato in piazza della Rivoluzione a Lubiana. La pioggia era battente. Davanti ad una marea umana in lacrime, tutti quelli che contavano in Slovenia resero omaggio al padre padrone della Jugoslavia socialista. Se qualcuno in quel momento avesse detto che undici anni dopo proprio in quella stessa piazza sarebbe stata proclamata l’indipendenza sarebbe stato preso per matto.
Sulla Jugoslavia però aleggiavano già molte nubi. Con Tito la Federazione socialista perdeva gran parte del suo prestigio internazionale e dietro di lui non c’era nessuno in grado di raccoglierne l’eredità. In quegli anni stavano scomparendo, in rapida successione, tutti i “padri della patria”, cioè gli esponenti di quella generazione di politici, usciti dalla Resistenza, che avevano saldamente tenuto in mano la barra del paese.
La pacchia degli anni Settanta era finita. Le autorità erano alle prese con una crescente crisi economica, tanto che non sapevano nemmeno dove andare a prendere i soldi per rifornire la Federazione con sufficienti quantitativi di petrolio. Si pagava lo scellerato balzo in avanti promosso senza criterio dieci anni prima, quando Tito ed i suoi fedelissimi decisero di decapitare le leadership politiche liberali di Serbia, Croazia e Slovenia e di ricompensare i cittadini con un repentino aumento del tenore di vita. La Jugoslavia era diventata un cantiere, grazie ad una pioggia di prestiti contratti all’estero. Milioni di tonnellate di cemento vennero versate, tanto che c’era chi diceva beffardamente che sulla bandiera la stella rossa avrebbe potuto essere sostituita da una betoniera. Megalomaniaci progetti di sviluppo industriale presero corpo, alcuni dei quali sin dall’inizio erano destinati a creare più perdite che utili; mentre una fetta consistente dei soldi era impiegata per edificare case della cultura o strutture che comunque non erano destinate a produrre ricchezza, a rilanciare le zone depresse o a colpare il gap tra nord e sud.
Era giunto il momento di pagare i debiti. Per farlo l’establishment jugoslava decise di puntare tutto sulle esportazioni ed anche di evitare di spendere per rifornirsi all’estero. Le nuove misure autarchiche introdotte svuotarono gli scaffali dei negozi. Caffè, banane e cioccolato divennero merce rara, ma qualche volta diventarono introvabili anche gli assorbenti igienici. Per evitare che i cittadini andassero a rifornirsi all’estero venne introdotta una tassa sugli espatri, mente furono introdotte le tessere annonarie per il carburante, la circolazione a targhe alterne e addirittura il razionamento della corrente elettrica. Intere zone- città comprese- nelle ore serali venivano staccate dalla rete di distribuzione. Nelle aziende e persino nelle riunioni di condominio si discuteva di uscire dalla crisi. “Importanti decisioni” vennero prese a tutti i livelli: i giornalisti si ripromisero di essere più parsimoniosi nell’uso di penne e block-notes, mentre gli inquilini di svariati condomini constatarono che sarebbe stato il caso di spegnere la luce nei corridoi della loro palazzina.
In realtà nessuno sapeva che pesci pigliare. Il farraginoso sistema politico non lasciava spazi di manovra per decisioni rapide, mentre la classe politica era più impegnata a passare da una poltrona ad un’altra che a governare. L’ordinamento lasciato in eredità da Tito e dal suo ideologo Edvard Kardelj, infatti, prevedeva avvicendamenti alle massime cariche, anche con cadenza annuale ed anche una serie di pesi e contrappesi tra federazione e singole repubbliche; tanto che controllare la propria repubblica era più importante che andare ad occupare un’alta carica a Belgrado.
Ben presto si accese uno scontro sempre più intenso tra chi avrebbe voluto centralizzare il paese e chi invece non aveva nessuna intenzione di rinunciare alle prerogative che la costituzione jugoslava garantiva. Gli sloveni in Jugoslavia avevano raggiunto cose che mai prima avevano avuto: lo sloveno era diventata una delle lingue ufficiali dello stato, avevano la loro repubblica, il loro parlamento, la loro bandiera e persino una sorta di esercito, visto che controllavano i propri riservisti. Lubiana non era disposta a barattare tutto ciò in nome di una maggiore efficienza. D’altra parte, la Serbia era sempre più insoddisfatta della sua posizione. Ampie comunità serbe vivevano fuori dai suoi confini, mentre la stessa repubblica doveva fare i conti due province autonome (Vojvodina e Kosovo), su cui non aveva praticamente nessun controllo. Progressivamente negli anni Ottanta lo scontro si sviluppò proprio sulla direttrice Lubiana-Belgrado.
L’idea “eversiva” che cominciò a svilupparsi a Lubiana fu quella che le leggi andassero prese alla lettera e rispettate. Era quello il miglior modo per tutelare le prerogative repubblicane nei confronti di chi avrebbe voluto imporre dagli uffici federali le sue regole. Nel far questo la Slovenia cominciò ad applicare gli stessi propositi anche a casa propria e così cominciò ad ampliarsi il limite del consentito: la società si stava democratizzando. Ben presto presero corpo idee e considerazioni che nel resto del paese sarebbero state punite severamente. Prima si cominciò con la musica e con la libertà artistica. Il regime venne preso di mira quando iniziò a reprimere i punk e ben presto le richieste di libertà e i diritti si estesero anche in altri campi. Lubiana riscoprì la sua anima mitteleuropea ed a temere – sull’onda delle teorie kunderiane, che profetizzavano la dolce morte del Centro Europa – che il popolo sloveno stesse andando verso l’estinzione. Il tutto si tramutò in un ostentato antijugoslavismo quando, alla fine degli anni Ottanta, i militari, convinti che era loro compito salvare la Jugoslavia, intervennero incarcerando alcuni esponenti del dissenso sloveno.
A Belgrado, invece, la locale dirigenza stava sviluppando la convinzione che la Serbia fosse vittima della Jugoslavia e che i serbi vincevano in guerra ma perdevano in pace. Il progetto che si sviluppò fu quello di unire nuovamente tutti i serbi in un’unica entità. Per far questo vennero prese d’assalto e “normalizzate” le province autonome e si strinse una salda alleanza con i montenegrini, nella speranza di poter prendere il controllo su tutto il paese, o almeno delle aree a maggioranza serba. Fu quello il periodo di raduni oceanici, dove un immenso numero di persone lanciavano epiteti contro gli avversari e invocavano a gran voce le armi per risolvere a modo loro la crisi jugoslava.
Alla fine, gli sloveni ruppero gli indugi. Accantonato il sistema a partito unico, il parlamento decise di indire un referendum sull’indipendenza; a ruota seguirono anche i croati. La Jugoslavia si stava sgretolando. La comunità internazionale, all’epoca era in tutt’altre faccende affaccendata. Il Muro di Berlino era crollato, c’era da gestire la Guerra del Golfo e le sue conseguenze. La Jugoslavia, senza il suo ruolo di cuscinetto tra Oriente ed Occidente e con il Movimento dei non allineati oramai privo d’importanza era tornata ad essere un’area di scarsa importanza ai margini d’Europa, che – per dirla con Bismarck – “non valeva e ossa di un solo granatiere di Pomerania”. La Comunità economica europea cercò di salvare il salvabile e di appoggiare il governo jugoslavo ed i suoi tentativi di tenere unito il paese. Con gli aiuti economici – come disse il ministro degli Esteri italiano, Gianni De Michelis – si credeva di poter creare una logica convenienza nello stare insieme, ma quello che l’Europa all’epoca non capì fu che oramai il genio del nazionalismo era fuggito dalla lampada e che i leader nelle varie capitali della Federazione non interessava più seguire questo tipo di ragioni.
I primi ad andarsene furono gli sloveni. A quel punto l’esercito si mosse. I militari incarnavano quello che restava dello spirito jugoslavo. Tito gli aveva sempre coccolati, tanto che a livello federale avevano lo status di una sorta di settima repubblica. Gli scontri durarono dieci giorni e non degenerarono mai in una guerra aperta. Da una parte i militari di leva, dall’altra le unità slovene ben più motivate. Ben presto l’esercito jugoslavo se ne andò lasciando la Slovenia al suo destino. Lì non c’erano minoranze serbe da difendere e nemmeno territori da rivendicare. La guerra invece stava già divampando in Croazia, dove già mesi prima erano iniziate le operazioni per la secessione dei territori a maggioranza serba. Ci vollero, massacri e violenze d’ogni genere prima che la comunità internazionale si decidesse ad intervenire. Una guerra, che si trasformò in tragedia quando il conflitto si trasferì in Bosnia ed Erzegovina. Una repubblica con le varie etnie sparse a macchia di leopardo, che i serbi avrebbero voluto bonificare etnicamente; un progetto che non dispiaceva nemmeno ai croati per i territori in cui erano in maggioranza. Ad andarci di mezzo i mussulmani/bosgnacchi che pagarono il prezzo più alto. Poi il conflitto si trasferì in Kosovo, con alcuni scontri anche in Macedonia.
A trent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia il bilancio è in chiaroscuro per i paesi che sono sorti dalle sue ceneri. La Slovenia è stata inizialmente la storia di un successo. Il paese aveva lasciato presto il calderone balcanico per cominciare a correre verso l’Unione europea e la Nato. Il tenore di vita dei suoi cittadini cominciò a crescere, il livello di tutela dei diritti umani e degli standard democratici si dimostrò eccellente. Una unica macchia resta su quel periodo: quella dei “cancellati”. L’amministrazione depennò dal registro dei residenti, coloro che non avevano fatto domanda di cittadinanza. Si trattava perlopiù di persone provenienti dalle altre repubbliche della federazione che per scelta o per sbadataggine non avevano chiesto il passaporto della nuova repubblica. La loro odissea si protrasse per anni, prima che Lubiana ammettesse di aver sbagliato.
La Croazia ci mise anni per uscire dalla guerra e per riconquistare i territori a maggioranza serba. Nel paese l’ubriacatura nazionalista portò a persino a modificare la lingua e ad avviare un’ampia campagna di ingegneria che portò all’introduzione di termini inventati di sana pianta per affrancarla quanto più dal serbo. Dalle zone riconquistate se ne andò una buona parte della popolazione serba. Nulla fu fatto per trattenerla, anzi ci fu più di qualche invito esplicito ad andarsene. Il paese è riuscito, comunque, ad entrare nella Nato e a prendere l’ultimo treno per entrare nell’Unione europea. Un grande risultato per Zagabria che ha recuperato in poco tempo tanto terreno, anche se resta ancora fuori dalla moneta unica e da Schengen. Saranno i prossimi difficili traguardi da raggiungere.
La Bosnia è il territorio che paga il prezzo più alto non soltanto per la guerra, ma anche per la pace. Se l’Accordo di Dayton da una parte ha avuto il merito di fermare gli scontri, dall’altro ha cementato le divisioni e probabilmente ha reso ingestibile un paese dove tutto si gioca tutto sulla segregazione etnica delle sue componenti.
La Serbia voleva molto ed alla fine ha perso tanto. È stata inondata dai profughi, colpita dalle sanzioni internazionali, bombardata e ne è uscita menomata territorialmente. Alla fine, ha dovuto cedere il Kosovo, che la mitologia nazionalista serba considera la culla della loro civiltà. Lì gli albanesi, vessati per decenni da Belgrado hanno finalmente potuto tirare un sospiro di sollievo quando le truppe serbe sono state costrette a ritirarsi, ma la giovane repubblica sembra più un protettorato internazionale che uno stato vero e proprio.
Il Montenegro, dopo essere stato per anni un fedele alleato di Belgrado, ora è entrato nella Nato. Il paese si dibatte tra Occidente e Oriente, gestito da una classe politica che è spesso al centro di feroci polemiche e loschi intrighi di vario genere.
La Macedonia del Nord ha cercato di ricostruire la propria memoria storica riscoprendo Alessandro il macedone. La cosa ha creato non poca irritazione ad Atene, che non aveva mai tollerato nemmeno l’uso del nome Macedonia. Il contenzioso ha reso difficilissimo il cammino europeo della ex repubblica jugoslava. Il paese deve fare i conti con una forte instabilità politica, acuita anche dalla forte presenza della comunità albanese, con cui i rapporti spesso non sono stati semplici.
Per lo storico Jože Pirjevec le guerre jugoslave sono state combattute da gente che sapeva sgozzare agnelli. Quel conflitto resta una macchia per l’Europa, che non ha saputo e voluto fermare gli scontri prima che sfuggissero di mano. Difficile togliersi dalla testa la convinzione che se i bombardieri occidentali fossero partiti per spezzare l’assedio di Vukovar la Jugoslavia si sarebbe dissolta comunque, ma le vittime sarebbero state molte di meno. L’assedio della città croata durò 87 giorni e la sua presa si trasformò in un bagno di sangue e fu il preludio di altre stragi, spesso messe in atto davanti alle forze internazionali, come accadde a Srebrenica.